Pubblichiamo in questa pagina una serie di interventi nostri e altrui sugli avvenimenti genovesi del 19-22 luglio. Vi rientrano anche un tentativo di dibattito e due delle lettere che abbiamo ricevuto (mittenti Andrea Maori e Andreas Bereny). In chiusura abbiamo collocato un lungo saggio firmato da una per noi non del tutto fantomatica "congrega dei caparbi". Si tratta di una perorazione, per così dire, "preventiva", scritta - e ricevuta - qualche tempo prima che tutto avesse effettivamente inizio. Ci è parsa zeppa di cose che avremmo voluto dire noi stessi, ancorché non siano da meno le ragioni della nostra perplessità. Vogliamo, infine, aggiungere qui una nostra ipotesi (qualunquista, si dà da sé) sull'atteggiamento del governo. Che sia rimasto ostaggio delle primissime dichiarazioni di incondizionato appoggio ai poliziotti fatte da Fini e dagli esponenti locali e nazionali di AN. A un certo punto contrastare la loro perentorietà - come ragionevolmente avrebbe suggerito la situazione - poteva significare una spaccatura facilmente strumentalizzabile dall'opposizione. Chi anche - per formazione, stile, onestà, ecc. - avesse pensato ad appelli di tutt'altro tono, più confacenti alle proprie inclinazioni moderate, doveva ormai mettersi in una posizione di attendismo e sperare, ma non nella verità, bensì nell'occorrenza che la poltrona gli potesse restare attaccata al culo.
Genova per chi
, per 8?lenzuola
Les longs draps des sueurs des nuits de reve,
les écrans blancs qui s'assombrissent à la fin du jour,
sauras-tou y découvrir les directions prises?
André Frénaud, Le silence de Genova, 1961-62
Non ci è dato sapere con quale frequenza il capo del governo Silvio Berlusconi lavi i suoi panni, sappiamo però che a Genova non li vuole vedere stesi. Perlustrando la città in vista del G8 si è sentito offeso dalle lenzuola che sventolavano ad asciugare dai balconi. Per il sommo convegno, ha detto, devono sparire. Assecondandolo, il sindaco Pericu ha invitato la cittadinanza a rispettare le pretese estetiche del Cavaliere. Così, ai già noti divieti si aggiunge anche questa raccomandazione. In un contesto di gravi limitazioni alla libertà di movimento, nemmeno in casa propria i genovesi possono fare quello che vogliono.
Era un tempo tradizione che i genovesi offrissero ai visitatori della loro città scorci come quello che pubblichiamo sopra. I visitatori non avevano da scoprirli poichè erano frequenti, e le guide turistiche ci tenevano a segnalarli preventivamente (la fotografia di cui sopra è, come altre del genere, assai nota e riprodotta, ma noi la estraiamo da una guida tedesca Die Riviera: Nervi und Rapallo, Velhagen & Klaffing, Bielefeld und Leipzig 1911). Il capo del governo evidentemente tutto questo lo ignora e il suo sopraffino buon gusto non gli permette di apprezzarlo.
E' un milanese!
***
22 luglio:
l'ordine regna a Genova!
C'è gente che pensa di non avere alternative alla violenza e di poter raggiungere la gioia nella propria vita senza speranze soltanto attraverso la sua demollitrice estrinsecazione. Molto spesso si tratta di ragazzini. Quando ciò accade, chi subisce dovrebbe poter difendersi. Fra la gente c'è anche chi è autorizzato a scatenare la violenza per ragioni, perlappunto, difensive.
Fra il 19 e il 22 di luglio, a Genova, i primi e gli ultimi potevano fare quello che volevano. Chi non poteva far niente - pur avendo una rispettabile tradizione alle spalle - erano i genovesi. Chi voleva trarre una morale da quello che accadeva intorno al G8, la riunione degli "otto grandi" del pianeta terra, non doveva sbizzarrirsi troppo. Era del tutto evidente che se la violenza dei primi apparteneva all'ordine naturale, quella dei secondi apparteneva all'ordine politico. Non solo, mentre ai primi si poteva accordare, fino a prova contraria, ciò che per consuetudine le leggi dell'ospitalità prevedono che sia concesso ai pellegrini, i secondi avevano modo di occupare militarmente una città, di imporre le propie regole di gusto, di erigere barriere, di confinare i cittadini in un ghetto, di sospendere ogni libertà di movimento. Quanto alle loro capacità, non davano modo di verificarle. Al contrario fornivano una moltitudine di esempi di come volessero rovesciare sugli inermi la loro libidinosa bestialità.
Al cospetto di un'esigua minoranza degli ospiti lasciavano aver corso una demente (e, ahimé, umana) opera distruttiva, mentre contro la stragrande massa pacifica dei manifestanti (sicuramente composta non di soli ingenui) liberavano la loro furia. Le teorie più paranoiche affioravano al pensiero e non era impossibile credere che ci fosse intelligenza fra i tutori dell'ordine e i facinorosi onde screditare i duecentomila (tanti si dice che fossero) passeggiatori pacifici - i quali, poverini, si screditavano in genere da soli, ma solo con le idee. Stimare inadeguate le capacità dei tutori dell'ordine era un'alternativa. Era certo, in ogni caso, che se un genovese avesse voluto difendere adeguatamente le sue cose sarebbe stato trattato come un "sovversivo".
E di questi trattamenti se ne aveva prova anche solo guardando le televisioni (soprattutto quelle locali).
Si vedeva lo scempio di un cadavere che appena lasciato sul campo con un colpo di pistola sparato dai carabinieri, era attraversato due volte dalle ruote di una camionetta della Repubblica Italiana. Ma si vedeva parecchio d'altro, e non solo i candelotti lacrimogeni sparati ad altezza d'uomo, per offendere. Si vedeva lanciare questi candelotti contro una bancarella di quei sovversivi che sono i "Beati Costruttori di Pace", si vedeva manganellare dei boy scout di tredici anni, si vedeva spapollare un occhio a una ragazza, si vedeva infierire sui giovani seduti per terra per i"sit in", si vedeva picchiare i medici al seguito dei cortei, si vedeva aggredire un'anziana missionaria cristiana, si vedevano pattuglie di "sbirri" menare una a una le proprie bastonate su singoli isolati individui, si vedevano poliziotti scagliare calci in faccia alla gente che si coricava in segno di resa. Di cose del genere se ne vedevano tante, innumerevoli.
Chissà cosa pensavano quanti erano dell'opinione che il problema fosse nella scarsa preparazione delle forze dell'ordine quando, insieme al presidente della repubblica, il capo del governo italiano parlava alla TV. Gli sembrava adeguato un personaggio che appariva naturale soltanto col suo celebre sorriso ed era visibilmente incapace di assumere un'espressione che nel doloroso contesto avesse qualcosa di autentico? Riguardo a questo, comunque, non si comportavano meglio i grandi rimanenti, privi persino di quel "savoir faire" che deriva dall'educazione. Pessima, evidentemente, la loro, ed enormemente offensiva per la città che li ospitava. Andava tuttavia riconosciuto al gollista Chirac di esserre perlomeno riuscito a farfugliare qualcosa che non fosse la solita banalità di circostanza.
Ridicoli risultavano infine i tentativi di Silvio Berlusconi di addossare le responsabilità di tutto al precedente governo, come se il suo fosse un governo "di svolta" e non l'aggiornamento di quello al 2001 (tanto che il celebratissimo e "coraggioso" ministro dell'economia altri non era che un antico sgherro del capo dell'esecutivo dismesso). Se prima si aveva un governo di vecchi bolscevichi, adesso primeggiavano dei satrapi stalinisti orgogliosi di aver trovato il proprio Beria.
Si formava il solito coro che ne chiedeva le dimissioni.
Era il minimo.
Fra i rappresentanti del governo, quelli di provenienza neofascista osannavano le forze di polizia con lo stesso entusiasmo di chi sta fuori delle caserme in attesa dell'uscita dei militi. Non si rendevano conto che la cosa migliore da fare era di restituire all'agricoltura le braccia che le erano state tolte. Il licenziamento in tronco di tutti i tutori dell'ordine presenti a Genova sarebbe stato in fondo una grande misura di umanità. Per i militi stessi, affichè della loro umanità riprendessero possesso.
Era impossibile riporre queste speranze nello stato, nei casi di coscienza sì.
***
25 luglio 2001
...ride away...
agli amici libertari
Cari amici,
l'altra sera alternavo ai commenti di alcuni politici locali sui fatti di Genova, la visione - su un altro canale televisivo - di Sentieri Selvaggi. Il film non ha oggi alcun bisogno di essere difeso, dal momento che ormai è riconosciuto come un capolavoro. Quel genere di soddisfazione che provavo moltissimi anni fa nel difenderlo non ha oggi più senso. Non ha del resto più senso difendere dai grossolani denigratori nemmeno un Budd Boetticher o perfino un Rod Cameron. Di grossolani denigratori del cinema western non ce ne sono più. Rivedere Sentieri Selvaggi rimane tuttavia per me (che l'ho visto decine, forse centinaia, di volte) un'esperienza di grande commozione. Ebbene, quando l'altra sera prendevo in considerazione la dabbenaggine, l'impreparazione, l'ignoranza, la malafede di un caudillo regionale ligure di Forza Italia, non mi perdevo le sequenze finali del film. E fra le lacrime che non riesco mai a trattenere quando lo guardo, mi sentivo come Ethan/John Wayne (in un film dove i controluce si susseguono ognuno straordinario) nello splendido controluce finale, quando portata a casa Debbie la porta si chiude lasciandolo fuori. Solo, come lo sconfitto sudista che è.
Cercate di capirmi, non è che mi paragoni a John Wayne. Credo di non aver alcun talento di attore né di possedere in misura significativa le virtù dei suoi personaggi. Nemmeno ho l'abitudine di mangiare grandi bistecche carbonizzate come sua figlia racconta che lui facesse. Per colazione mi accontento del caffé e di qualche biscotto, non trangugio frittate di dodici uova in un boccone come il povero Tom de L'Uomo che uccise Liberty Valance. Ma l'altra sera mi sentivo in mezzo a voi solo come lui in mezzo ad amici e familiari.
Ho sfogliato, letto, stampato i vostri commenti ai fatti di Genova. Non siete stati per nulla avari. Siete stati soltanto elusivi. Ho letto articoli che volevano stabilire chi è e chi non è anarchico. Ho gradito apprendere che Vittorio Feltri è un libertario. Fino ad allora pensavo che non lo fosse più della sua pretesa di vestire all'inglese (ai miei occhi di genovese mi è sempre parso, piuttosto, nello stile, simpaticamente bauscia). Ho anche letto fino all'esaurimento cose di cui non avevo alcun bisogno leggere, come quanto siano fessi gli antiglobalizzatori. Viceversa, nulla di sostanziale che prendesse in esame il comportamento della polizia mi è stato sottoposto.
Ho pensato: "vorranno tenersi fuori dalle passioni". A mio parere l'idea forte di ragione che in genere condividete non è che vi tenga lontano da esse, semplicemente ve le fa negare. La vostra passione è giusto quella della ragione forte, il che non vuol dire che possediate in misura più cospicua di altri la sua forza. Scusate la franchezza, ma la vostra ragione rischia di ottundervi la sensibilità. Credo che in questi giorni ne abbiate fornito prove con ampiezza, e più esigete di aver preso le parti dei genovesi qualsiasi più ho l'impressione che sosteniate (con una logica che mi sfugge) le parti di chi detiene il monopolio della violenza. Nella news-letter che vi ho mandato poco addietro elencavo una serie di crimini polizieschi. Ne potevo aggiungere un'infinità di altri. Ne aggiungo uno, uno soltanto, adesso, ma ho poche speranze di scuotervi. Lo sapevate che a causa dei gas lacrimogeni alcune bestiole alloggiate in un negozio sono morte asfissiate?
Non credo proprio che sia il genere di cose che vi possa toccare. Siete dei duri e siete, dite almeno, "politicamente scorretti". Ho molti dubbi in proposito, e quella parentesi che solo poco sopra ho affrettatamente chiuso mi va di riaprirla.
Mi è venuto il sospettto che consideriate l'attuale governo (non statemi a dire, per carità, che non l'avete votato: lo so!) più proprizio degli altri alla vostra predicazione. Anche se mi sembra l'esatta fotocopia del precedente, non escludo a priori che ciò possa essere vero. Può darsi che voi coltiviate un'immagine di voi stessi quali protagonisti di una moderna Fronda. Se fra di voi c'è un novello cardinale di Retz non me ne sono accorto. D'altra parte le vostre capacità polemiche mi sembrano modeste ancorchè appropriate ai cervelloni della politica attuale. A prescinder dal fatto - e mi auguro vi sia evidente - che Berlusconi non è il Re Sole. La vostra è magari soltanto una tattica di penetrazione mediatica. Siete dei "gramsciani", quanto consapevoli non so. Nel mio abituale e crudo linguaggio mi esprimerei anche altrimenti. Vi dirò invece che siete dei "perbenisti" già sapendo che la vostra risposta sarà: "ma che male c'è ad essere con la gente perbene"? (ammesso che si sappia cosa sia). Consentitemi allora un neologismo: siete dei "perbuonisti" (e sapete cosa ciò possa voler dire).
C'è infine da mettere in conto l'eventualità che siate impalliditi dal terrore di sentirvi, anche per una volta soltanto e fugacemente, dalla stessa parte di Bertinotti. In questo caso, sinceramente, vi compiangerei. Non smetterei comunque -come non smetto - di considerarvi amici preziosi come sono i pochi che ho. A questo punto vi sembrerà strano ma, come diceva Sherlock Holmes, le cose più improbabili sono alla fine le più vere.
Vostro
Carlo Romano
***
A voi che vi dite libertari,
amici,
torno a scrivervi senza aver ricevuto alcuna risposta diretta al mio precedente messaggio. Anche la versione pubblicata da "Virus", il giornale in rete di Luciana Olcese, non ha avuto seguito, nonostante che i suoi redattori vi avessero, a quanto mi risulta, invitato a dibatterlo. Cosa devo pensare?
Il governo, dopo le risolute affermazioni dei giorni scorsi sulle forze dell'ordine - condite in certi casi da un equivoco e morboso trasporto - sembra adesso optare per una formula più prudente e si è messo a cianciare di legge che non guarda in faccia nessuno, assicurando che se ci sono dei colpevoli fra i poliziotti essi saranno puniti. Nello stesso tempo, soprattutto nei riguardi dei responsabili dell'inquietante incursione alla scuola Diaz, manda a dire che è molto difficile - se non impossibile - riuscire ad individuare dei colpevoli, dal momento che i poliziotti avevano il viso coperto.
Vi invito ad un'ultertiore riflessione.
La polizia ha potuto colpire nel mucchio, senza chiedersi chi fosse o non fosse responsabile delle colpe che riteneva andassero punite. Si è visto, per altro, che "i sovversivi" non venivano semplicemente fermati. Non so si vi è sfuggito, ma la televisione ha perfino mostrato i fotogrammi di un ferito che veniva obbligato dai poliziotti a coricarsi sulla barella con le manette chiuse dietro la schiena.
A caldo, si sono sentiti illustri rappresentanti dei partiti di maggioranza affermare che la polizia non poteva comportarsi diversamente, non poteva cioè che colpire nel mucchio. La qual cosa, a dispetto della "virile" intenzione originaria, essendo la responsabilità individuale, si presta ad esser anche interpretata (pensateci un po' se non vi riesce immediatamente chiaro) come un'affermazione della natura paradossale della polizia. Può equivalere a dire che la polizia è inutile.
Ma forse questo ragionamento l'avete fatto e ne avete tratto la conclusione sbagliata: che Scajola è un libertario e che la polizia non è da meno. Avete così assecondato i vostri scrupoli ideologici senza urtare Vittorio Feltri, compiaciuto Berlusconi e coperto i silenzi di Antonio Martino, ministro libertarissimo per definizione.
Se anche l'efficentismo "milanese" del governo ne uscisse malconcio per non aver risposto alle domande dei giornalisti e dei diplomatici stranieri - oltre che, in ultima analisi, per non aver avuto a cuore le preoccupazioni di tante madri di figli disgraziati - pazienza!
I principi sono salvi, gli uomini un po' meno, ma per voi i principi sono gli uomini.
Come uomo oggi io ho caldo e ho digerito male. Fortunatamente, a differenza degli antiglobalizzatori, niente, se non un frigorifero che ne fosse privo, mi impedisce di bere quell'efficace acqua medicinale inventata da un farmacista di Atlanta tanti anni fa. E' di colore scuro. I pubblicitari della sua fabbrica hanno perfino dato vita a Babbo Natale. Dicerie che non ho mai voluto verificare sostengono che le sue gocce corrodono il marmo. Per quel che mi riguarda non ho mai trovato un digestivo migliore.
Vostro
Carlo Romano
***
Virus
'Scorrettissimo'Martedì,
'Politicamente Scorretto'la Rubrica del Martedì
di Carlo Stagnaro
Violare la proprietà è violare la persona
Carlo Romano ha recentemente pubblicato su Virus un articolo fortemente critico nei confronti dei commenti che i libertari hanno dedicato ai tristi fatti di Genova.
Il succo del suo discorso - al di là dello stile piacevole e dalla verve polemica appena mascherata dal linguaggio delicato - era che essi avrebbero ecceduto nella critica dei contestatori, da un lato, e nella difesa del governo, dall'altro. "Più esigete di aver preso le parti dei genovesi - afferma Romano - più ho l'impressione che sosteniate (con una logica che mi sfugge) le parti di chi detiene il monopolio della violenza". E poi: "Vi dirò invece che siete dei perbenisti. Mi risponderete: 'che male c'è ad essere con la gente perbene'? Consentitemi un neologismo: siete dei 'perbuonisti' (sapete cosa possa voler dire). C'è infine da mettere in conto l'eventualità che siate impalliditi dal terrore di sentirvi, per una volta e fugacemente, dalla stessa parte di Bertinotti". Prima di procedere, ci tengo a precisare che parlo a titolo personale. Non solo perché non esiste alcuna entità collettiva "i libertari" a nome della quale sia possibile esprimersi; ma anche perché, da buon individualista, penso che le ragioni di ognuno siano differenti e, oltre un certo limite, imperscrutabili e private. Non è per me un problema condannare, anche duramente, l'operato delle forze del disordine. La disorganizzazione era somma - questo è evidente - e spesso non è mancata la volontà di "far male". Il blitz di sabato notte è stato qualcosa di disgustoso, e ha portato alla mente un passato che molte anime belle ritenevano finito solo in virtù di qualche riga in appendice alla Costituzione. Questo, tuttavia, non impedisce di vedere in un gruppo almeno di contestatori (una minoranza, d'accordo, però ben consistente) il principale nemico dell'idea libertaria - della libertà stessa. I "black" e i loro compagni non sono solo, in un senso molto profondo, nemici della proprietà privata. Essi sono all'origine di un clamoroso equivoco: quello, completamente avvallato dai media, secondo cui una violazione della proprietà sia un reato, per qualche ragione misteriosa, inferiore ad altri.La polizia, per male che si sia comportata, ha tentato di difendere la proprietà privata: e in questo merita appoggio
e sostegno, anche al di là delle responsabilità penali che vanno comunque individuate e verificate.
La proprietà è il frutto del lavoro, del sudore, della fatica di un uomo. La proprietà è l
'estensione della sua stessa vita e, quindi, violare la proprietà significa violare la persona.Questo non è stato detto da nessuno, sulla stampa mainstream, e mi sembra una affermazione tanto scontata (almeno sotto alcuni punti di vista) quanto "politicamente scorretta". Siamo, sono perbenista, scrive Carlo. Lo ammetto.
Dirò di più: sono perbene. Non ho mai invocato in vita mia la presenza asfissiante delle forze dell'ordine. Però ho sempre sostenuto il diritto dei cittadini di difendersi. Perché non l'abbiano fatto, o perché non abbiano potuto farlo, dovrebbe essere l'argomento di discussione dei prossimi mesi.
***
A Carlo Stagnaro
Caro Carlo,
Chi vedo frequentemente non ha avuto alcun bisogno di ricevere qualsivoglia messaggio, né "me le ha mandate a dire". Fra i già pochi amici cui avevo scelto di inviare la breve sequenza di lettere culminata nella tua risposta pubblicata su "Virus", sei uno dei rari che conosco di persona e credo che le reciproche attestazioni di simpatia siano state a tempo debito sincere e non siano venute meno fino ad oggi. Capisco che essendo il villaggio dove abito assai scomodo da raggiungere - e muovendomi praticamente solo in caso di necessità - le occasioni di vederci siano rimaste inferiori ai nostri propositi. Mi avrebbe fatto dunque piacere che tu mi rispondessi direttamente prima ancora che "Virus" (che è uno dei miei destinatari) decidesse di dare maggiore visibilità (ancorchè in una versione "aggiustata", per ragioni di opportunità suppongo) a un segmento della sequenza suddetta. In un modo o nell'altro, alla fine, anche tu però "non me le hai mandate a dire".
Trovo comunque sorprendente che tu mi faccia affermare che da parte tua e di altri ci sarebbe stato un eccesso di critiche nei confronti dei contestatori. Non solo non l'ho detto, ma non lo penso. Né, credimi, penso che per Agnoletto faccia testo il nome che porta. Piuttosto la tua, e quella di altri, mi è parsa solo una critica di routine, per nulla stringente, in qualche modo una non-critica. Inoltre, lo scopo di quanto ho scritto non era quello di ribadire un giudizio sulle fesserie (e le violenze) degli uni, ma di intervenire sulla ferocia immotivata degli altri, vale a dire la polizia. Prendo atto che tu dica di non far fatica a condannare il suo operato, ma trovo buffo che contemporanemente tu senta il bisogno di affermare che, comunque sia, essa meriti "appoggio e sostegno" perchè avrebbe tentato di difendere la proprietà. Scusa il mio candore - e sarà dunque colpa mia se farò prescindere le opinioni dalla realtà - ma fra quelle che credevo essere le tue convinzioni mi sembrava scontato che ritenessi la polizia il frutto di una spoliazione attuata a danno di un involontario "contribuente".
Mi dirai: visto che le cose stanno così, che perlomeno le si facciano funzionare per quel che possono servire. Ma è proprio questo che a Genova non è successo. In altre parole, non è stato difeso un bel nulla. In compenso posso dire (insieme a tutto il resto) di aver visto un mezzo tecnologicamente avanzato delle forze dell'ordine dirigersi dritto (senza tentare alcuna manovra) contro un'automobile isolata che - posta, immagino, al centro della strada dai contestatori in un tentativo di barricarsi - era prima dell'urto perfettamente intatta. Ho visto anche danneggiare una cancellata dietro alla quale erano state ammucchiate delle cianfrusaglie. Non c'era l'ombra di nessuno, ma con un potente mezzo corazzato i poliziotti sembravano voler fieramente dire: guardate cosa siamo capaci di fare. Il fatto è che gli agenti appiedati potevano con la poca fatica tipica degli scalda sedie rimuovere il tutto (un altro tentativo di barricata) senza dover violentare una volta di più il patrimonio dei genovesi.
Con qualche parola sbadata e le ordinarie convenienze, potrei chiudere qui la mia replica. Mi preme invece segnalarti un'altra incongruenza. Dici, a un certo punto, che la proprietà è, fra le altre cose, l'estensione della vita. Mi sembrerebbe più corretto dire che lo è della persona, dal momento che l'immortalità, per adesso, non la si può ancora comprare (ma se vuoi sperare, spera pure). Voglio anche aggiungere una domanda: perchè scrivi? Io personalmente lo faccio per convinzione (e con fatica) ma anche per piacere (così potrai dire che sono un cinico sofista). In tutta franchezza non riesco proprio a capire che cosa avresti scritto che gli altri - il mainstream - non abbiano scritto. Per come lo dici, però, mi stupisce che tu continui a scrivere. Ti basterebbe aver steso una volta per tutte una sorta di decalogo cui rimandare gli eventuali interlocutori: lei guardi al punto 1; tu vai al punto 9; questa è per il punto 5. E così via. Voglio invece sperare che i fatti della vita - banali o eccezionali che siano - ti spingano a riflettere sui principi nei quali credi. Naturalmente, con questo non ti auguro di diventare un talmudista che ritiene una la legge ma la commenta all'infinito perdendo il filo della sua sostanza. Sarebbe augurarti di forzare dolorosamente la tua fibra. Non ho mai avuto dubbi sul tuo essere perbene. Io lo sono molto meno. In ogni caso, con una piccola elaborazione semantica, non ti ho rimproveravo questo (sei tanto morale da essere disonesto). La parola che ho usato è "perbuonista" e l'ho usata sperando che sapesse (come credo sappia) più di Walter Veltroni che di "libertarian". Come vedi, a dispetto del tono paternalistico, sono proprio cattivo (come capita di essere ai vieux garçons).
Caro amico, se tu mi chiedessi di fare un esempio su quello che ti ho detto poco sopra, ne farei uno irritante, ma anche un po' masochista, così da darti ulteriori elementi polemici per abbassare ai tuoi occhi il mio profilo. Osserverei innanzitutto che la citazione che fai della teoria lockiana del valore ("la proprietà è frutto del lavoro...") è, nel contesto in cui la cali, deliberatamente fuorviante. Vorrebbe far credere che la sua evidenza contraddice le menzogne che avrei detto. Ti farei quindi osservare che essa ha avuto successive elaborazioni. Una di queste la potremmo assegnare nientemeno che a Carlo Marx - il quale credo che per te faccia tutt'uno col gulag. Al tuo posto penserei: in fondo quel vecchio scapigliato ebreo-tedesco che aveva sposato una bellissima aristocratica dissipandone il patrimonio, ragionava di un'espropriazione (non negava dunque la proprietà). Era stato inoltre (e perchè non metterlo in compagnia del nostro Rosmini?) il più feroce critico del socialismo (e feroce lo sapeva essere veramente, non c'é Céline che tenga: leggere per credere). Perdipiù, ancor giovane, aveva ridicolizzato Proudhon quando questi aveva sostenuto che "la proprietà è un furto". Senza contare che si trovò a difendere i liberoscambisti. Certamente, penserei, era anche un critico radicale della giustizia (pensava che, essendo gli uomini diseguali, il diritto non potesse essere "eguale"). Credo che qui ti fermeresti. Al tuo senso etico ripugnerebbe una "trasfigurazione" della morale così inquietante.
Mi azzardo a pensare che alla fine tu non sia quell'individualista proprietario che dici di essere. Che non lo sia nemmeno Rothbard? Che il "libertarianesimo" (come in parte sospettano gli "oggettivisti") sia soltanto un gioco logico?
Per me, caro Carlo, sappilo, va bene anche parlare del tempo. Non mi sembra (eccolo il nichilista!) una cosa stupida. Ammesso che tu non sia troppo indaffarato a mentire.
Ancora il tuo
Carlo Romano
***
Andrea Maori:
Ho letto il suo intervento spedito ad Umbrialibertaria che condivido in
gran parte. Personalmente ho provato a far riflettere sui fatti di
Genova, a partire, appunto dai fatti, gli iscritti della onelist, per
arrivare alla conclusione che quello che è successo a Genova, con la
sospensione de facto delle garanzie costitutuzionali, per tutta una
serie di motivi è una spia di qualcosa di molto pericoloso che può far
avvitare questo paese in una morsa pericolosa.
Niente: i "libertari" sono accecati da anticomunismo (anch'io sono
anticomunista ma nel ragionamento non c'entrava niente) e non
riflettono. Insomma è dura la vita...
***
Andreas Bereny
Per quello che riguarda il G8, credo che ci siano due piani che continuiamo a confondere: quello personale e quello istituzionale, che a sua volta si divide in diversi tronconi. Partiamo da quest'ultimi.
Per essere brevi, il G8 ufficiale non esiterei definirlo P8, in quanto si tratta di riunioni di fatto legiferanti, non previsti da nessun ordinamento e/o mandato. Gli attori "democraticamente eletti" del P8 agiscono di propria iniziativa, senza dover rendere conto a nessuno, privi di qualsivoglia vincolo di mandato, gestendo, mi pare di capire, l'80% della ricchezza mondiale.
Contestare tali riunioni di fatto legiferanti mi pare che sia una buona idea.
Per ospitare la riunione legiferante e per proteggere gli attori del P8, lo stato ha di fatto espropriato Genova, cosa che ai sensi della Costituzione e delle leggi vigenti non avrebbe potuto e dovuto fare.
Contestare le "zone", rossa o gialla, cercando di introdursi simbolicamente nella Citta' Proibita mi pare, dunque, una buona idea.
Sfortunatamente di tali contestazioni, complessivamente, abbiamo visto ben poco.
Si è assistito, piuttosto, alla presentazione violenta di una serie di richieste diverse. I manifestanti chiedevano ancor più controllo statale, ancor più regolamentazione, ancor più tasse (il famigerato Tobin tax). Ancor più di quella stessa ricetta che il comunismo e il fascismo in particolare e la storia del '900 in generale hanno dimostrato fallimentare: ancor più stato.
Per questo motivo credo che sia fuorviante dividerci su linee "globalizzatori" e "antiglobalizzatori", in quanto a Genova si vedevano soprattutto mondializzatori, cioè gente che dal basso e dall'alto, per motivi diversi, vuole sempre più regolamentazione e stato mondiali.
Per quello, invece, che riguarda il carabiniere, la camionetta, l'estintore, ecc., ecc. - quello che comunemente viene chiamato "casino" - posso solo fare riferimento a quello che ho già scritto: ritengo che sia da ipocriti riempire la bocca di "Stato" e di "Servitori di Stato" quando questo conviene e fare riferimento a "poveri ragazzi ventenni senza esperienza mandati in prima fila" - adesso.
Il carabiniere, volente o nolente, rappresenta lo stato e il suo monopolio della violenza.
I soldati mandati in prima fila sono sempre "poveri ragazzi ventenni senza esperienza".
Ma il verbo che mi dispiace di più sentire è "mandati". Il giovane soldato comunista ucciso ha scelto, sicuramente, in prima persona di partecipare alla violenza, mentre le scelte del giovane soldato dello stato sono più sfumate, più diluite nel tempo, ma a mio avviso possono e devono essere considerate altrettanto volontarie.
In Italia esiste, infatti, la possibilità di scegliere il servizio civile al posto di quello armato. Scegliendo il servizio armato, inoltre, bisogna chiedere e sostenere la richiesta per poter fare il servizio presso i carabinieri.
Si può dunque affermare con ragionevole certezza che il giovane in questione abbia voluto fare il carabiniere.
La stessa gradualità si può applicare anche allo sparo che si è rilevato fatale: bisogna togliere la pistola dal suo astuccio, bisogna togliere la sicura, bisogna mirare (alla testa) e bisogna premere il grilletto. Una serie di decisioni, tutt'altro che automatiche o naturali.
Esistono, infatti, delle statistiche che dimostrano che più è diffuso il porto d'armi da fuoco in una certa zona, più questa zona risulta sicura.
Tale statistiche dimostrano che non è la pistola ad esser pericolosa, ma lo stato che la usa in regime di monopolio.
Non bisogna dunque stupirsi se un popolo disarmato, come quello italiano, che di servizio di "sicurezza" conosce solo quello fornito dallo stato - il quale, ripeto, opera in regime di monopolio - si trova, appunto, disarmato di fronte a qualsivoglia disordine di pochi prepotenti.
Per chiudere, vorrei toccare un'altro aspetto: i P8 del G8 sono i più grandi venditori di sicurezza. E' plausibile ipotizzare che queste riunioni rappresentino una tattica di marketing per fornire al mondo più stato? Pensate che questi disordini agli otto potenti dispiacciano davvero?
***
Congrega dei Caparbi
"se un cieco ne guida un altro cadranno entrambi nel fosso"
Un giorno, noi sudditi del genovesato abbiamo appreso che, invece di qualche megalopoli globale, i sedicenti Grandi del mondo avevano scelto per darsi convegno questa cittaduzza in via di pensionamento, da poco dismessa dai potentati industriali che l'hanno desolata per quasi un secolo.
Di chiedere il nostro parere, nel vigente regime del silenzio-assenso, nessuno si sarebbe ovviamente sognato ma, anche se, per assurdo, lo si fosse fatto, non c'è partito rappresentativo di noi sudditi che avrebbe anche solo osato pensare di pronunciarsi contro le opportunità che la fabbricazione di un simile "evento" offriva, sia dal punto di vista materiale che morale; e, purtroppo, c'è da dubitare che un numero significativo di noi stessi avrebbe avuto la semplice dignità di opporre un diniego reciso, dato che i più attivi nel far mostra di essere "cittadini" esigenti di fronte ai presunti "eccessi" del potere dei "Grandi" si guardano bene dal rifiutare i "vantaggi" materiali dell'incontro - prendendolo per quello che è: un insulto - tanto da elemosinare mezzi e denari dagli Stati che lo organizzano per figurarvi come "contestatori" ufficiali.
Per allestire in pompa magna lo scenario adatto al poco memorabile convegno, infatti, una (questa sì) memorabile quantità di moneta sonante è piovuta sul piccolo notabilato dei funzionari locali, quasi increduli per l'onore di poter comparire nel codazzo dei "Grandi", e sulle loro fameliche trasversali clientele: imprenditori e artigiani, tavernieri e mercanti, ruffiani e tagliaborse di ogni risma si sono ripromessi ricchi introiti dal convergere da ogni dove di molte migliaia di dignitari, araldi dei media, famigli, scherani, spie e buffoni di corte, mentre alla massa di noi sudditi qualunque, cui non è toccata nemmeno qualche briciola, è riservata, come in quel medioevo che ci appare così stranamente vicino, la grande soddisfazione morale di partecipare visivamente e col cuore alla "grandezza" miracolosa di coloro che si presentano insieme come i proprietari del mondo.
E' vero che quei due o tre giorni di trasfiguratrice gloria spettacolare per "la città" sono stati espiati e smentiti in anticipo per più di un anno in mille prosaici dettagli di piccolo e squallido imbarazzo quotidiano.
E' vero che la città intera è stata sconvolta, resa impercorribile e irriconoscibile da sempre nuovi cantieri, come era già successo per le Colombiane e come succederà immediatamente dopo in vista del 2004 e degli altri innumerevoli "eventi" puramente contabili che il neocalendario delle ricorrenze programmate imporrà: un futuro già completamente prenotato dalle celebrazioni del già accaduto per non lasciare alcuno spazio alla fecondità dell'imprevisto, da un lato, e un cantiere di ristrutturazione generalizzato e permanente, dall'altro, sembrano gli unici veri ideali a proposito dell’uso dello spazio e del tempo capaci di raccogliere l'unanimità degli interessi autorizzati.
E' vero che i più pignoli denigratori della modernità, ancora irrazionalmente attaccati alla conoscenza di qualche aspetto concreto, hanno notato, ad esempio, che si approfittava dei lavori "straordinari", che hanno definitivamente rimpiazzato la poco redditizia manutenzione ordinaria, per segare alberi monumentali ma poco scenografici e sostituirli con qualche arbusto da parata, o per rimpiazzare le pietre di porfido della pavimentazione stradale con arenarie friabili che promettono una breve durata: che insomma, erano ancora una volta i centri storici della nostra città, a venir rifatti, surrogati con altri, quasi "autentici", come accade più in generale per la nostra vita.
E' vero che la mira dichiarata di queste mirabolanti ristrutturazioni, e il risultato già in via di raggiungimento nei loro mezzi stessi, è quello di trasformare noi sudditi "nativi" in turisti interni, in spettatori paganti della propria stessa città, resa estranea come tutto il resto: ben presto nessuno potrà più riconoscere neanche lontanamente i luoghi della propria infanzia e il noto paradosso, per cui la città restava sempre quella mentre quel tempo della nostra vita era perduto, cesserà di rendere pericolosamente acuto il nostro sguardo, uniformandolo alla cecità di colui per cui si organizza ovunque l'esotico pittoresco.
Ma perché adombrarsi per questo? Non è forse ciò che è già accaduto e che accade regolarmente a proposito di tanti altri momenti, meno eccezionali ed eclatanti, della nostra vita, nei quali lasciamo continuamente fare senza opporci?
Se da decenni ormai abbiamo rinunciato in maniera così vistosamente impressionante a voler essere protagonisti nelle piccole e grandi scelte che riguardano la nostra vita in comune, perché improvvisamente si presume che dovrebbe scuoterci da tanta apatia il protagonismo degli Otto, ben più appariscente che reale?
Non sarà mica una specie di consolatorio punto d'onore? L'eccezionalità dell'occasione non sarà per caso anche quella della protesta, la riconferma della regola dell'acquiescenza estrema nella vita di tutti i giorni? Un po' come i discorsi incendiari nei comizi della domenica davano ai nostri bisnonni socialisti modo di sentirsi riscattati dal grigio conformismo dell'adesione quotidiana al "progresso" tecnico-industriale? (Con la differenza però che di quelle loro forme di comunicazione almeno i nostri bisnonni avevano il controllo…)
Così alcuni sudditi si mettono addirittura inopinatamente a pretendere che i "Grandi" li starebbero privando della propria "sovranità". Ora, quando si è, come noi, salariati, teleutenti, elettori, assicurati, consumatori, pazienti della sanità, eccetera, occorre una capacità di autoaccecamento consolatorio veramente straordinaria per immaginarsi in qualche modo "sovrani" ma, soprattutto, occorre avere introiettato un servilismo e una mancanza di dignità senza fondo per desiderare di esserlo.
Proprio aver riadattato questo consunto, ridicolo e vergognoso costume di scena mitologico della sovranità dei re sulla figura del "cittadino" degli stati nazionali, invece di gettarlo alle ortiche, è stato il vero fallimento dei tentativi rivoluzionari moderni dei nostri antenati di creare uno spazio della libertà pubblica. Oggi la sovranità appare ormai immediatamente una vacua pretesa ideologica che squalificherebbe in partenza ogni nuovo tentativo in tal senso, perché è palesemente incompatibile con la pluralità degli essere umani, che non possono agire liberamente né quando comandano né quando sono comandati: dove essa incomincia finisce ogni possibilità di res publica e ha inizio il dominio irresponsabile di qualche apparato.
I risentiti impotenti, che amano credersi "sovrani" appunto finché possono identificarsi con un qualche apparato immaginato come potente, sono lo stesso tipo di suddito mistificato che è disposto a prendere per "federalismo" l'attuale proliferazione di apparati sovra e sottostatali, che sembrano sottrarre sostanza agli Stati nazionali mentre, rimanendo al di sopra di qualsiasi controllo effettivo delle persone comuni, non sono che ripugnanti metastasi di essa.
Nella panoplia di armi senza manico cui manca anche la lama del suddito che, nelle grandi occasioni, si finge "cittadino sovrano", non può mancare l'ambiguo appello ad una "autodeterminazione dei popoli" che si riferisce per lo più alla presunta "volontà generale" di qualche supposta "etnia" (pseudoconcetto di origine eurocentrica e razzista) e che si caratterizza soprattutto per non contemplare mai l'"autodeterminazione" reale degli individui e dei gruppi concretamente esistenti di cui tali "popoli" si compongono; e, prima di tutto, la loro eventuale determinazione a non considerarsene parte.
Chi parla di autodeterminazione senza riferirsi tanto per cominciare alla propria, chi non respinge innanzitutto e ovunque la pretesa onnipresente di mettere il destino e l'autonomia degli individui concreti al servizio di qualche collettività considerata come un tutto "naturale" che non si può discutere, è in realtà un moderno fanatico della sottomissione che ha in bocca solo cadaveri.
Anche se il dominio personale più brutale ha riportato sotto i suoi racket larghi strati della realtà sociale, se i bei giorni dello schiavismo stanno tornando e se attraverso le nuovissime antenne le vecchie sciocchezze di ogni oscurantismo dilagano in ogni minimo spazio prima al riparo, il potere non ha rinunciato a quella caratteristica essenziale della sua modernità che consiste nell'organizzare esso stesso la vuota discussione sullo spettacolo di ciò che fanno i proprietari del mondo. Proprio mentre a noi sudditi del sordido neovillaggio globale viene fatto rivivere qualcosa dell'atmosfera che doveva circondare i convegni dei grandi feudatari e dei monarchi assoluti, gli incontri come quello di Genova non possono al contempo non tentare di farci credere che ci troviamo invece piuttosto in quel mondo euroamericano degli albori della contemporaneità in cui alcuni popoli politicamente organizzati vedevano nei governanti che si erano scelti delle guide che li conducevano per mano, in maniera più o meno razionale rispetto agli scopi ritenuti comuni e sulla base della conoscenza e della comprensione storica degli eventi trascorsi.
In realtà, dietro a ognuno degli otto "Grandi" che si ritiene si riuniscano per ponderare gravemente i futuri destini del mondo, da molto tempo non ci sono che irresponsabili "trust di cervelli" di tecnici e specialisti che, nonostante il nome, non pensano affatto - non è questa un'attività che si possa affidare a dei computer…. - ma fanno piuttosto dei calcoli in base alle conseguenze calcolabili di intere costellazioni di ipotesi (i cosiddetti "scenari" ), senza essere minimamente in grado di sottoporle a verifica. Del resto, ciò che all'inizio di queste costruzioni di "scenari" assistite da computer appare ancora come semplice ipotesi, dopo poco si ritrova già trasformato in un "fatto", che dà origine a intere sfilze di analoghi non-fatti, facendo dimenticare il carattere speculativo del tutto. Tutta questa futurologia di Stato (in cui non può mancare mai nemmeno il concorso degli astrologi con i loro oroscopi) ha su coloro stessi che la concepiscono, prima ancora che su di noi sudditi sui quali i media ne riversano i cascami giudicati opportuni, un effetto essenzialmente ipnotico, che finisce di assopire ogni residuo senso della realtà e lo stesso semplice senso comune.
All'ombra di questo declino progressivo del potere, che la spettacolarità delle assise come quella di Genova dovrebbe mascherare, il predominio del mondo degli affari e della sua logica ha mandato in rovina i "popoli" come corpi politici organizzati non recentemente ma più di un secolo fa, anche se le élite dei paesi ex-coloniali, giocando sulla confusione tra libertà dalla dominazione coloniale e instaurazione del potere irresponsabile di un apparato statale autoctono, hanno prolungato le illusioni al riguardo nel corso del novecento. Oggi ovunque la speculazione, che è diventata la parte principale di ogni proprietà, "si governa pressoché da sola, a seconda delle preponderanze locali, attorno alle Borse, agli Stati, alle Mafie che si federano tutti in una specie di democrazia delle élite speculative" (Debord). I profittatori di ogni genere che sono ammessi a farne parte possono badare soltanto a riempirsi le tasche in gran fretta, dato che difficilmente potrebbero credere davvero all'avvenire prospettato dai cangianti "scenari" abborracciati per loro.
Eppure, a giudicare dalle più o meno costumate rimostranze di chi rimprovera agli Otto di governare la Terra usurpando i poteri pubblici delle Nazioni, sembrerebbe che la finzione del mondo dell'altroieri regga ancora. Ma imputare l'andamento catastrofico del pianeta a decisioni lucidamente malevole e perversamente razionali di tipo imperiale non sarà un modo paradossalmente ottimistico di autoilludersi sulle capacità dei decisori attuali, per non prendere atto che la loro incapacità di percepire la portata storica delle proprie decisioni è gravida di ben più minacciose conseguenze? La certezza che non esiste al mondo alcuna istanza politica, né nazionale né sovranazionale, che sia in grado non si dice di pianificare la regressione e la decomposizione storica in corso, ma nemmeno di introdurvi ex-post qualche barlume di parziale razionalità: ecco un pensiero perturbante non può non insinuarsi nei momenti di stanchezza del chiacchiericcio globale, per quanti sforzi congiunti facciano gli Otto per apparire previdenti reggitori del governo delle genti, le Organizzazioni Non Governative e i contestatori autorizzati per soccorrerli nelle loro dimenticanze e manchevolezze con i propri buoni uffici, e infine noi, comuni sudditi, per convincerci che le cose non sono poi così gravi, che in un modo o nell’altro finiranno per aggiustarsi da sole e che le sventure di oggi portano i germi della felicità di domani.
E’ per esorcizzare questi pensieri che si è formata questa sorta di unanimità nel fare "come se", in cui tutti avrebbero paura di passare per "ingenui" se ponessero le questioni in modo realistico: sull’onda della mescolanza di virtuale e di reale nelle pratiche economiche e culturali attuali, che ricorda il famoso pâté di carne di allodola (dosi: un cavallo per un’allodola) si fa come se la crescita illimitata potesse essere durevole e generalizzata e l’aumento del prodotto lordo salvasse posti di lavoro, come se il debito potesse essere rimborsato oppure si potesse indefinitamente ripianarlo ricorrendo ad altri debiti, come se lo scatenamento della predazione generalizzata di ognuno per sé realizzasse magicamente il bene di tutti, oppure dopo averla scatenata la si potesse controllare, tassare, addomesticare, come se la terra promessa dello "sviluppo" economico come abbondanza diffusa di merci – pur se invero povere e deludenti – non si fosse rivelata l’eccezione, che può generalizzarsi alla maggior parte del mondo come regola solo in forma di astratta e severa logica mercantile che distrugge ricchezze culturali, rapporti sociali e beni naturali trasformandoli in merci false, rare e costose, oppure come se ci si potesse appellare a uno sviluppo economico "vero" buono, duraturo e sostenibile contro quello "falso" che ha tradito i suoi fedeli.
Questo regno unanimistico del "come se", questo gigantesco simulacro in cui tutti, discutendo aspramente, "comunicano", ha un nome: globalizzazione, un trompe l’oeil in cui la verosimiglianza è sufficiente a sospendere la questione della realtà e il cui valore strategico sta quindi principalmente nell’assuefarci a vivere nell’indifferenza al reale, adagiati nella perdita del senso della realtà e nella rinuncia al giudizio.
I dirigenti degli otto paesi più industrializzati del mondo possono anche soddisfarsi del fatto che il lato materiale della catastrofe rimanga per il momento confinato per lo più nelle immense "periferie" del mondo, mentre noi sudditi delle cittadelle economiche ne viviamo separatamente soprattutto il lato culturale e simbolico; ma, per quanto noi sudditi siamo decisi a essere del nostro tempo nella strenua volontà di autoinganno, per quanto affettivamente attaccati alle nostre alienazioni più che alla stessa vita (le recenti rivelazioni sulla programmazione dell’avvelenamento industriale dei cibi non hanno sollevato che mezze preoccupazioni semipubbliche ansiose di prendere per buone prime finte "precauzioni" governative), siamo non di meno condannati a una tormentosa irrequietudine perché, nonostante tutto, qualche involontaria intuizione della realtà trapela alla nostra coscienza, malgrado la decisione irremovibile di non decidere mai di nulla ci induca a una sfiducia preventiva nelle nostre intuizioni.
L’occhio del ciclone planetario in cui tutto è innaturalmente calmo ed eccessivamente immobile è infatti questa nostra apatia assoluta; il motivo della inedita sterilità che l’attuale decomposizione storica presenta nell’area dove la storia è nata sta nella nostra rinuncia a osare creare qualcosa autonomamente, rompendo il bisogno di sentirsi autorizzati per difendere davvero i propri punti di vista.
La rassegnazione all’assenza di creatività storica che le rivoluzioni moderne fino al ‘68 avevano profondamente scosso e delegittimato, controbilanciando e tenendo a freno le forze del dominio che si raccoglievano attorno all’espansionismo dell’economia industriale, l’ultimo terzo di secolo l’ha ristabilita come norma che va da sé, determinando un crollo storico senza nome.
E’ questo sprofondamento delle nostre capacità, non solo di opporci e di resistere ma soprattutto di prendere iniziative autonome dal dominio, che ha aperto la strada a una nuova fase di espropriazione e di oppressione, a un nuovo regime sociale predatore ancora più rozzo, brutale e "primitivo" di un capitalismo ottocentesco senza rivoluzione francese. La distruzione progressiva del plurimillenario processo di umanizzazione da parte della moderna "razionalità" economica, che fu intrapresa allora con l’imposizione del lavoro salariato e via via intensificata con l’industrializzazione dell’agricoltura, della cultura e del tempo libero, ha fatto passi da gigante da quando non si trova più di fronte a contrastarla la tendenza storica degli assoggettati a creare lo spazio della libertà istituendo il potere comune sul destino della vita associata, e può mirare oggi direttamente a completare la distruzione dell’ambiente e dell’esistenza umana attraverso la colonizzazione, l’artificializzazione e la sterilizzazione della stessa vita biologica. L’ambizione delle necrotecnologie non è nulla di meno che familiarizzarci a convivere simbioticamente con la morte. Il necessario bombardamento a tappeto dei geni, come quello dei territori e quello delle menti richiedono e, come per armonia prestabilita, determinano uno stato d’eccezione permanente, mentre mirabilmente ci educano a questa nuova regola.
In questo quadro una non secondaria utilità che il dominio può ripromettersi dall’allestimento farraginoso quanto costoso di grandi happening come il G8 e simili non sta forse proprio nel saggiare la nostra difficilmente sondabile passività di sudditi nelle continue emergenze, cui già ci espone l’ininterrotta serie di catastrofi ecologiche, sanitarie, alimentari, ecc.? La messa a soqquadro di intere città al di fuori di ogni normale procedura, il freddo annuncio di misure eccezionali di ordine pubblico, quali solo la Gestapo si permetteva, per combattere misteriosi quanto diabolici terroristi, sembrano obbedire alla logica di progressivi ballon d’essai per vedere fino a che punto ci si può spingere nella vessazione e nella provocazione esasperata, senza che noi sudditi siamo spinti a reagire direttamente, addestrandoci allo stesso tempo a sopravvivere "responsabilmente" nelle situazioni crisi. Dato però che la passività assoluta non è auspicabile per il potere, perché la mancanza di qualunque reazione non gli segnala più le linee di frattura potenzialmente pericolose, la creazione di queste situazioni provocatorie è utile anche a far emergere moti di rispettosa doglianza, che possono spingersi fino alla forma di conflitti addomesticati, mimati per procura da appositi specialisti autoselezionatisi fra coloro che accettano di recitare la parte di "cittadini" della democrazia spettacolare.
Cessare di sprecare le proprie energie nelle vacue diatribe senza effetto a proposito delle derisorie similscelte che quest’ultima propone, abbandonandone il soliloquio a più voci ai suoi mestieranti; smettere di rincorrere, per timore di perdere delle occasioni, gli "eventi" sostanzialmente mass-mediatici che essa instancabilmente allestisce per occupare in anticipo il tempo e lo spazio da cui potrebbe sorgere l’inatteso (sarebbero mai nati il Sessantotto o il Settantasette se si fosse provveduto a concentrare in anticipo ogni attenzione su qualche "epocale" kermesse di questo genere?): strapparvi un ruolo di comprimari non può che ribadire la propria incapacità di creare eventi reali; evitare di andarsi a cacciare, caricando a testa bassa, in tutti i trabocchetti dei ruoli che essa prescrive: sono solo alcune delle precondizioni minime per cercare con qualche lucidità una via d’uscita che oggi appare più lontana e più difficile che mai, sospesa com’è alla lenta riconquista e reinvenzione di una autonomia a trecentosessanta gradi da tutte le principali usanze e credenze di questa società.