Alfredo Passadore

Romain Gary. La notte sarà calma e l’alba è una promessa

Da qualche tempo l’editore Neri Pozza va stampando in nuove edizioni, quando ormai erano introvabili quelle vecchie di altri editori, le opere di Romain Gary (e dell’eteronimo Emile Ajar)

 “Il realismo per un romanziere, consiste nel non farsi beccare”. Nel senso di non farsi sorprendere con le mani nel sacco…. E a lui, Romain Gary, la cosa pare riuscire benissimo. Siamo nel 1974, un anno per molti versi cruciale delle sue molteplici esistenze, e Gary confida queste parole nel corso di una lunga intervista rilasciata all’amico François Bondy, destinata ad essere pubblicata col titolo “La notte sarà calma”, che esce ora anche in Italia grazie all’editore Neri Pozza, a cui si deve l’iniziativa meritoria di aver stampato e ristampato molte delle sue opere.

Gary ha sessant’anni e la critrica ufficiale lo giudica ormai un autore arrivato al capolinea, inevitabilmente fuori moda visti i suoi trascorsi “gollisti”, che lo rendono quanto mai politically incorrect nella Francia post sessantottotina. L’intervista arriva allora come una sorta di bilancio postumo a futura memoria, una ricapitolazione apparentemente esaustiva di una vita per molti aspetti esemplare, una sorta di fil rouge attraverso le molte facce di monsieur Kacev, in arte Gary, ad uso dei fans superstiti. Ma il 1974 è anche l’anno di esordio di un giovane autore del tutto sconosciuto, l’anno in cui Emile Ajar pubblica “Gros-Câlin” (“Mio caro pitone”), straniante racconto sull’alienazione urbana che spiazza critici e lettori.  Qualcuno indica Ajar tra le migliori promesse della giovane neoletteratura francese e quando esce, l’anno dopo, “La vita danti a sé”,  il premio Goncourt è suo. Gary, insomma, non si è fatto beccare…. non solo ha vinto il Goncourt due volte con nomi diversi, cosa espressamente vietata dallo statuto del Premio, ma pubblicherà altri libri come Ajar e dovrà morire, prima che i saccenti critici che l’avevano dato per finito si accorgano, grazie a uno  scritto postumo, che Gary e quest’ultimo erano in fondo la stessa persona.

 Persona….ma quale persona? Difficile dirlo visto che Gary sembra costruire se stesso con la stessa perizia con cui inventa le trame affascinanti dei suoi molti romanzi. “L’io, un gran comico, di una supponenza incredibile” precisa nelle prime righe dell’intervista a Bondy, ricordando come “gari” in russo significhi brucia, invitando da subito se stesso a dar fuoco a ogni pretesa di narcisismo. Sembrerebbe un auspicio implicito ad un’estrema sincerità, un mettersi volontariamente a nudo destinato a rivelare il volto nascosto. Ma è solo un altro espediente, un modo efficace dello scrittore realista “per non farsi beccare”, appunto.

Romain Gary nasce, ufficialmente, nel 1945 con la pubblicazione di “Educazione europea” giudicato, unanimamente, come il miglior romanzo postbellico sulla Resistenza. Ma Romain Kacev è nato 31 anni prima, in Bielorussia: suo padre resterà per sempre nell’ombra dell’anonimato, anche se lo stesso Romain alimenterà a tratti la leggenda che fosse stato il grande divo russo del muto Ivan Mosjoukine, il Rodolfo Valentino dell’aquila bicipite. La madre, invece, sarà la sua autentica musa ispiratrice : ebrea russa e attrice teatrale di secondo piano, è lei, almeno a leggere le pagine de “La promessa dell’alba”,  a inventare il personaggio Gary, a volere per lui un futuro radioso di francese, letterato e diplomatico. Nell’intervista lo scrittore ripercorre divertito i giorni interminabili trascorsi a Nizza a provare e riprovare l’uso di diversi pseudonimi, fino a trovare quello giusto che l’avrebbe reso famoso, sotto lo sguardo benevolo di una madre che sogna nel figlio la realizzazione definitiva dei tanti personaggi che avrebbe voluto amare sulle scene.

Sono gli anni in cui, in letteratura, va affermandosi definitivamente lo scrittore-personaggio. L’autore esce dalle brume di un’esistenza meschina, totalmente votata alla fatica dello scrivere, e diventa a suo modo protagonista. In America brilla la stella virile di Hemingway, erede, dice acidamente Gary, del machismo predatorio di un Jack London. In Francia splende quella esotica e avventurosa di Malraux, o quella intellettuale e contradditoria di Sartre. Al lettore, più del contenuto, sembra premere la dimensione del personaggio. E Gary costruisce con abilità il suo. E’ stato un protagonista della Resistenza, aviatore in Inghilterra della Francia libera di De Gaulle, un autentico indomabile “eroe francese” come nei sogni più gloriosi della madre. Ma ha scritto un libro, ambientato nella foresta polacca, che non ha nulla di retorico e trasuda dolente umanità. Un racconto per niente “eroico”, ma totalmente votato all’amore per la vita, senza manicheismi di “bianco e nero”, dove vittime e canefici non si confondono, ma neppure appaiono così inevitabilmente distanti gli uni dagli altri. Perché, se il personaggio Gary è costruito, e sapientemente, il richiamo al senso comune di appartenenza è assolutamente autentico, come avrà a testimoniare Tzvetan Todorov, che lo indica, insieme a Vasilji Grossman, tra i rari esempi di veritiera resistenza umana negli anni oscuri del Male trionfrante novecentesco.

A Gary piacciono le maschere, ma non ci si affeziona mai, possiede una carica di ironia troppo corrosiva per diventarne devoto, non a caso dedicherà all’eternamente cangiante Sganarello, il Leporello del Don Giovanni di Mozart, il suo saggio letterario più importante, primo atto di una trilogia incentrata sul rovesciamento di tutti i valori a cui seguiranno “La danse de Gengis Cohn” e “La Tète coupable”, sicuramente due tra i suoi libri più “autentici” e meno compresi. E, da buon picaro, si affretta a demolire il personaggio appena nato: i romanzi successivi all’Educazione sono testi totalmente diversi, di una perversa comicità che spiazza critici e lettori, condannandolo all’insuccesso. In “Tulipe”, scritto immediatamente dopo L’Educazione,  la prospettiva è completamente capovolta, nessuna esaltazione della grandezza dei vincitori, ma se mai un rovesciamento che impone di pregare per loro, affinchè non abbiano a trasformarsi nei continuatori ideali delle perversioni dei vinti. Gary insomma, non ci sta a giocare la parte dell’eroe senza macchia, l’ironia corrode le facili certezze e insinua il dubbio laddove riappare l’eterna tentazione a dividere il mondo in comode fazioni. Invece che ergersi a paladino dei giusti, Gary, come sempre, propende per la parte più debole, qualunque sia lo schieramento in campo.

Se nella vita reale Gary, forte dell’amicizia con il Generale, ha iniziato una brillante carriera diplomatica, nella scrittura resta fedele alla mobile molteplicità delle sue diverse anime. Sarà solo con “Le radici del cielo” che l’identità sembra ricostruirsi, Kacev torna a indossare nuovamente la maschera del Gary di successo e vince il suo primo Goncourt. Ma Morel, il patetico difensore degli elefanti centroafricani, disarmante precursore di una sensibilità ecologica che, nel 1956, è ben di là da venire, resta nonostante tutto un’altra memorabile figura nel panteon di varia e profonda umanità che contraddistingue la sua scrittura migliore. Un perdente che proprio nell’indifendibilità della sua causa riesce ad assurgere alla grandezza “idiota” di un moderno Don Chisciotte. E certe pagine su colonialismo e nazionalismo africano hanno la lucidità di acute analisi politiche, ben più a fuoco di tanti deliri contemporanei prosperati nel clima infuocato della guerra di Algeria.

Nel frattempo Gary continua a vivere il suo romanzo verità nella realtà di tutti i giorni: è diventato aiuto console a Los Angeles e inizia una frequentazione assidua del mondo dello star system hollywoodiano. Memorabili, nell’intervista a Bondy, le pagine dedicate al ricordo di John Ford o i ritratti di Groucho Marx e Marylin. Sposerà in seconde nozze l’attrice Jean Seberg e diventerà, a sua volta, un protagista patinato delle riviste di gossip. Scive a tutto campo, pubblica servizi per Life e Le Monde, lavora per il cinema, sue tra l’altro alcune pagine del colossal “Il giorno più lungo”, e tenterà anche la strada della regia con due film, poco fortunati, che vedono la moglie protagonista, “Gli uccelli vanno a morire in Perù”, eccentrica parabola sulla dicotomia frigidità/ninfomania, e “Kill” realistica pellicola sul mondo della droga.

Per tutti gli anni ’60 e ’70 Romain Gary continua a scrivere con feconda prolificità: alla fine saranno una trentina i romanzi a suo nome. La sua è una scrittura dall’apparenza semplice, dalle trame spesso accattivanti, che diverte i lettori. Mai banale, il suo umanesimo reinventato sembra una delle poche risposte credibili al crollo delle ideologie che già cominicia ad annunciarsi.   Ma nella Francia seguita agli scossoni del Maggio ’68 Gary sembra una maschera precocemente invecchiata. I suoi trascorsi con De Gaulle lo condannano ad uno stereotipo apparentemente reazionario. La critica pare cieca di fronte al fatto che la sua scrittura continua, nonostante tutto, ad essere estremamente innovativa e creativa, e il giudizio sulla sua opera prescinde quasi sempre dai contenuti e si ferma ai limiti di un personaggio definitivamente fuori moda.

Kacev, per altro, non si perde d’animo. Dopo essere stato, di volta in volta prima Fosco Sinibaldi e poi Shatan Bogar, a cui si devono per altro alcuni schizzi illuminanti sui mali della diplomazia, ecco nascere Emile Ajar, un autore totalmente nuovo e diverso, di cui nemmeno il critico più smaliziato sospetta la parentela con Gary.

Ajar scrive con uno stile fresco e innovativo, nato dalla strada e dalle esperienze quotidiane di una Francia che si affaccia curiosa sul nuovo millennio. In “La vita davanti a sé” a parlare è un quattordicenne franco marocchino che vive, in una Parigi già multirazziale e globalizzata, in casa di un’anziana prostituta ebrea che fa da balia ad una nidiata di figli di “colleghe”, Madame Rosa, di cui Simon Signoret darà una tardiva e magistrale interpretazione nel film ricavatone da Moshè Mizrahi, Oscar per miglior film straniero del 1978. Razza, immigrazione, marginalità, esclusione cessano di essere slogan e si fanno carne viva in un racconto che la lingua “adolescenziale” di Ajar sa riempire di un’ironia esplosiva  assolutamente contagiosa.

E di nuovo, nel 1979, con “L’angoscia del re Salomone”, Ajar colpisce nel segno con una storia straniante e ironicamente straziante su un singolare benefattore ebreo, il “re del prêt à porter”,  che finanzia una surreale società di mutuo soccorso umano. L’umanesimo, ancora una volta, è il tratto distintivo che fa capolino al di là di tutte le maschere. Un umanesimo mai retorico, sempre stemperato da una vena di micidiale ironia che allontana i rischi di pedanteria, ma che restituisce un senso di autentico amore per la vita. Per Gary la civiltà è femmina, “non c’è mai stato un valore di civiltà che non fosse un’idea di femminilità” dice a Bondy,  e l’amore di una madre è il primo segno del suo affermarsi, mentre il machismo, il manicheismo muscoloso sono i segni della ributtante perversione dell’uomo, il frutto avvelenato del culto assurdo dell’io dominante. Non a caso alcune delle sue figure femminili resteranno, per sempre, tra le perle più splendenti della letteratura francese del secolo scorso.

E’ l’estremo saluto dell’anima più ironica e divertita di Kacev. L’anno dopo anche Gary si accomiata dal suo pubblico con “Gli Aquiloni”, ultimo romanzo in cui per una volta ancora tornano magistralmente i temi della guerra, del ricordo e della resistenza umana al dominio alienante. Romain Gary si è tolto la vita il 2 dicembre del 1980, annicchilito dalla prospettiva della decadenza fisica e mentale della vecchiaia. E, levandosi l’ultima e definitiva maschera, l’ha fatto con l’immancabile ironia: ha comprato una vestaglia color vinaccia, onde il sangue del colpo di pistola non spiccasse troppo, e ha scritto un biglietto d’addio pregando di non mettere il suo suicidio in relazione con quello dell’ex moglie Jean Seberg,  avvenuto un anno prima. “Fogli di Via”, Novembre 2011