Gérard Bauër Gênes, la ville sans théâtres (Chroniques 1935-64), 0riginariamente apparso sul “Figaro”, ottobre 1947, su cui Bauër, nipote di Alexandre Dumas padre, tenne per molti anni le sue chroniques de Guermantes di gusto stendhaliano raccolte in diversi volumi.

Gérard Bauër

Teatri a Genova?

Da quel terrazzo si vedeva Genova per tutta la distesa ad arco, con la sua disposizione a scalare di ville e di palazzi, le cupole delle chiese e l’intrico del porto. La mare vi disegna una riva incurvata attraversata da una diga che sorveglia l’immobile distesa del mediterraneo. Più scura è l’acqua dei bacini, dove si nota ancora, qua e là, all’entrata del porto l’alberatura delle imbarcazioni affondate dai tedeschi per ostruirlo. Nella città, lo sguardo scopre vasti spazi distrutti, volte crollate, palazzi di cui rimangono solo facciate e che il fuoco ha privato di ricchezza e autorità.

Il nostro ospite ci disse: “Stavo su questo terrazzo la notte del 22 ottobre 1943 quando sentii avvicinarsi gli aerei. Ci eravamo abituati. Passavano spesso su Genova e già, in passato, l’avevano bombardata...Quella sera, lanciaromo dei paracadute illuminanti. La notte era chiara e, sotto il cielo autunnale, tanto mite qui, Genova splendeva. La luce di quegli ombrelli che scendavano con indolenza sulla città era sorprendente. Se un giorno la luna dovrà morire, forse illuminerà la terra con un ultimo riflesso della stessa sovrannaturale intensità, la notte della sua morte. Chiamai un amico: <Guarda! Genova non è mai stata così bella>. Arrivò, si appoggiò a questa stessa balaustra e contemplò Genova. Fu allora che sentimmo la seconda squadriglia di aerei e che, improvvisamente, iniziò il bombardamento. Spaventoso! L’aria tremò. E l’intera città prese fuoco. Dappertutto s’alzavano fiamme, gli stessi bacini portuali sembravano bruciare, Nuvole di fumo si addensarono sopra quell’immenso incendio da cui partivano colpi sordi, e appesantirono l’orizzonte. Pensai che l’indomani non avrei più rivisto Genova, ch’ essa sarebbe stata distrutta. Non dormii: attesi lo spuntare del giorno e, poco alla volta, attraverso l’alba e il fumo, scorsi la città -ancora in piedi…”.

In piedi, come noi pure l’abbiamo ritrovata, e con molte ferite già medicate. Ma non ha più teatri. Ce n’erano quattro: il Paganini, dove si recitava il repertorio moderno; il Politeama Genovese e il Margherita, consacrato alle commedie di successo, teatro nella tradizione italiana, dove vi consegnavano la chiave del palco quando lo si prenotava. Il quarto, il Carlo Felice, a dire il vero il primo, era il più bello della città e uno dei più belli d’Italia, uno dei più grandi, anche, con la Scala di Milano e il San Carlo di Napoli. Era stato costruito all’inizio del secolo XIX dal famoso architetto genovese Carlo Barabino, che gli aveva donato un peristilio all’antica, ornato di colonne nello stile canoviano; in alto, statue di proporzioni generose conferivano una sorta di gravità atemporale a quel luogo di piacere e di bellezza. E, di fatto, la loro eternità non è stata toccata: le bombe incendiarie hanno rispettato la facciata e la struttura del teatro - e le statue. Ma è tutto quel che resta. L’interno non è che una rovina calcinata dove si fatica ad immaginare che ci furono cinque ordini di palchi, un’orchestra, un’ampia scena con laboratori.

Vale ripeterlo? La vita e la morte di un teatro sono cose che mi toccano in profondità. Ammiro coloro che, artisti e interpreti, si sono votati al piacere degli uomini, che si sono imbarcati in questa avventura d’illusione, in una quotidiana traversata serale le cui vele gonfia il respiro della sala. La storia dei teatri mi sta a cuore più di quella delle battaglie perse o vinte nei campi catalaunici! Ecco il Carlo Felice distrutto! Dedicato a Carlo Felice, era stato inaugurato nella primavera del 1828. Quella sera avevano dato L’assedio di Corinto di Rossini, il Barbiere e un Colombo di Morlacchi, altra bella partitura, a quanto sembra. Il corpo di ballo aveva danzato Gli adoratori del fuoco, con la sig.na Vaque-Moulin come prima ballerina e il partner, un francese di nome Paul, subito definito “l’aereo” dai giornali. I genovesi avevano avevano acquistato un proprio palco a dodici e quattordici mila lire. E per un secolo il teatro offrì brillanti stagioni primaverili. Vi si suonò Bellini, Rossini, Donizetti, Verdi. Sarah Bernhardt, a due riprese, vi venne molto applaudita. Ma la stagione trionfale fu quella del 1888, in cui il celebre Tamagno cantò Otello con Cesira Ferrani come Desdemona. Per parte nostra, ne conservavamo un delizioso ricordo: quello di Conchita Supervia, in Carmen, diversi anni orsono.

Tanti canti, emozioni, acclamazioni, incontri nei palchi, palpitazioni, tra le quinte, passi di seta di ballerine prima dell’entrata in scena, quest’accumulo impalpabile, credete forse che un teatro non lo conservi in sé come un tesoro? Le promesse mantenute di felicita e d’oblio, la bellezza nella sua rappresentazione, l’aspettativa, le delusioni, la reputazione di ragazze belle e avvenenti, le loro tenere ombre: una notte di guerra e non ne rimangono che queste pietre qua intorno.