Carlo Rovello - Giacomo Checcucci

con Giorgio Gaslini (21 dicembre 2011)

 Con l’elaborazione del concetto di Musica Totale lei ha tentato di superare i generi o meglio di proporre una conoscenza approfondita di essi per poterli frequentare al meglio. In questo vi era qualcosa di antisnobistico e forse di postmoderno. La musica sinfonica, il jazz, il rock, il pop e la musica popolare dovevano abbattere le barriere e essere indagati in maniera profonda. Questa posizione le è stata dettata da una critica all’elitarismo della classica che il jazz stava mutuando da essa?

Il “musicista totale” opera creativamente sia con composizioni scritte (sinfoniche o cameristiche o solistiche) sia in sede esecutiva–interpretativa nei suoi programmi di concerti.

Non cerca una molteplicità eclettica, mai, bensì tende a essere sincretico. Non è assolutamente un eclettico! Tende a realizzare opere o momenti di musica partendo da una visione della musica e delle musiche a 360 gradi.

Di fatto non è interessato a ricerche cerebrali e algide. è musica del XXI secolo oltre i radicalismi così lontani sia dal vero senso e fine della musica, sia dall’ascolto della gente, che spesso pur magari non avendo preparazione culturale, ha tuttavia sempre una apertura della sensibilità.

Così se un’opera è opera d’arte vera arriva sempre a toccare quelle corde degli esseri umani che dalla musica si aspettano questo e non rompicapo (anche se di preziosa fattura).

Cosa pensa di un tentativo come quello di Fabbrica Illuminata di Luigi Nono? E del fatto che la sua musica fosse fatta oggetto di fischi durante le esecuzioni presso pubblici “popolari”?

Ero presente a Roma, quando dopo una mia performance pianistica molto applaudita da oltre 10.000 lavoratori, Luigi Nono (un autore che stimo e apprezzo, ancor più oggi, moltissimo) subito dopo si presentò con il nastro magnifico di “LA FABBRICA ILLUMINATA” che, forse proprio perché penalizzata dalla freddezza della trasmissione su nastro, provocò in quegli operai dapprima silenzio e poi dissenso. Dipende molto da come si presentano le cose e non vengano calate dall’alto. Questo fu l’errore dell’Autore in quella situazione.

Il problema dei compositori è che creano al tavolino e mai o quasi mai misurano le loro opere all’ascolto diretto con i pubblici nazionali o internazionali. Tuttavia “LA FABBRICA ILLUMINATA” è una grande opera che rimane nella storia della musica del ‘900.

Alla domanda se gli operai capissero le sperimentazioni degli Area, Demetrio Stratos in un’intervista degli anni 70 risponde “Guarda, Gaslini ha fatto “Fabbrica occupata”… non puoi dargli Orietta Berti perché è più facile! La musica è rivoluzione, vita.” Cosa pensa di questa affermazione, che riecheggia così da vicino il biglietto di addio di Tenco?

Si, la musica è rivoluzione, è evoluzione, è vita che ravviva la vita di chi la ascolta con orecchie e animo aperti.

Cosa pensa degli Area e della ricerca vocale di Demetrio Stratos?

Ho avuto un bel rapporto con gli Area e in particolare Demetrio Stratos. Ho ammirato e ammiro ancora oggi la sua ricerca della vocalità estrema.

Quando se ne parla o se ne scrive vedo che quasi sempre viene ignorata la ricerca vocale precedente di vent’anni di CATHY BERBERIAN, prima moglie di LUCIANO BERIO. La ricerca di Demetrio è figlia di questa.

Quali sono i gruppi rock italiani dei ’70 secondo lei più notevoli dal punto di vista musicale?

Mi sono sempre interessato di Rock, ma non sono uno storico della musica rock. Posso dirvi che ho ascoltato dal vivo i BEATLES, un fenomeno musicale unico e prezioso che rimarrà nella mia storia; che ho ascoltato con attenzione i Rolling Stones e amato Bob Dylan. Considero un piccolo capolavoro l’opera rock “Tommy”. Ma sopra tutto e sopra tutti, avendolo ascoltato anche dal vivo e avendo dedicato anche oggi lungo tempo di ascolto e di studio alla sua opera omnia, pongo senza esitazione FRANK ZAPPA.

Cosa pensa di Franco Battiato, soprattutto degli album sperimentali degli anni 70?

Gli album degli anni ’70 di Franco Battiato? Li avevo trovati interessanti, piuttosto alternativi al sistema dominante del rock e del pop italiani di quegli anni. Poi gli ho sentito cambiare strada e divenire una sorta di popstar filosofica e vicina alla New Age.

Non le sembra che l’identificare il popolare con ciò che è popolare attraverso la società dei consumi sia stato un errore della sinistra ma che allo stesso tempo la musica sperimentale, per quanto ottima, rimanga di élite e incorra anch’essa in contraddizione?

Sì, forse. Di certo popolare è ciò che nasce dal popolo senza filtri e diktat culturali, mentre popolaresco è ciò che si offre al consumo di esso è espressione. Se la musica sperimentale rimane di “élite” è peggio per lei. Che scenda dal trono e ascolti anche gli altri da sè.

Luigi Longo nei primi anni 70 al cospetto di una folta rappresentanza del movimento innamorato di Area e affini, si mise ad intonare proprio “Fin che la barca va” di Orietta Berti.

Il fatto che le persone comuni abbiano gusti  facilmente accontentabili dalla musica di consumo non rende contraddittori gli sforzi democratizzanti dei musicisti “d’arte”?

A parte la battuta di Luigi Longo che mi sembra provocatoria in senso buono, alla questione ho già risposto più sopra.

Parliamo di jazz. Cosa pensava allora e cosa pensa oggi della scena dei 50-60-70, della contrapposizione cool e free jazz? Non le sembra che la musica di Ornette Coleman con una componente quasi amatoriale (Ornette faceva suonare la batteria a suo figlio proprio perché non aveva studiato, suonava egli stesso un sax di plastica proprio perché da dilettanti e si dilettava al violino in virtù della sua non conoscenza dello strumento) sia in qualche misura più democratica della professionalità, spesso stizzita, di Miles Davis? Allo stesso tempo però la musica non “da tutti” di Davis sembra arrivare, almeno in certe fasi della sua carriera, a molti. Quella di Coleman, pur aperta ai “non professionisti”, era di nicchia allora ed è sempre più per pochi oggi. Qual è la sua opinione?

Gli anni ’50, ’60, ’70 sono stati come la scena di una grande pièce teatrale in fermento. Specialmente il passaggio tra il decennio ’50 e quello ’60 è stato fondamentale.

Grandi protagonisti quali ORNETTE COLEMAN e CECIL TAYLOR con le loro proposte liberatorie (Free Jazz) hanno segnato una frattura evolutiva a tutto il jazz mondiale.

Negli anni ’60 e ’70 sia le opere di John Coltrane che quelli del Davis-Fusion hanno completato il quadro del rinnovamento in atto.

Ma attenzione, ragazzi. Conosco bene e ne sono amico, ORNETTE COLEMAN con il quale ho anche suonato in duo. Non c’è niente di amatoriale in lui, anzi è un geniale musicista che tira per la sua strada “ARMOLODICA” con serietà. E’ tuttora un musicista interessantissimo, un vero artista nero-americano con un respiro universale. Sono anche amico di CECIL TAYLOR che è stato felice come un bambino, sia quando è venuto ad ascoltarmi a NEW YORK sia quando in altre occasione l’ho definito A POETRY MUSICIAN!

Ho condiviso anche un gran concerto, per il NEWPORT FESTIVAL IN EUROPE,  con MILES DAVIS e l’ho conosciuto molto da vicino. E’ stato affettuoso.

Quella sera aprì il concerto con il quintetto, ma più tardi lo ascoltai in quintetto con John Coltrane. E che forza espressiva, violenta, eversiva avevano insieme. Bellissimo!

Ho avuto anche un bel rapporto con John Coltrane, un animo puro, un musicista sofferto, sublime.

Cosa pensa della musica fluxus e dell’altra definizione di “musica totale”, ovvero di quella secondo la quale “tutto può essere musica” dal silenzio di Cage allo sgocciolio d’acqua di George Brecht? Quanto hanno influito Cage e i suoi discepoli sulla sua musica?

 “Tutto può essere musica” non è esattamente il principio informatore della “Musica Totale”. Ma lo è stato sicuramente per il grande e indimenticabile John Cage.

L’ho conosciuto personalmente negli anni ’50 e poi nelle sue successive tappe anni ’60 e ’70. Certamente le sue opere, che ho ascoltato e studiato, hanno un forte segno creativo al quale non si può restare indifferenti.

Enzo Del Re era un cantastorie pugliese che si limitava a tenere il ritmo picchiando sulla sedia, schioccare la lingua e cantare. Si esibiva al minimo sindacale di un metalmeccanico, non era iscritto alla Siae e non aveva un contratto discografico. Incideva, pubblicava e vendeva i suoi Lp in proprio dopo i concerti. Cosa pensa di una modalità operativa di questo genere?Ha conosciuto Del Re? Può darci una testimonianza su di lui e una sua opinione sulla sua musica?

Non ho avuto modo di ascoltare né di conoscere Enzo Del Re di persona.

Il suo modus operandi “on the road” e autogestito, è stato anche il mio in certe fasi del mio percorso artistico. Lo posso capire e rispettare.

Alla prima occasione vorrò ascoltare la sua musica se esiste qualche registrazione.

Può darci una breve testimonianza su Pino Masi, suo collaboratore in Murales del 1973?

Quanto a Pino Masi, è stato un significativo incontro con lui negli anni '70. C'è stata subito una forte stima reciproca e una identità di pensiero e di impegno civile. Pino è stato un cantore, dalla voce forte e intensamente autentica, all'insegna della giustizia e delle classi sociali più dimenticate. Ha condiviso con me tanti concerti in varie parti del nostro paese con vasta partecipazione di giovani che si riconoscevano nel nostro messaggio. Poi l'ho invitato a partecipare al mio concerto "Murales" in un teatro di Roma. Tra il pubblico c'era anche il leggendario saxofonista Ornette Coleman, mio amico, che simpatizzò con Pino e gli fece i complimenti per la sua performance. Pino, voce indimenticabile, alfiere del canto politico e civile, persona schietta e appassionata. Una leggenda che va ricordata.

Con lui hai collaborato oltre che in Murales anche in Musica Totale al teatro il Metastasio di Prato. Pino ci ha raccontato che gli hai comprato uno smoking in quell’occasione. In cosa consisteva la sua performance?

Pino Masi era in concerto con me. Gli ho voluto bene e gliene voglio sia con lo smoking che senza lo smoking!