Giuseppe Zuccarino

Giacometti: lo scacco e la riuscita

Ci si poteva augurare che la pubblicazione del carteggio tra Alberto Giacometti e Isabel Nicholas (Correspondances, Lyon, Fage Éditions, 2007) costituisse un evento importante, in quanto prima corposa raccolta di testi epistolari giacomettiani. Tuttavia il libro delude tali aspettative: infatti, pur contando quasi duecento pagine, comprende solo dodici lettere dell’artista. Curatrice dell’opera è Véronique Wiesinger, che dirige la Fondation Alberto et Annette Giacometti, incarico che le assegna un ruolo di rilievo nel valorizzare il ricchissimo patrimonio gestito dall’istituzione, promuovendo mostre come quella da poco conclusasi al Centre Pompidou di Parigi. Il suo testo, riccamente illustrato, fornisce parecchie informazioni utili, ma a volte presenta imprecisioni o avanza ipotesi un po’ avventate, allo scopo di enfatizzare la presenza di Isabel Nicholas nell’opera giacomettiana. Quanto al carteggio vero e proprio, al lettore risulta subito evidente – anche se la curatrice non lo dichiara – che l’insieme delle lettere è incompleto, perché alcune missive fanno riferimento ad altre che nel volume non compaiono, essendo andate perdute. La stessa successione dei messaggi epistolari, non sempre datati dai due corrispondenti, è congetturale e può lasciar adito a qualche dubbio.

Dato che, in un certo senso, la protagonista del libro è Isabel Nicholas, le cui lettere sono circa il triplo rispetto a quelle del grande scultore e pittore, converrà fare qualche accenno alla sua storia. Nata a Londra nel 1912, fin da giovane comincia a praticare la pittura, affiancando però a tale attività quella di modella: dapprima per Jacob Epstein, poi, dopo essersi trasferita a Parigi, per André Derain. Donna affascinante, dallo stile di vita piuttosto libero e con una crescente inclinazione all’alcolismo, si sposa per tre volte, risiedendo perlopiù in Inghilterra ma tornando con regolarità nella capitale francese. Continua fino all’ultimo a praticare la pittura, senza abbandonare completamente il ruolo di modella, cosa che le conferisce il raro privilegio di vedere immortalata la propria effigie nelle opere di tre dei massimi artisti del secolo: Picasso, Giacometti e Bacon (gli estimatori di quest’ultimo la conoscono come Isabel Rawsthorne, dal cognome del terzo marito).

L’incontro con Giacometti risale alla metà degli anni Trenta e costituisce l’inizio di una lunga frequentazione, di un’amicizia non priva, in certe fasi, di aspetti amorosi. Lo scultore realizza alcune statue della testa di lei: la prima (1936), di straordinaria purezza ed eleganza, è nota col nomignolo L’égyptienne, perché ricorda le opere dell’antico Egitto, ma altrettanto intenso, benché di stile meno idealizzante, è un secondo ritratto scolpito, posteriore di due anni. Esistono inoltre ammirevoli quadri e disegni, riprodotti nel volume, che raffigurano Isabel; ad essi andrebbe aggiunta, visto che la Wiesinger omette di citarla, la tavola 66 dell’album litografico Paris sans fin, che ci mostra l’immagine dell’inglese colta nell’atto di ridere. Isabel infatti – e le lettere ne offrono testimonianza – era una donna affabile e spiritosa, oltre che sensibile e colta. La sua parte del carteggio meriterebbe di essere descritta in dettaglio, ma inevitabilmente l’attenzione del lettore finisce col vertere soprattutto sulle missive giacomettiane.

In esse, la prima cosa che colpisce è proprio la coerenza dell’artista, anche sul piano della scrittura: il tono delle lettere rifugge dalla solennità ed è familiare, in stretto rapporto con le situazioni della vita quotidiana. Caratteristico, in tal senso, un incipit come il seguente: «Da giorni mi porto in tasca questo foglio per scriverti ma verso sera, quando volevo farlo, uscivo sempre stanco per essere rimasto in piedi e per di più mezzo malato, avendo preso freddo, ed ero incapace di fare qualsiasi cosa. Oggi ho smesso di lavorare prima e sono venuto qui al caffè Bonaparte che da qualche tempo è il mio luogo di scrittura. Ma sono le sei! Ho lasciato l’atelier alle tre e mezza, mi ci vuole del tempo per riprendermi un po’, a causa dei residui di influenza. Non so se hai ricevuto la mia ultima lettera, credo che fosse abbastanza brutta, però non me ne rendo ben conto, spero solo che tu non l’abbia trovata del tutto impossibile». L’attenzione alle piccole cose viene confermata, nella stessa missiva, da un passo che è forse il più singolare di tutto il libro. Giacometti racconta ad Isabel come qualche giorno prima, appena sveglio e rimanendo ancora a letto, avesse notato un lungo filo di polvere che pendeva dal soffitto: «Il filo non era immobile, malgrado la finestra chiusa, ma in continuo movimento, formando una grossa curva, sollevandosi, abbassandosi, tendendo la testa, o mantenendola quasi ferma mentre il corpo aveva i movimenti più inattesi e vari. In maniera allucinante, era come un animale, un serpente, e mai nessun animale ha fatto dei movimenti di una simile bellezza, io sono incapace di descriverli, leggeri e grandi e sempre diversi». L’artista si rammarica di non essere in grado di disegnare tali curve, mostrando, verso le oscillazioni del filo di polvere, la stessa ammirazione che Kleist riservava ai gesti perfetti (in quanto non viziati dalla coscienza umana) delle marionette.

Tutto, del resto, interagisce con la pratica artistica, che per Giacometti coincide con l’esperienza di essere in vita. Sia che egli parli delle opere che ha visto (torna qui la predilezione, già nota, per Giotto e Tintoretto, unita agli elogi per i fiamminghi o El Greco), sia che fornisca ad Isabel notizie su amici comuni, sia che la incoraggi nella sua attività di pittrice, Giacometti non si allontana dal centro dei propri interessi. Ritroviamo infatti nelle lettere varie descrizioni dell’ostinato sforzo di ottenere il risultato voluto, benché talvolta, specie negli anni del secondo conflitto mondiale trascorsi in Svizzera, il lavoro sembri segnare atrocemente il passo. Egli scrive da Ginevra nel maggio 1945: «Sono paralizzato qui dal 1942, dove sono venuto […] deciso a rientrare, al più tardi, cinque mesi dopo ma con una scultura come la volevo; trascorso quel tempo mi sono trovato con una scultura che non funzionava affatto, allora, incapace di muovermi, ho rinviato la partenza di giorno in giorno fino ad ora, lavorando più che potevo. Ho ricominciato molte volte la stessa cosa, passando ogni volta a lato. Ogni volta la mia figura finiva col diventare talmente minuscola che il lavoro si faceva imponderabile, sebbene fosse quasi quello che volevo […]. So tuttavia che non mollerò più quella a cui sto lavorando da settembre e che malgrado tutto arriverò in fondo, a meno che io non viva in una completa illusione, cosa che stento a credere dato che ogni giorno c’è un piccolo progresso».

La forza di Giacometti consiste appunto nella capacità di insistere per mesi sulla stessa scultura, trasformandola di continuo, senza la preoccupazione di finire l’opera, ma con una speranza di tutt’altro genere: quella di ottenere la massima somiglianza possibile non con la persona fisica che ha di fronte come modello, bensì con l’immagine visiva che egli può farsi di essa. Proprio da questo scarto tra la realtà concreta di un corpo e l’inafferrabile percezione da riprodurre, trae origine la grande produzione dell’artista negli anni della maturità, quella che gli ha permesso di diventare ricco e famoso, senza però modificare in nulla la sua condotta (sempre posta all’insegna del lavoro quotidiano) e neppure il suo ambiente di vita, ossia il misero e fatiscente atelier parigino di rue Hippolyte-Maindron. Da qui deriva anche il particolare temperamento di Giacometti, quella mescolanza di tenacia e disperazione, di umiltà e orgoglio, di delusione e ottimismo che ritroviamo nelle lettere: «Lavoro in maniera molto penosa e […] non so dove prendo il coraggio per continuare e per avere ancora la speranza di cavarmela, ma anche se ciò è senza uscita, non è questo un motivo per fermarsi, al contrario dà anche una certa sensazione di libertà e d’irresponsabilità totale verso tutto, e poi riuscire o no non mi sembra più così importante». Nell’ottica giacomettiana, infatti, lo scacco e la riuscita cessano di opporsi, diventano due fenomeni inseparabili, come emerge con chiarezza da altre dichiarazioni: «Anche se sono pienamente consapevole di avere fino a questo momento fallito al mio scopo, e pur sapendo per esperienza che ogni cosa che intraprendo mi sfugge di tra le dita, traggo più che mai piacere dal mio lavoro. C’è qualcuno che lo capisca? Non io, ma le cose stanno così. Vedo là le mie sculture, di fronte a me: ciascuna di esse è un fallimento. Sì, un fallimento! Ma in ognuna di esse vi è un po’ di ciò che un giorno mi piacerebbe creare».