Eric Stark

Ore giapponesi

Edoardo Lombardi Vallauri: NON CAPIRE IL GIAPPONE. Il Mulino 2023 | Nicolas Bouvier: CRONACHE GIAPPONESI. Feltrinelli 2023 | Nikos Kazantzakis, VIAGGIO IN GIAPPOINE E IN CINA. Crocetti 2023

Prose di viaggio: per quanto diverse siano le motivazioni che originano la partenza, il peso delle frontiere e dei limiti da valicare, il grado di sradicamento la permanenza e il soggiorno devono cogliere quella sintonia che connette segretamente cose e luoghi secondo una logica allucinata e che sarà la ricompensa di poche pagine asciugate dal ricordo.

Strutturate secondo un diario personale o modellate sulle “relazioni” oggettive, le riflessioni dovrebbero evitare tanto la sindrome dell’antropologo dilettante impegnato a ripagare un debito comunque inestinguibile quanto la stupida esaltazione pronta a fiorire nell’animo del viaggiatore scopertosi poeta. Meglio in questi casi la ruvida prosa dei mercanti, più restia al sentimentalismo. Nemmeno è questione di tempo o durata del soggiorno. C’è un’asciutta giustizia nel fatto che Ruth Benedict, chiamata dalle forze armate americane a tracciare un credibile ritratto secco e triste dei giapponesi, non avesse mai calpestato il suolo giapponese. Anche se, nota Bouvier, il suo Giappone è come “una settimana senza domeniche”.

La cultura giapponese, che noi cerchiamo di imbrigliare in discorsi o commenti, è impressionante proprio perché spontanea e orientata al “piacere del momento”. Ozioso aspettarsi un pacchetto con “l’anima del Giappone” dalla guida locale, “il piatto pronto, e alla svelta”, l’ingordigia che vuole tutto trascurando la frugalità come tratto essenziale del Giappone e dell’Asia intera.

Arresi al non capire, lasciandolo inspiegato, allontanata la tentazione di inquadrare e ridurre ai nostri comuni termini, messo da parte lo scrupolo di tutto spiegare, arrendiamoci alle risorse del racconto. Il qualcosa cui agganciare l’inizio di un rapporto potrà essere, nel caso di Lombardi Vallauri, il gioco di fraintendimenti e incomprensioni (fino al fermo e all’arresto) in cui può cadere anche il visitatore meglio disposto e preparato. Gravati e sostenuti nei secoli dalla nostra trama di ignoranza e pretese egemoniche, meglio seguire il filo di minute osservazioni esperienziali, accettare la successione di stati d’animo che disegnano una distanza, riconoscendo nel (buon) funzionamento della collettività il presupposto di un “non so che” di alta qualità, del lavoro fatto bene, cosa di cui si va ormai smarrendo l’esperienza.

Dopo un primo viaggio nel 1955 da “incantato vagabondo” Bouvier vi tornò nel 1964 e a questo soggiorno dobbiamo le pagine il cui titolo riprende quello di Nihongi, le antiche cronache giapponesi fondative del mito nipponico e del popolo più estetizzante del mondo. Ma la sua cronaca doveva risultare, modestamente, anche attenta a rilevare tracce dei cambiamenti intervenuti nel breve intervallo di sette anni se a dargli un magro benvenuto bastavano i nomi beneauguranti delle sigarette: “Peace”, “Love”, “Sincerità”, “Perla”, “Vita nuova”. Un paese più ricco e normalizzato ai cui abitanti è lo scrittore svizzero ad apparire enigmatico. Sarà lui stesso ad essere paparazzato nei primi soggiorni (data la relativa scarsità di stranieri in Giappone) prima ancora che il suo obbiettivo scelga il soggetto da immortalare per qualche articolo commissionatogli dai periodici europei.

Bouvier inizia però con un excursus storico mitologico, proseguendo con svelto sorvolo sugli usi, spesso superstiziosi, delle corti aristocratiche (a forte influenza cinese) dove si pratica la poesia più della scherma, ricordandone anche aspetti leggermente leziosi e pederasti, con ministri per nulla guerrafondai che disprezzano la violenza: un mondo di imperatori bambini, cortigiani e geomanti, come un garden-party sospeso su una nuvola e tenuto insieme da un mandala. Un enigma che riverbera ancora nel novecento e se decidiamo di ignorarne le origini storiche è per farci guidare allora dal Giappone cinematografico dei samurai, facendoci associare tutto un popolo a virtù spartane come frugalità, ostinazione e una punta di masochismo. Difficile anche per il giapponese riuscire ad incontrare quel tempo cerimonioso affollato di fantasmi, tanto più arduo per un occidentale pur carico di buone intenzioni decifrare il pensiero magico sotto l’adozione entusiasta del modello occidentale. Per i molti urbanizzati catturati dalla tecnica, quanti, i più indifesi, ancora si muovono secondo la scrupolosa prudenza appresa dalla scalogna o, per alleviare la calura estiva, si godono contenti i sonaglietti di bronzo dal suono rinfrescante attaccati alle porte.

Per Kazantzakis il Giappone anni trenta (come la Cina, l’altra meta del suo viaggio e, del resto, l’intero mondo) è un’immensa prateria in cui far pascolare i suoi cinque sensi, cinque tentacoli con cui accarezzare il mondo.

Pur occupato in una sorta di “pirateria spirituale” a succhiare il buono dell’Oriente, e nel continuo richiamo a quella accorta educazione che funge da cuscinetto di buone maniere ad evitare gli urti tra umani in un paese densamente popolato, Kazantzakis ammette che l’idillio è sfumato e i venti dell’occidente hanno fatto irruzione nella Cipango del passato. Le macchine si sono avviate, i demoni terribili della modernità scatenati, il Giappone dovrà ballare al ritmo imposto dai cannoni del commodoro Perry, riservandosi un posto che non sia di seconda fila. Il mediterraneo ridotto a lago provinciale, è dal Pacifico che si alzerà l’uragano che castigherà il “superbo occidente capitalista”, là si giocherà il grande gioco, la guerra futura. Lampi minacciosi e futuri che turbano lo scrittore greco alla ricerca delle tracce di un Dioniso in kimono, con rametto di ciliegio fiorito al posto del tirso, e di etere dove sono soltanto geishe, trasmigrati in Giappone in un azzardato viaggio procedente in senso contrario a quanto sostenuto dagli storici di religioni. Ma quanta fatica per comporre tenerezza e forza, sensibilità e ferocia, corpo mistico e corazza marziale, afferrando qualcosa da uno spartito di musica muta.

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