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Genova 2004
Genova capitale europea della cultura per il 2004. Difficile che qualcuno si ricordi quale altra città lo sia stata nel 2003, per non dire l’anno precedente o quello precedente ancora. E’ un’osservazione che fanno in molti, generalmente i critici. E’ dunque un’osservazione banale. Banale sì, ma acuta. Quanti sono a sapere come è titolata Genova quest’anno? Crediamo in pochi, a parte, presumiamo, i genovesi stessi, informati, per così dire, “d’ufficio”.
La fama immediata, si dirà, è secondaria. In Europa ci sono dei finanziamenti e va a merito delle amministrazioni locali saperli intercettare. E’ vero che ormai i grandi movimenti del denaro non corrispondono nemmeno più a dei pezzi di carta, ma sono soltanto delle cifre scritte sui computer, qualcuno, tuttavia, alla fine in qualche modo pagherà senza che gliene freghi niente né di Genova né dell’Europa, il che equivale oggi a pronunciare una specie di bestemmia, come ormai, dopo che si è interrotta una lunga tradizione di beata indifferenza, lo è in Italia non soffermarsi commossi sulle note dell’inno nazionale. A proposito, c’è un inno europeo? Se c’è noi l’ignoriamo. All’Europa, per fortuna, manca Ciampi. E, altra buona notizia, a “Genova 2004” mancano gli interventi dell’architetto Piano.
Manca Piano ma c’è un altro genovese di statura planetaria, Germano Celant, supervisore del programma e responsabile di una delle sue principali vetrine. Il grande critico d’arte internazionale in città ha continuato a tenere una base, forse quella principale, per la sua attività. Onore a lui per questo, quantunque agli onori delle sue preziose pagine non siano mai saliti gli artisti che a Genova hanno continuato a vivacchiare nell’ultimo quarantennio e oggi, a giudicare da quello che si è letto sulla stampa, sembra aver messo in mostra la sua (per il solito defilata) presenza più per i veti che si dice abbia posto a svariate iniziative che per quelle che ha sottoscritto. In prima persona cura Arti e architettura. “L’idea forte”, ha detto, “è che si possa collezionare architettura”, cosa che avanti l’illuminante dichiarazione i proprietari di edifici non sapevano di stare facendo. Ha anche detto che gli architetti vanno “ridisegnando il mondo e il modo di raccontarlo”. Non ha aggiunto “purtroppo”, come avrebbe fatto qualsiasi persona di buon senso, ma si è detto convinto che “sta sorgendo una nuova era”.
Ci sarebbe di che correre ai ripari, la minaccia sembrerebbe incombere, ma un altro critico, Vittorio Sgarbi, tranquillizza: “boiate!”. Anche lui si è affacciato sul 2004, tanto da aver proposto al capo della Regione Liguria Biasotti una mostra sul Rinascimento in Italia, ma “niente. Non ha capito nemmeno la parola”. Benché da angolazioni diverse, Celant e Sgarbi condividono la stessa idea di una grande arte fatta di presunte vette espressive. Ciò nondimeno quella di Sgarbi, avendo una sua organicità col canone storiografico, limita le sue vedute alla definizione e, talvolta, riscoperta dei valori in vista di una sempre più precisa approssimazione estetica che valga tanto nei libri quanto nel commercio e, di conseguenza, nelle collezioni, quale indicazione di fedeltà alla storia, di durata, e dunque di classicità. Celant, viceversa, sembra aver voluto rompere con le vedute canoniche (cosicché è sorto a suo tempo l’equivoco di una sua collocazione fra l’avanguardia) per affermare una diversa idea di classicità che, intrinseca sì alle esperienze del passato, si sarebbe rivelata in tutta la sua purezza negli artisti da lui difesi e in alcuni loro predecessori, secondo una linea interpretativa – ci pare – già affermata negli Stati Uniti del dopoguerra, in specie da Clement Greemberg.
Così se Sgarbi, che avrebbe di che mantenere un atteggiamento distaccato, si lancia come al solito nella mischia seguendo un’intima e aggressiva inclinazione, simpatica o antipatica che sia, Germano Celant non ha da ostentare che l’olimpicità. Ma, attenzione: non vogliamo dire che siamo di fronte a un’alternativa o che si è scelto male (benché sotto sotto resti da rimpiangere la “vivacità” di Sgarbi), né pensiamo a un lavoro di coppia che, come i poliziotti dei film, avrebbe potuto ottenere, nella diversità degli atteggiamenti, i risultati migliori. E’ che le idee di Celant ci sembrano corrispondere a quelle degli architetti che vanno predicando la necessità di sfoltire il centro storico genovese dagli edifici non pregiati (ma ce ne sono?) in modo da rivalutare con la nuova prospettiva l’eccellenza di alcuni. Un centro storico già da tempo tradito nella sua componente umana, perderebbe a questo punto la sua principale caratteristica, quella di dover guardare in alto. Se l’epoca degli “ingegneri sociali” è finalmente tramontata, non ci pare che le vecchie supposte utilità migliorino con l’aggiunta della supposta bellezza che ha i suoi tecnici negli architetti. Proprio per niente! Facciamo a questo punto nostra la causa dei geologi affinché siano loro, e solo loro, ad occuparsi di “ere”.
la
redazione