Adélaïde de Clermont-Tonnerre
Romain Gary o il suicidio beffardo
Dopo Il visone bianco (Mondadori, 2011), premio selezione Goncourt, Adélaïde de Clermont-Tonnerre torna al
lettore italiano con questo saggio che - come il suo romanzo, che in Francia ha
venduto 100.000 copie - fonde la biografia di Romain
Gary (1914-1980) con l'autobiografia. Un altro
romanzo di Adélaïde de Clermont-Tonnerre sta intanto
per uscire a Parigi. La trama? “Un amore proibito nella New York degli anni ‘70
dove tutto era permesso”. Così Adélaïde risponde col più bello dei sorrisi. Fogli di via conta di avere l'anno prossimo Adélaïde, col suo nuovo libro, a
Genova, dove è già venuta per lanciare Il visone bianco, vivendo una variante di Vacanze romane, con Sottoripa al posto
di Trinità dei Monti.
Non ho avuto la fortuna di conoscere Romain Gary. Magari da bambina l'avrò incontrato davanti a casa sua, a Parigi, quando le mie conquiste si limitavano all'aiuola di sabbia nello Square des Missions étrangères e le mie preoccupazioni a non farmi pigliare a colpi di paletta e secchiello di plastica. Ogni giorno lui passeggiava in Rue du Bac, tenendo da un lato la malinconia, dall’altro il bassotto tedesco, che allora mi doveva incuriosire più del padrone. Magari avrò notato quel tizio stravagante, col poncho su vistose camicie di seta. Magari mi sarò seduta accanto a lui al caffè L'Escurial, dove mia madre mi portava per un succo d'albicocca. Magari avrò giocato nel giardino dei nonni, quando lui, loro amico, li andava a trovare.
Romain Gary (1914-1980) era morto da un pezzo quando presi a leggerlo: La promessa dell'alba, Cane bianco, Cocco mio, La vita davanti a sé. Con giubilante disperazione, degna dell'Ubu di Jarry, le sue frasi mi portavano - senza che io dovessi scendere dal primo ramo del grande cedro in campagna - su percorsi indimenticabili. Ci sono stati anche L'angoscia del re Salomone, La danza di Gengis Cohn, Chiaro di donna o l'inenarrabile Lady L.... Romain Gary m'ha fatto spesso riflettere, molto ridere e un po' piangere. Soprattutto m'ha aiutato, mentre mi avventuravo nel mio primo romanzo, con qualche pagina meno nota di Vie et mort d'Emile Ajar, testamento letterario dove Romain Gary svela i retroscena del caso Ajar. E contiene anche degli omaggi, di cui uno mi è caro.
Nel luglio 1981 mia zia Laure era nella casa di famiglia, nella campagna di Tours. Ragazza delicata - occhi di un blu profondo, naso perfetto, irresistibile fascino, intriso di romanticismo e cattiveria -, viveva i primi anni del grande amore che, per due decenni, le fece condividere la vita di Sir James Goldsmith. Dai tempi del loro leggendario colpo di fulmine, la giornalista e l'imprenditore si laceravano appassionatamente. In quel periodo lui aveva appena comprato da Jean-Jacques Servan-Schreiber il settimanale “L'Express”. Da biasimare la differenza d'età – vent'anni – o la caparbia indipendenza della giovane Laure? Il miliardario era ossessionato dalla gelosia. Nell'ufficio sugli Champs-Elysées, le cui finestre incorniciavano l'Arco di Trionfo, quel giorno Goldsmith aveva aperto il suo settimanale e l'occhio gli era caduto su una lunga lettera che l'aveva imbestialito. La sua collera omerica fece squillare il telefono a 300 km di distanza, con insistenza e furore tangibili. Questo modo di comunicare, che nella campagna della Touraine veniva ancora detto “moderno” a un secolo dalla sua invenzione, era un'odiosa intrusione del mondo esterno. Perciò gli squilli erano serenamente ignorati. Ci voleva la caparbietà dell'uomo di carattere per farsi rispondere. Colei che alzò il ricevitore fu investita da una furia che – mezzo in francese, mezzo in inglese – esigeva di parlare alla giovane Laure. Che, ignara, lasciò pennello, spazzola, innaffiatoio - gli utensili della vita in campagna, insomma - per affrontare la burrasca verbale. Con una bordata d'ingiurie irripetibili, Jimmy ruggì: - Che cos'hai fatto con Romain Gary? E Laure: “Ma che cosa dici, Jimmy?” - E' su 'L'Express'! Non prendermi in giro! Seguì una sfibrante conversazione, di quelle tra innamorati. Lei diceva: niente, mai, nulla! “L'ho intervistato per 'Paris Match'. E basta”. Incredulo, furente, inconvincibile, lui caricava ancora. Lei si difendeva: “Con Romain non c'è stato niente”. E poi lo scrittore era morto. Come esserne gelosi?
Anni dopo, cominciando a lavorare su Romain Gary, che in parte ispira un personaggio del mio Il visone bianco (Mondadori, 2011), mi sono imbattuta, sullo scaffale di una libreria, in Vie et mort d'Emile Ajar: era la lunga lettera uscita in esclusiva su L’Express nel 1981, quella che aveva provocato tanta inquietudine di mio zio e tanti rimproveri a mia zia. Tornata a casa, scoprii turbata l'omaggio di Romain Gary a Laure: “Un giorno [del gennaio 1977 – NdT] ricevetti Laure Boulay, giovane e bella giornalista di 'Match'. Era per qualche foto e per l'intervista su Chiaro di donna. Dopo, la giovane e apparentemente timida personcina mi mostrò, tra due giri di cucchiaino, che Romain Gary era Emile Ajar. L’analisi del testo fu tanto breve quanto implacabile […]. Io fingevo vanità d'autore, sempre molto convincente: 'Certo. Nessuno ha colto la mia influenza su Ajar. E qui lui m'ha plagiato. Ma Ajar è giovane e io non protesterò' […]. I begli occhi di Laure Boulay mi scrutavano. Non credo che lei mi avesse creduto. Ma, per gentilezza, m’aveva risparmiato”. Romain Gary concludeva: “Spero che alla pubblicazione di queste pagine, lei avrà realizzato il sogno d'essere una grande giornalista. Per tutta la durata l’intervista ne fui innamorato perso”. Quando chiesi a Laure dell'episodio, la sua risposta fu: “Romain aveva sempre detto che, morendo, m'avrebbe lasciato qualcosa”. Non ho mai saputo se Jimmy avesse avuto motivo di rimproverarla.
Oltre all'aneddoto personale, che - avendomi segnato dall'infanzia - è stato uno dei fili del mio attaccamento alla figura di Romain Gary, trovo estremamente commoventi le poche pagine di Vie et mort d'Emile Ajar. Sono del 1980. Lui ha deciso di morire. Non è uno di quelli che invecchiano. Partirà per tempo. Per il momento si distrae ancora col caso Ajar - pseudonimo sotto cui l'osannavano gli stessi critici che lo stroncavano come Romain Gary -, che da qualche anno fa ribollire il calderone letterario parigino. Mentre prepara l'addio, regola i conti con coloro che già vede coprirsi di ridicolo.
Romain ride tra sé, talora sghignazza, spesso s'angoscia, mentre smania di gettare la maschera. Lui, dato per finito, specie dopo la pubblicazione di Biglietto scaduto (1975); lui, sospettato d'impotenza sessuale e letteraria, si è rivelato straordinariamente fecondo. Tra il 1974, quando esce il primo libro di Ajar, e il 1980, anno della scomparsa, sotto quelle due identità ha pubblicato undici romanzi. Un fuoco d'artificio creativo, uno sforzo fino all'esaurimento. Scrivendo Vie et mort d'Emile Ajar, Gary dà modo al figlio Diego di scoprire la più bella delle macchinazioni letterarie. Fin dall'incipit, Gary pensa ai posteri: “Una volta pubblicate, queste parole suoneranno derisorie, infatti - che io lo voglia o no, poiché qui mi rivolgo ai posteri - presumo che essi leggeranno ancora le mie opere, inclusi i quattro romanzi firmati come Emile Ajar”.
L’assillo di Gary è: “Sopravvivrò alla mia morte?”. Dalla più tenera età, Romain oscilla tra la voglia di vivere e il negoziato permanente con la Signora con la falce. Aviatore, compagnon de la Libération, diplomatico, scrittore, ha fatto di tutto per avere varie vite professionali, sentimentali, letterarie. Oltre alle centinaia di personaggi che è stato nei romanzi, nella realtà si è re-inventato altrettante vite parallele. Nato Kacew, si battezza Gary, Shatan Bogat, Fosco Sinibaldi, poi Emile Ajar, culmine delle auto-creazioni. Perché tanti eteronimi? Certo perché è vissuto quando il suo cognome era pericolosissimo. Nella prima metà del XX secolo, chi nasce ebreo rischia di morire. E poi “Kacew” lo frustra, perché racchiude solo una parte esigua di lui e della sua potenzialità. In Promessa dell'alba, Gary gioca con questa idea: “Ti serve uno pseudonimo, dice convinta [la madre]. Un grande scrittore francese non può avere un cognome russo”. Vocato a divenire “un titano della letteratura francese”, il ragazzino cerca allora una particella all'altezza, vertiginosa, dell'ambizione materna. Prova con: “Roland de Chantecler, Romain de Mysore”. Prudente, la madre ravvisa: “Evita il 'de'. Pensa se ci fosse un'altra rivoluzione...”.
Romain Gary vuol sottrarsi alla morte, agli altri, a se stesso. Alla morte, moltiplicando all’infinito gli avatar nell'incessante riproduzione orizzontale di sé: “Tutte le mie vite ufficiali erano raddoppiate, triplicate da molte altre, più segrete, ma il vecchio avventuriero che è in me non ha mai trovato pace in nessuna”. Agli altri, per lo scrittore violentemente incarnati dalle critiche che gli hanno dato “cattiva fama senza rapporti né con la sua opera, né con se stesso”. Alla sua persona, infine: “Ero stanco d'esser solo me”. Camaleontico, inafferrabile, lui soffoca nel suo personaggio. Non ce la fa più a sentire l'immagine che lo limita fino a calcificarlo. Come evadere da tale prigionia? Trasformandosi ancora. Nella lettera d'addio, Romain Gary riconosce: “La verità è che ho sentito profondamente la più antica tentazione proteiforme dell'uomo: la molteplicità”.
Non è un caso che lo scrittore evochi Proteo, il Dio marino che, come un narratore onnisciente, tutto sa di passato, presente e avvenire. L'individuo ansioso di conoscere il destino deve catturare il Dio sorprendendolo durante la siesta. Ma, anche preso, Proteo può ancora assumere ogni forma immaginabile per fuggire. Sottrarsi agli altri, dunque, alle etichette che l'inchiodano, lo crocifiggono, lo bloccano nel folle tentativo di essere tutto e tutti. Ripartire da zero, eternamente, come nuovo personaggio, con nuovo cognome, con nuova donna per una nuova vita. Emile Ajar è il ringiovanire di uno scrittore senescente. Lo sa benissimo. Ogni romanzo è rinascita, ogni avventura fa di lui un uomo nuovo. “Avere una doppia vita” non è innocente. Gary aveva parecchie amanti e scriveva parecchi libri. Il parallelismo sessuale e romanzesco è la sua assicurazione sulla vita.
Altro potente mezzo: l'immaginazione. Romain affabula molto, dalla madre ha ereditato il gusto di abbellire. E’ anche un immenso seduttore, che - per piacere - assume la forma desiderata dalla donna o dall'uomo che vuole sedurre. Adatta il proprio profilo per meglio conquistare l'interlocutore o l'interlocutrice. Menzogna? Io credo che fosse deformazione professionale. A forza di scrivere, di cambiare i tratti di carattere del personaggio, i dettagli del fisico o le conseguenze della trama, nello spirito del romanziere tutto diviene malleabile, anche la sua vita. In Gary la tendenza è tanto più forte, perché lui odia molto la realtà. Ama troppo il mondo per rinunciarvi, non ama abbastanza gli uomini per sopportarli.
Per Romain Gary, dopo Kafka, il romanzo s'è piegato. “Lo stivale del reale ha calpestato [gli scrittori]. I Balzac e i Tolstoi osavano creare mondi romanzeschi sovrani e dominanti, gli adepti del Nouveau Roman sono vassalli ignari di esserlo”. Nemmeno più osano combattere la realtà, vecchia nemica di Gary: “Ogni romanziere rivaleggia, concorre con la vita. Ma la vita non è più capace di 'stile', cioè di premeditazione. E' il solo vantaggio dell'arte sulla vita”. Per lui la realtà è un limite, un freno. Limitare i desideri gli fa orrore. Nella vita si è uno solo, si è in un posto alla volta e il tempo è determinato. Riduzione insopportabile per Gary, poliglotta, tenace viaggiatore nei fatti come nel pensiero, che vuol essere cento persone insieme e, soprattutto, essere immortale.
Il caso Ajar è un tentativo di rimodellare la realtà. Con Emile, Gary va oltre quanto fosse andato prima: s’incarna in un nuovo corpo, quello del cugino Paul Pavlowitch. In Vie et mort d'Emile Ajar s'avverte il folle piacere di manipolare così il mondo, di giocare con persone vere come coi personaggi romanzeschi. Gary giubila perché ha infine ristabilito il rapporto romanziere/realtà. Quest'ultima riceve l'intimazione di obbedire e tutti lo notano. Emerge il legame di famiglia tra Gary e Pavlowitch? Romain sta per essere scoperto? Scrive Pseudo, apogeo della sua opera di sostituzione della realtà. In questa finta confessione, a Paul Pavlowitch, in stato di implosione psicologica, tocca raccontare la sua versione del premio Goncourt rifiutato e dei rapporti con lo zio. Romain ne approfitta per girare come un guanto la “nomea appioppatagli”: “La mia temerarietà fu veramente compensata con l'uscita di Pseudo. M'ero camuffato come mi si dipingeva e i critici m'avevano dunque riconosciuto nel personaggio di 'tonton Macoute', ma a nessuno venne in mente che non Paul Pavlowitch avesse inventato Romain Gary, ma che Romain Gary avesse inventato Paul Pavlowitch”.
Lo scherzo diverte molto meno quando la marionetta Ajar dà segni d'indipendenza. Gary s'è spinto molto avanti. Nel testamento letterario prova a sdoganarsi, ma ha disinvoltamente usato corpo e vita del cugino. Annoso quesito della letteratura... Ha diritto lo scrittore di disporre di ambiente, uomini, storia? La finzione deve servire i fatti o digerirli? Gary aveva scelto più chiaramente, più nettamente degli altri, forse perché, meglio degli altri, conosceva il potere distruttivo della Storia. O perché la realtà prevaleva sulla sua folle creazione? O perché ormai lui aveva dato tutto?
Poco dopo aver scritto queste
ultime pagine, Romain Gary ci ha lasciato. Passando
davanti al suo palazzo, in Rue du Bac,
a Parigi, penso sempre al figlio, Diego, che aveva avuto da Jean Seberg, al coraggio del giovanotto nel sopravvivere ai
suicidi dei genitori a un anno l'uno dall'altro. L'ho incontrato solo una
volta, per il suo libro, S. ou l'espérance de vie, e m'ha detto una frase terribile: “A
lungo non ho voluto figli per conservare il diritto di uccidermi”. So che,
diventando padre, Romain Gary aveva perso i diritti
sulla sua vita. So anche che, con la pallottola sparatasi in bocca, più che se
stesso ha ucciso il reale. La sua opera, le sue vite e anche quella pallottola
ne hanno fatto, più che un uomo, una leggenda. (Traduzione di Maurizio Cabona)
“Fogli
di Via”, novembre 2015