le voci che corrono

Ando Gilardi

>Ando Gilardi, Storia sociale della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 2000

"A venticinque anni dalla prima edizione Feltrinelli, torna in libreria la Storia sociale della fotografia di Ando Gilardi (Bruno Mondadori, pp. XVII-462,L95.000). La monumentale opera è stata ristampata in formato più piccolo rispetto all'originale, ma senza alcuna variazone sia nell'impaginazione e nel ricchissimo apparato iconografico, sia nel testo, salvo una nuova premessa dell'autore. Un salto di generazione, un salto di secolo e di millennio ci divide dal tempo di ideazione e di redazione del volume…"

"Lo slogan pubblicitario "voi schiacciate il bottone, noi facciamo il resto" inaugura l'epoca del consumo di massa delle immagini, reso possibile dall'industria senza intelligenza e senza profondità della fotografia istantanea, quella che secondo Gilardi conduce inesorabilmente alla polverizzazione e alla sparizione dell'immagine, essendo diventata la fotografia il luogo "dei consumi delle icone", consumi "che avvengono nel mentre si suppone di produrle". La storia sociale della fotografia diventa cosi la storia della transizione dalla civiltà delle immagini alla società dello spreco iconico dove "per spreco si intendono due cose: un consumo fulmineo, quasi istantaneo come la ripresa più corrente; e il dedicare un'immagine anche a un soggetto inutile e indifferente, poiché nessun oggetto è diventato più indifferente e inutile dell'immagine stessa". Gilardi finisce così col negare qualsiasi valore, anche solo documentario, alla fotografia istantanea e irride tutto il percorso, dalla Straight Photography di Alfred Stieglitz, Edward Steichen e Paul Strand, alla fotografia sociale di Jacob Riiss e Lewis Hine, dai fotografi della Farm (F.S.A) - i cui sostenitori vengono sprezzantemente definiti "farmacisti" - ai reporter Magnum; Robert Capa in particolare.

Analizzata unicamente dal punto di vista materiale, ovvero industriale, la vicenda culturale e sociale della fotografia è davvero impossibile a comprendersi. La pretesa di Gilardi è, a tutti gli effetti, quella di uno storico della letteratura che volesse farci capire il cammino del romanzo dall'Ottocento ai giorni nostri, dal punto di vista dell'invenzione è della produzione industriale della penna stilografica o della machina da scrivere. La storta della fotografia è, soprattutto, storia di visione, di scoperta concettuale, esistenziale…"

Giovanni Chiaramonte, "Alias-il Manifesto", 27 gennaio 2001

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Ponzone, Alessandria

"La casa di Ando Gilardi spicca fra le colline, ha vistose tende gialle sul davanti e un muretto al sole che manda bagliori coloratissimi, sono piastrelle dipinte che formano quadri, ce n'è uno ad esempio che sembra Warhol e un altro che sembra Picasso. E poi nel giardinetto affiorano statue in gesso bianco con un braccio o una testa colorata, e svettano pappagalli e tacchini di compensato dipinti di rosso giallo e blu che girano col vento. Che tipo strano dev'essere Ando Gilardi. Gilardi è un fotografo, è quasi una leggenda, è un pioniere sia nella valorizzazione della foto come documento storico sia nella didattica della fotografia e più ampiamente nella fotografia come mezzo didattico. Ha lavorato con antropologi come de Martino, Seppilli e Carpitella. Ha fatto il fotoreporter per "il Lavoro" e per "l'Unità", ha fondato negli Anni 50 la Fototeca storica nazionale, che ora a Milano ha più dimezzo milione di immagini, e ha diretto riviste famose come "Phototeca" e "Photo 13" e scritto libri come Storia infame della fotografia pornografica, Wanted e questa Storia sociale della fotografia che ora riappare dopo 25 anni nelle edizioni Bruno Mondadori (pp462, L.95.000), un'opera documentatissima che ha contribuito a far scendere la fotografia "dall'altae dei miti sul terreno storico", come scrive lui stesso. Insomma, Gilardi è un'autorità, un maestro.

Eccolo, Gilardi. Barba bianca imponente, berretta di lana, felpa azzrra e sciarpa rosa, parla e parla moltissimo con una vitalita tumultuosa e contenta e cammina appoggiandosi a un bastone per via di una lontana poliomielite. Ha 79 anni. Il suo studio, la sua tana, è un salotto delle meraviglie, ha qualcosa di fiabesco e di orientale: una coperta verde a disegni vivaci sul letto circondato da assi di legno, cuscini multicolori, e quadri, quadri dappertutto, quadri semplici, corposi e luminosi, di pasta densa, ricca, che rappresentano perlopiù pesci e donne nude e che nell'insieme ricordano gli incanti di Chagall, di uno Chagall robusto, visitato da Pollock e da Appel. "Ora dipingo - esclama Gilardi - i quadri sono miei, li ho fatti io".

"S'incammina di scatto verso un ascensore che poi scende lentissimo e approda al laboratorio, un vasto scantinato dove compaiono bidoni, rotoli di un isolante termico che sostituisce la tela dei quadri, tavoli, un frigo e una lavatrice ridipinti di rosso e un potente sintetizzatore con cui Gilardi equilibra i suoni dei cd di Louis Armstrong che manda a tutto volume "da far tremare la casa, ma qui siamo interrati tre quarti".

Torna nello studio gremito di libri, cd e telecomandi e racconta che per 20 anni ha fotografato capolavori di pittura e capito: "I musei servono per far sentire più stupide le persone, ha ragione Adorno. Io voglio l'opposto…"… "Dice che è per un'arte spontanea, liberatoria, quasi terapeutica, da contrappore a quella istituzionale, del mercato, dei poteri, delle ideologie".

"I cosiddetti capolavori dell'arte sono spesso ignobili croste scopiazzate … Adorno diceva che le strade per Auschwitz sono lastricate di capolavori. L'arte è stata un veicolo di antisemitismo e io sono ebreo, mia mamma era una De Benedetti e la sua famiglia era sefardita, venne dalla Spagna e andò in Francia e poi in Polonia e di là venne in Italia, un paradiso per noi ebrei... Io non ho più voglia di fare foto".

"Ero stato partigiano della "Garibaldi" e nel dopoguerra fotografavo foto di crimini nazisti per conto degli americani le foto servivano come documenti nei processi"

"La fotografia mi ha spalancato la luce. La fotografia è copernicana, fa finalmente capire all'uomo che è una merda su una goccia di fango, che è la Terra perduta nell'universo. Mentre l'arte è tolemaica, fa credere che l'uomo sia chissà che cosa. L'uomo invece è nulla, è una merda, un uccisore di bambini. La fotografia è un segno naturale, ritrae le impronte che la lepre lascia sulla neve, il vero volto dell'uomo".

Gilardi va nella serra dove sono disseminati trapani e frese accanto a vasi di piante. Nel giardino indica un piccolo tumulo, la tomba di Lise, cagnetta amatissima. "Ogni tanto mi calo la berretta e vedo buio, medito, il cervello è un bel giocattolo. La vita, la guerra, la Shoah, l'amore e il volare, tutto è come un videogame che mi scorre davanti. Gioco e rido. Se no mi sparo. Mi viene da ridere, un riso grande così Inventare barzellette sulla Shoah è la mia specialità. Non è un esorcismo, il mio, un modo per dominare l'orrore nato allora, da quando ho visto quelle foto. Io sono orgoglioso d'essere ebreo: chi altri, quale altro popolo ha avuto tante persecuzioni, tanti riconoscimenti di appartenere a una razza superiore? Ho un totale e affettuoso disprezzo per il mio prossimo: l'antisemitismo circola nel Dna degli. europei, c'è chi lo supera insieme con altri istinti aggressivi, e chi no, ogni tanto gli riaffiora. Ma l'antisemitismo migliora gli ebrei, che Dio ce lo conservi. Considero la Shoah unà purificazione, un'epurazione della parte meno combattiva del popolo ebraico. I migliori erano emigrati".

Parole che sorprendono, mettono a disagio. Gilardi torna ai tavolo dello studio su cui èaperto uno dei suoi dizionari biblici alla voce "pane", accarezza La tentazione di esistere di Cioran ("ha scritto qui le pagine più belle e commoventi sugli ebrei") e spiega: "Le mie sono idee politicamente molto scorrette, lo so bene, persino scandalose per tanti ebrei. Ma io non ho rapporti con gli ebrei italiani, non li sopporto, e loro pure mi odiano. Non sopporto l'antisemitismo della pietà, non posso vedere Anna Frank, gli ebrei alienati, annacquati, che vanno in giro a mostrare il numeretto al braccio e vogliono morire qui, i poverini. Non dovrebbero morire in Europa, luogo dello sterminio. Anch'io morirò qui ma io ho la coscienza a posto, non piagnucolo. Sono un sionista che segue le idee di Viadimir Jabotinsky, quello chiamato fascista. Non mi sono mai pentito. Durante la guerra ero sionista e stalinista, ero un partigiano comunista e terrorista, esperto in esplosivi, specialista nel far saltare i binari. Non c'è contraddizione fra essere stalinista e insieme seguace di Jabotinsky, che era tutto, di destra e di simstra, era dovunque potesse trovare armi e soldi".

"Come placato, Gilardi si mette a leggere foglietti di un notiziario della Pro Loco di Caldasio, un paese vicino. Lo scrive lui. Dice che sta lileggendo il Qohelet e traducendo canti di Dante nel dialetto di Caldasio, indica un suo collage con un bacchetto di fico pitturato e invetriato che sembra corallo chiede un caffe alla moglie Luciana (fotografa pure lei e sua bravissima collaboratrice nell'ordinare il materiale della Fototeca), ricorda quando sotto il fascismo si cambiò il nome da Aldo in Ando, e dice che basta, non vuol parlare di fotografia, vuole ridere, ridere sempre, perché lui è allegro e dipinge donne nude".

intervista di Claudio Altarocca, "Tuttoloibri-la Stampa", 25 novembre 2000

 

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