Renato Venturelli
Genova in Noir
In principio era Jean Gabin, che arriva tra le macerie
della Genova del dopoguerra, s’immerge nel labirinto del centro storico, trova
l’occasione di una nuova vita ma finisce inevitabilmente per andare incontro al
suo destino. Il film è Le mura di Malapaga (1949), diretto da René
Clément cercando di combinare la tradizione del noir francese con la novità del
neorealismo italiano. E il risultato fa il giro del mondo: due premi al
festival di Cannes, Oscar per il miglior film straniero, cinephiles di ogni nazione
che scoprono all’improvviso il fascino dei caruggi e di una città fino ad
allora quasi completamente ignorata dal cinema.
Le mura di Malapaga è l’atto di nascita di una
mitologia, il film che fonda l’immagine internazionale della Genova noir. Gli
anni ‘50 svilupperanno quest’idea, basandosi soprattutto sull’oscurità
minacciosa dei vicoli, dell’angiporto, di una città marinara e misteriosa in
cui allignano traffici criminali e da cui partono navi per destinazioni ignote.
Un paio d’anni dopo arriva Comencini per il finale cupissimo di Persiane
chiuse, dove il centro storico di Genova è luogo di prostituzione, di
malavita, di bar malfamati pronti a inghiottire le figlie di buona famiglia
trasformandole in donne perdute. Poi, l’altro film del dittico genovese di
Comencini: La tratta delle bianche, dove una maratona di ballo al Lido
d’Albaro nasconde in realtà traffici di ragazze, destinate a finire su navi che
le porteranno verso un futuro di prigionia e di prostituzione.
Per tutto il decennio, l’immagine noir di Genova sarà
affidata a melò criminali che sfruttano soprattutto i vicoli del suo centro
storico, allargandosi magari ai moli del porto o agli scenari non ancora
restaurati di Palazzo Ducale, sede all’epoca del Palazzo di Giustizia. Si
tratta di film come Processo contro ignoti (1952, Guido Brignone), con
Arnoldo Foà cattivissimo e Domenico Modugno poliziotto. Oppure Dramma in
porto (1955), o Saranno uomini (1956) sul prete Massimo Girotti
che cerca di salvare i ragazzi di strada, fino a Il magistrato (1959),
che guarda a una Genova più borghese ma ha il suo cuore criminale ancora
attorno alle attività portuali. E poi il bellissimo La banda Casaroli
(1962, Florestano Vancini), o film stranieri che vanno dall’inglese Interpol
(ne parliamo a fianco) ai francesi Assassinio sulla Costa azzurra
(1962) o Scappamento aperto (1964), dove Jean-Paul Belmondo passa da
Genova e si ferma con l’auto in Circonvallazione a mare.
La vera svolta arriverà però sul finire degli anni ‘60,
quando si annuncia la stagione del poliziottesco destinata a fare di Genova una
delle sue capitali. Per primo arriva Siro Marcellini con La legge dei
gangster (1969), film realizzato sulla scia di Banditi a Milano e
tutto ambientato a Genova, con tanto di rapina in banca a De Ferrari. Poi c’è
un thriller “alla Dario Argento”: Perché quelle strane gocce di sangue sul
corpo di Jennifer? (1972), dove il centro storico viene completamente
ignorato e domina il cemento armato dei grattacieli tra piazza Dante e via
Ceccardi. E’ una visione completamente nuova della minaccia, della paura e
dell’angoscia, che si sta facendo strada all’interno di un cinema in radicale
trasformazione. E col rinnovamento arriva anche uno sguardo completamente nuovo
sul paesaggio urbano di un’Italia appena uscita dal boom e pronta a entrare
negli anni di piombo.
Il grande ciclo dei poliziotteschi genovesi comincia con
La polizia incrimina, la legge assolve (1973) di Enzo G. Castellari, e
comprende titoli ormai classici come La polizia è al servizio del
cittadino? (1973), Il cittadino si ribella (1974), Mark il
poliziotto spara per primo (1975), Genova a mano armata (1976).
L’epilogo avverrà conIl giorno del cobra o Il bandito dagli occhi
azzurri, entrambi del 1980 ed interpretati dal solito Franco Nero,
autentica star del poliziottesco genovese. In mezzo ci stanno tante altre
produzioni che transitano da Genova, da Italia a mano armata a Napoli
violenta, ma anche titoli anomali come Dio sei proprio un padreterno
(1973), oppure una grande produzione internazionale come Il giorno dello
sciacallo (1973) di Fred Zinnemann.
I motivi di quest’improvvisa passione del cinema
italiano per Genova sono noti. La città offriva una grande ricchezza di
scenari, passando dal centro storico alle grandi arterie di traffico, dal porto
alla zona industriale, dal mare all’entroterra. Soprattutto, c’era un
organizzatore locale, Giorgio Nencini, che sapeva come trattare con la malavita
e permetteva così di girare senza problemi anche nelle zone più malfamate. A
Roma, a Napoli o a Bari, i negozianti si mettevano sulla porta del negozio e
non ti lasciavano lavorare se non li pagavi – dicevano i registi – A Genova,
invece, collaborano perfino i malavitosi, fanno le comparse, ci invitano a
cena… Mario Lanfranchi ricorda di aver girato in via Pré nell’appartamento del
fratello di un boss, che si precipitò a portar via un fagotto pieno di pistole
prima che venisse ripreso dall’operatore. Castellari ricorda un altro boss,
chiamato “pummarò” per via di un rubino gigantesco che portava al dito. E
Nencini giura che le costumiste fotografavano i vestiti sgargianti dei
malavitosi ingaggiati sul set, i loro gessati sconvolgenti. Inoltre, genova era
a quel tempo al centro della cronaca nera, e faceva comodo rappresentarla un
po’ come Marsiglia e un po’ come San Francisco.
In quei film, l’immagine di Genova viene radicalmente
trasformata. Dal centro storico si apre alle strade borghesi, dove vivono i
veri delinquenti. Si passa continuamente dalla Foce, corso Italia, Brignole, si
vedono tutte le novità urbanistiche via via realizzate: dalla Sopraelevata,
amatissima da tutti i registi (perché permette riprese “all’americana”) alla
Fiera del mare, da Piccapietra al grattacielo di Brignole, fino alla zona del
Matitone immortalata in un tardo post-poliziottesco (L’angelo con la
pistola, 1992). Ormai la Genova noir non è più solo una città di porto e
angiporto, vicoli e centro storico. La sua mitologia noir passa invece dal
passato medievale al presente industriale, al futuro degli accostamenti
brucianti tanto amati nell’era delle mode postmoderne. E questo anche se i
registi venuti da Roma continuano a vederla come la porta del triangolo
industriale del Nord, mentre per quelli venuti dall’estero è il porto
mediterraneo proiettato verso il Sud del mondo: a partire da Zinnemann nel Il
giorno dello sicacallo, oppure dallo svizzero Thomas Koerfer, che in Exit
Genua mostra un centro storico interamente abitato da africani.
Cosa resta oggi di questo immaginario? Il cinema
italiano di genere non esiste più da tempo, e ha trascinato via con sé quelle
storie capaci di stagliarsi sullo schermo più grandi della vita. Qua e là
qualche film continua a ricordare l’epopea noir di Genova, ma in un contesto
ormai disincantato: in Padre e figlio (1993), Pasquale Pozzessere ci
mostra Genova e le sue periferie come scenario di un disagio giovanile
post-industriale. Qualcosa di analogo fa Vuoti a perdere (1999),
mentre Voci (2002) racconta un classico caso di omicidio, ma
ambientato in una Genova borghese che è ormai l’immagine predominante: non tanto
di una città, quanto di un cinema che rispecchia il suo pubblico e l’orizzonte
dei suoi spettatori. Almeno, fino all’ultimo titolo: La bocca del lupo
(2009) di Pietro Marcello. Un docufilm che non ha assolutamente più nulla a che
spartire con la tradizione dei generi, ma che s’immerge tra i vicoli e i suoi
abitanti secondo quello che è il nuovo verbo del cinema italiano di oggi, dove
la narrazione nasce dalla realtà e dalla testimonianza documentaristica. Una
nuova era sta per aprirsi? “FilmDoc”, novembre-dicembre 2011