All’inchiesta del francese Philippe Garnier intorno al mistero Goodis il Sallis di Vite difficili, altrove segnalato, attinge per uno dei suoi tre saggetti; quella che qui sotto segue è invece una ricognizione compiuta da Garnier, pubblicata in due parti originariamente nel 1983, sull’ambiente, ad un tempo bizzarro e spietato, dell’editoria e del collezionismo dei  tascabili: da allora, negli stessi USA, indagini e studi sul genere e le sue mitologie sono senza dubbio aumentati, molto meno in Italia dove, ancora e sempre smemorate, voci corrono e dimenticanze impazzano (si provi a cercare, a mo’ d’esempio, un’edizione nostrana del citato “Salomon’s Vineyard” di Latimer) frastornando, sovente, gli stessi addetti ai lavori. 

 

Philippe Garnier

  sogni tascabili e paperback writer

    sogni tascabili

“Ho dovuto sciropparmi un mucchio di libracci.”

(Leo Manson mentre spiega le ruvide esigenze del mestiere d’illustratore di tascabili)

   Ci fu un tempo in cui consumavo un sacco di energie a caccia di vinile in via d’estinzione; scovare il pezzo da collezione sotto tre tonnellate di merde invendibili, pedinare il filone dei saldi dal Texas al Michigan passando per Memphis. Ma tutto questo è finito. Era divertente finché la selvaggina era ancora disponibile- adesso, tutto vi si oppone: la moda delle ristampe, la saturazione del mercato e l’oscenità dei prezzi. Ora passo il tempo libero alla ricerca di tascabili prodotti in America dal 1939 al 1959. È altrettanto stupido, ma si può praticare senza disporre di un budget equivalente a quello della Tanzania. Arriva un momento in cui bisogna lasciarsi dietro le cose da fanciulli, come consiglia la Bibbia. Trascorrere un pomeriggio intero a spulciare tre o quattromila libri usati, fare delle scalate precarie lungo gli scaffali traditori di Don’s Paperback Shack a Modesto (più è alto il soffitto, in certi luoghi, più gli sgabelli sono corti) per scegliere, alla fine, una cinquantina di tesori variamente malridotti, può sembrarvi impresa un poco futile e non proprio da adulto. Questo solo perché non avete dovuto mai estrarre centotrenta Kinks su Reprise e tre Johnny Burnette da un lotto di dischi di polka invenduti scovati da Handleman a Cincinnati, quindicimila album che non hanno visto la luce dal 1949, quindici palate da mille. E nemmeno nei più grossi  “paperbacks emporium” immaginabili vi troverete al cospetto di un capo magazziniere che vi propone, senza ridere, “tutta la parete nord” a dieci cent a pezzo…

È l’ultima moda, qui, collezionare vecchi tascabili; da quattro o cinque anni. La gente vi è arrivata per tutte le cattive ragioni, certamente. Divenuto sclerotizzato e ridicolo il mercato dei pulps e dei comics, i venditori e i malati si sono rivolti al paperback.

Era un percorso inevitabile: la filiazione fra pulps, comics e paperbacks è del tutto evidente. Se oggigiorno le collezioni di libri tascabili non sono che succursali degli editori o delle aziende che li possiedono, non sempre è stato così. Il primo ad aver imposto questo prodotto ritenuto impossibile prima della guerra è Robert De Graff, proveniente da Doubleday; fu lui a creare Pocket Books nel 1939. Ma fu presto seguito dalle rapide della grande diffusione, da uomini che si erano fatti le ossa non nei corridoi degli editori new-yorkesi, ma sgomitando: sia i distributori che avevano fatto fortuna con i pulps, i fan magazines o i comics; sia i proprietari editoriali che stampavano quegli stessi prodotti. Neppure stupisce granché constatare che i “pezzi” più ricercati, eccettuati titoli evidenti come “Hammett Homicides” o “Nightmare Town”, siano le copertine opera di illustratori già richiesti dai collezionisti di pulps. È triste e idiota, ma è così. I bottegai di nuovo infetteranno il mercato, facendo marcire quel piacere innocente provato nel conservare le reliquie di una delle fasi più movimentate e dinamiche dell’edizione americana; di un’epoca in cui la cultura per le masse era ancora epica e divertente.

Ma è ancora possibile (forse non più per molto) trascendere tutte queste stronzate, le solite trappole delle conventions di collezionisti, le guide e i cataloghi che fissano e indicizzano i prezzi della spazzatura ed hanno l’effetto di renderla INVISIBILE. In breve, a dispetto dei mastini che si sforzano di incollare del MINT, o BUONO STATO o RARO sul vostro piacere come fosse del bromuro, resta da raccontare una storia interessante e strana, una storia poco nota, un’epopea durata solo vent’anni e che potrebbe intitolarsi “PAPERBACKS, U.S.A.”, come il libro di Piet Schreuders sul tema. Schreuders è quell’Olandese Volante che pubblica “Furore” ad Amsterdam, una rivista per suonati di ogni genere, una piccola meraviglia di follia erudita e illuminata che consacra interi numeri a McDonald’s (“The Big Mac Story”) o a Cutty Sark (“Tutto e proprio tutto sulla famosa marca di whisky”) o ancora a James M. Cain; tutto questo in olandese, naturalmente (ma, del resto, l’Olanda è anche il paese dove si trova una rivista interamente consacrata all’adorazione del Brooklyn Bridge, il “Brooklyn Bridge Bulletin”…). Più che uno specialista o un erudito, Schreuders è un tipo che scrive e pensa i libri con passione. Il suo libro sui paperbacks americani non è soltanto l’opera definitiva al riguardo, è un libro che ha una vita propria; un libro con un’anima, se volete.

Schreuders saggiamente limita l’indagine alle copertine dei tascabili; parla degli illustratori, dei direttori artistici, dei problemi di confezionamento- tutto quanto è inerente al paperback come oggetto. Così apprendiamo che se le copertine dei libri Dell sono più colorate e si differenziano enormemente dal resto della produzione corrente, è perché i libri non erano fabbricati a New York come gli altri, ma a Racine nel Wisconsin. Prima di pubblicare paperbacks, Dell era una casa editrice specializzata in pulps, in riviste (come “Modern Screen”) e in comic-books (“Looney Tunes”, “Flash Gordon”, “Donald Duck”, ecc…): George Delacorte Jr. faceva stampare i suoi prodotti dalla Western Printing & Lithographing Company, un’azienda che non si limitava solo ai comics e ai libri; stampava pure carte da gioco, carte stradali e puzzles. Tutti questi dettagli possono sembrare oziosi, ma quando si esamini attentamente uno dei primi libri Dell, dal logo a buco di serratura al progetto grafico delle copertine passando poi per le cartine o i diagrammi volti a spiegare o situare l’azione del libro sul retro delle copertine (i “mapbacks”, come famigliarmente li chiamano i professionisti e collezionisti) si comprende meglio perché quella collana non somiglia in nulla alle altre. Quelle piccole meraviglie di precisione un poco ingenue tradiscono le origini di Dell, proprio come le copertine volgari e chiassose dei libri Avon indicavano chiaramente le origini della ditta e del suo proprietario: Avon non fu la prima casa a seguire il cammino tracciato da De Graff e Pocket Books nel 1939, ma fu la prima ad utilizzare lo stesso formato ed il termine “pocket-size book”, abuso che fu costretta a correggere dopo un lungo processo intentato da Pocket che doveva durare fin quasi alla fine del 1942. Come Frigidaire o la collezione fondata da Papà Filipacchi in Francia, Pocket Books era tuttavia  destinato a restare il nome generico che designava il nuovo prodotto di consumo corrente. Il responsabile di Avon, Joseph  Meyers, proveniva beninteso dai pulps. E il suo ingresso nel mercato del libro tascabile era al contempo fortuito ed opportunista: al principio, la maggioranza delle case era distribuita dall’ American News Company, il gigante che a lungo aveva controllato la distribuzione dei pulps e delle riviste negli Stati Uniti (un po’ l’equivalente delle Messaggerie da noi); come già avevano cercato di fare negli anni trenta per i pulps, i tipi dell’A.N.C. avevano finito per cercare di dirigere il mercato dei paperbacks, spingendo gli editori a firmare contratti d’esclusività con loro allo scopo di annientare la marea crescente dei distributori indipendenti. Nel ‘41 Pocket fu la prima ditta a nicchiare, e A.N.C. perse completamente il suo maggior cliente; A.N.C. chiese a Meyers di varare una collezione tascabile, semplicemente per colmare il vuoto lasciato da Pocket. Era nato Avon Books. Secondo un concorrente: “Meyers aveva gusti di merda, non solo in letteratura ma anche in fatto di donne, e pure nell’arredamento…” Ciononostante le copertine Avon sono, con quelle di Popular Library, le più ambite dai collezionisti. E Charles R. Byrne, direttore di collana della Avon, alla fin fine non aveva gusti così marci: Geoffrey Holmes, Chandler, Cain, Burnett, Saroyan, Woolrich, perfino Delmer Daves (un western, naturalmente) oltre al Cardinale Spellman ! A Byrne piacevano i numeri, soprattutto nei titoli: “Five Murderers” e “Five Sinister Characters” di R. Chandler, “The Door With Seven Locks” (E. Wallace), “The Big Four” (A. Christie), “Poison For One” (John Rhode), “Ten Nights Of Love” (titillazione anonima), “Butterfield 8” (John O’Hara), “Seven Slayers” (Paul Cain), o “Seven Footprints To Satan” dell’inenarrabile ed illustre A. A. Merritt. Quest’ultimo fornisce il legame tra i libri Avon e i pulps, di cui era uno dei giganti. Persino i suoi titoli danno l’eco delle cripte malfamate: “Burn, Witch, Burn” o “Creep, Shadow, Creep”…

Non ho lo spazio né la competenza per scrivere un fervorino sugli illustratori o la storia del libro tascabile in America. Non posso che invitarvi a leggere il testo di Schreuders, se possibile l’edizione americana di Blue Dolphin, perché più completa e riveduta. Voglio solo sottolineare la cura estrema con cui l’autore ci presenta e attira verso l’argomento; l’incessante invenzione, anche: a partire dai risguardi tappezzati di marchi (Dell, Bantam, Bart, Penguin, Graphic, Perma Books, Ace, Gold Medal,, Lion, Avon, Jacket, Pyramid e tutto il fottuto firmamento) fino agli studi comparati sui tagli. Come Gaston Maspero, il Conte di Carnarvon o altri celebri egittologi, il nostro Olandese Pazzo ci svela il Segreto nascosto dietro i misteriosi simboli apparsi sui dorsi dei libri Gold Medal tra il 1952 e 56 (quelli di Goodis, Prathers, Thompson, Charles Williams o John D. McDonald, tra gli altri): stelle, X sottolineate, S rovesciate e segni cabalistici ancora più disorientanti, tutte quelle iscrizioni avevano soltanto il compito di facilitare il lavoro dei distributori (i libri erano pubblicati a lotti, otto o dieci al mese; ogni segno indicava un lotto preciso, affinché i distributori o commercianti potessero determinare con approssimazione l’anzianità del prodotto). In un altro accesso di furiosa (e ammirevole) follia, Schreuters ci offre una mappa di Manhattan in pagina doppia, amorevolmente disegnata con immobili e grattacieli in prospettiva – alla maniera, proprio, dei famosi “mapbacks” di Dell. L’omaggio-volo d’uccello è beninteso disseminato di bandierine indicanti l’ubicazione di ogni casa editrice, con il logo appropriato. Questo maniaco arriva fino a indicare gli indirizzi in SUCCESSIONE ! Per esempio, Lion Books aveva gli uffici nell’Empire State Building per i primi due anni, quando il marchio era ancora la testa di leone. In seguito la troviamo in Park Avenue, con il nuovo blasone e la doppia L medievaleggiante che caratterizza la collezione tra il 52 e 54. Non stupisce che questo toccato abbia scelto di chiamare la sua rivista “Furore” !

L’esplosione del libro tascabile, durante la guerra e nell’immediato dopoguerra, negli Stati Uniti è importante perché faceva uscire la letteratura dalle librerie e biblioteche. L’idea non era nuova. C’erano stati dei libri tascabili in Europa fin dagli anni 30 (le austere edizioni Tauchnitz a Lipsia, ad esempio) e prima ancora i “chapbooks” inglesi ed americani. Tra gli antenati del pocket-book, il mio favorito è il Piccolo Libro Azzurro che costituiva quasi tutto il nutrimento intellettuale (con la Bibbia) che i pionieri dell’ovest si mettevano davanti agli occhi – o, più spesso, tra la sella e le chiappe. Quei Little Blue Books si trovavano nelle scatole di caffè Arbuckle in tutto l’ovest degli Stati Uniti; il formato esiguo e quadrato (8 cm x 8 cm) permetteva di metterli nella scatola o di riporli sotto la sella o nelle tasche. Erano di circa cinquanta pagine, giusti per un testo di Shakespeare, i brani scelti di Longfellow o l’estratto da Dickens. Sempre classici, perché di pubblico dominio, visto che Haldeman-Julius, l’editore che pubblicava quei Little Blue Books a Kansas City, non voleva pagare diritti d’autore. Ogni esemplare costava cinque cents e i cow-boys se li scambiavano avidamente come i ragazzini facevano a scuola con le biglie. Contrariamente alla leggenda, non tutti i vaccari erano incolti; il lavoro era talmente noioso e triste da spingerli alla lettura - quando sapevano leggere – e non era raro, secondo i testimoni dell’epoca, sentire uno sdentato cow-poke dell’epoca recitare Swinburne o Milton. Arbuckle Coffee non metteva solo la cicoria nel suo caffè, ma pure un po’ di cultura.

Se l’idea del libro tascabile non era nuova, era pur vero che commercialmente non aveva mai funzionato. Dal momento che la maggior parte degli imprenditori pensava “libro” e “libreria” invece di pensare “massa” ed “espositore”. L’idea di Robert De Graff, fondatore di Pocket Books nel 1939, era semplice ma innovativa: la gente avrebbe comprato i suoi libri se fossero stati sufficientemente a buon mercato oltre che ben prodotti. Bisognava dunque abbassare il prezzo di vendita diminuendo i costi di fabbricazione (carta a buon mercato e grosse tirature – 200.000 in media); senza scordare di far passare i diritti d’autore dal 10 al 4 %… Tutto ciò consentiva di offrire un libro e un “package” attraente per una fesseria, venticinque cents. Altra rivoluzione: questi prodotti non si sarebbero trovati nelle librerie (per molti luogo arcigno o intimidente) ma assieme alle riviste e fanzines nei drugstores, chioschi, stazioni stradali e ferroviarie, aeroporti, ecc…Ci sono stati pure, effimeramente, distributori automatici di paperbacks. I distributori di Pocket Books si chiamavano, misteriosamente, “Dadsons”, ed i “Vendavons” sputavano soltanto libri Avon. Schreuders segnala pure una compagnia di Los Angeles, Bantam (senza relazione con l’altra Bantam) che pubblicava tascabili destinati unicamente ai distributori automatici.

Si può dire che fu la seconda guerra mondiale a fornire la maggior spinta, provocando l’affermazione del libro tascabile negli Stati Uniti; e questo a dispetto del razionamento della carta. Su tutti i fronti esteri i G.I.’s andavano matti  per quei pocket books così pratici. Certi editori non mancarono di renderne conto nelle proprie pubblicità, cercando di far passare la loro impresa commerciale come “sforzo  bellico”. Ian Ballantine, il creatore di Penguin U.S., andò più lontano. Prevedendo  razionamenti sempre più severi, si era subito alleato alla Military Service Publishing Company, dopo una precedente specializzazione in libri d’interesse militare del genere “Warships At Work”, “Russia”, “Aircraft Recognition” o “New Ways Of War”. Penguin produceva libri, l’esercito forniva la carta. Grazie al sotterfugio, Penguin poteva continuare a pubblicare G. Greene, Thoreau, Caldwell o V. Woolf. Le altre società, come Pocket, subito risposero con gran colpi di campagne pubblicitarie e patriottiche: “OUR BOYS NEED BOOKS !”. Sul dorso delle copertine si vedeva spesso un’aquila fiondare sul nemico con una pila di libri tra gli artigli ed una cartiglio nel becco: “I libri sono armi per la battaglia delle idee…”

Nel 1946 il paperback si era definitivamente imposto come oggetto di consumo corrente, e le tre o quattro “grosse” aziende facevano fortuna, seguite da vicino da imprenditori meno “rispettabili”. Ogni società aveva un’immagine propria che spesso ne indicava le origini. Penguin trasudava classe, sia per gli argomenti trattati e gli autori pubblicati, sia con la grafica delle copertine. Queste ultime erano affidate d’altronde a grafici più che ad illustratori, dopo che alcuni artisti si erano già fatti un nome come illustratori “rispettabili”. Gente come George Salter o Hawkins, che troviamo spesso associati alle sovraccoperte delle prime edizioni; o ancora Robert Jonas, che ha davvero imposto uno stile ai libri Penguin. Le sue copertine sono farcite di simboli, piuttosto Bauhaus. Altri, come il venerabile Hoffman, propendevano per un daliesco spinto, con personaggi in fuga per paesaggi molli ed altri bric-à-brac onirici. Ma Hoffman sapeva essere letterale quando voleva: è lui ad aver disegnato una delle mie copertine favorite, quella di “The Dead Don’t Care” di Latimer; vi si vede un bellissimo paesaggio notturno, una vaga silhouette china in avanti, ed in primo piano, appollaiato su una zampa, un airone rosso– o forse una gru. Solo il sottotitolo spiega questa misteriosa presenza: “A Billy Crane Mystery”. Il nome del detective di Latimer significa anche “gru”…  

Nella Popular Library era ospitata una delle collane preferite dagli amatori. Va detto che hanno del fascino, quelle copertine, a partire dai colori vivaci e dall’impaginazione, fino al “colophon” Mystery of Proven Merit (con la P di Popular sagomata a testa di Dick Tracy, con revolver). I fondatori di Popular non erano altri che Ned Pines e il dinamico Leo Margulies (“the little giant of pulps”) i quali avevano già costruito un impero sul mercato dei pulp (il gruppo Thrilling) e delle riviste negli anni ‘20 e ‘30. Per loro, pubblicare Latimer, John D. Carr o W. Irish non era molto diverso dal diffondere “Silver Screen”, “Your Daily Horoscope”, “Real”, “See” o “Screenland”. Bizzarramente, date le origini di Ned Pines, le copertine dei libri editi da Popular durante i primi quattro anni non furono affidate agli illustratori che tinteggiavano regolarmente le copertine di “Thrilling Mysteries” o “Thrilling Detective” con grandi spruzzi di emoglobina (i grandi specialisti di moncherini e mutilazioni assortite, come Monroe Eisenber o Alex Schomburg). Eppure le selezioni offerte da Margolies vi si prestavano bene: nel 1944, era ancora intento a pubblicare opere di autori noti per scrivere al metro come Rufus King, Max Brand o Frank Gruber – tutti sputaparole ed autentica manna per Thrilling. Solo nel 1949 si vedono le copertine Popular mutare radicalmente, virando al “pulposo”, per così dire: in quell’epoca il mercato dei pulps è pressoché sparito e le vedettes devono riciclarsi. È il tandem Rudolph Belarski – Earle Bergey che per alcuni anni fornirà il maggior numero di copertine Popular Library. Si tratta di due tra gli artisti più ricercati dai collezionisti. Era sangue nuovo (se così posso dire) per l’edizione tascabile, ed il loro stile parecchio crudo e osé fu rapidamente imitato. Ogni collezionista vi parlerà con emozione della famosa “nipple cover” che Bergey ha creato per “La Vita Privata d’Elena di Troia” – non tanto perché ben fatta, ma perché delle tette su un tascabile erano decisamente “no-no” nel ‘49 – mentre erano moneta corrente negli anni ‘30 per i pulps.

Come regola generale, più il contenuto era anodino, più la copertina era piccante. Fino al 1952 e alla grande commissione d’inchiesta dei guastafeste del Gathings Committee che cercava di mettere fine all’immoralità diffusa delle illustrazioni di libri, periodici, manifesti cinematografici ecc., era considerato del tutto normale mostrare donne in disordine. Rara era la copertina sprovvista di reggicalze: le intenzioni d’altronde erano più maliziose che maialesche, secondo lo spirito di un’epoca (proprio come è raro vedere Claudette Colbert, Jean Harlow o Carole Lombard in un film anni ‘30 senza vedere biancheria). Le copertine “peek-a-boo” erano perciò la regola, che aderissero o no all’argomento; i pretesti o i fuori contesto non mancavano mai: per esempio, l’edizione Pocket di “Of Missing Persons” di Goodis mostra una donna nell’atto di lanciarsi da una finestra, gonna al vento, con tutto l’intimo in evidenza. Ma gli anni ‘50 erano nettamente più pudibondi, e gli editori subivano sempre più pressioni per darsi una calmata, in zona solletica-eccita. Oggi può sembrare sorprendente che l’edizione tascabile degli “Amboy Dukes” d’Irving Shulman abbia causato tante controversie: vi si vede solo una specie di Elvis Presley piegato sul corpo e il viso rovesciato di una bella bruna polposa e mezzo nuda (ma soltanto mezzo). Sullo sfondo c’è il ponte di Brooklin; la copertina è magnifica, solo moderatamente spinta. Tuttavia venne ritirata dal commercio, sostituita da una copertina stilizzata che rappresentava una sorta di pachuco alla Willy DeVille. Ma il romanzo di Shulman era già stato venduto in due milioni e mezzo di esemplari prima del cambio di copertina ! Era il primo di un nuovo genere di romanzi che in seguito il tascabile sfrutterà  a fondo: la miniera d’oro della delinquenza giovanile.

Ugualmente, nel 1953, Robert Stanley dovette rifare la sua copertina per “Fools Die On Friday” (“a Donald Lam and Bertha Cool Mystery”), riallacciare il reggiseno e nascondere i panties. Ironicamente, era sua moglie a doversi rivestire: Stanley era uno dei tanti illustratori che economizzavano sulle modelle; fotografava la sua donna, e talvolta se stesso nello specchio. Il suo famoso ritratto di Mike Shayne con la sigaretta è un autoritratto. Schreuders riporta storielle spassose circa le piccole manie e pratiche di questi artisti commerciali, quelli che dipingevano ad acqua, al bianco d’uovo, all’acrilico o all’olio. Quelli che si recavano dal direttore artistico con degli originali formato francobollo, altri con delle tele gigantesche. Quelli che per risparmiare sulle modelle le utilizzavano tre o quattro volte nella stessa illustrazione. James Avati, una delle grandi stars di Signet, usava sempre l’identico vecchietto, un non professionista scovato in un villaggio. Era il suo “vecchio” standard che gli serviva per tutte le illustrazioni. Compariva quattro volte sulla copertina di “Trouble In July” di Caldwell. Avati gli faceva togliere la dentiera prima di farlo posare. Altri erano condannati a rifare sempre lo stesso giochetto se per caso una delle loro trovate avesse coinciso con una vendita eccezionale. È quel che capitò a Robert Jonas con la copertina per “Il Piccolo Campo” che mostrava  una fattoria vista attraverso un buco di palizzata. A causa del grande successo del primo romanzo di Caldwell in tascabile, la direzione di Penguin decretò subito che i buchi facevano vendere e che tutte le copertine di Caldwell dovevano ormai essere viste attraverso un  buco; buco di serratura, buco artificiale, finestra, ed anche buco di pallottola (per un western intitolato “Rawhide”).Come si vede, i tipi dell’edizione tascabile erano tanto feticisti del successo e adepti della formula quanto i loro equivalenti di Hollywood. Paul Kresse, per parte sua, sembra essere stato condannato al rictus perpetuo; un genere di rictus mortis, se si vuole. Paragonate la copertina per “Addio Mia Amata” degli anni ‘50 con quella di “It’s A Crime” di Richard Ellington. È lo stesso giovanotto che le busca, ed è la stessa smorfia. Soltanto l’oggetto contundente varia secondo i libri e gli intrighi: molla del saccone o calcio di Smith & Wesson. Per “The Little Sister” è un punteruolo, naturalmente.

Le preferenze per questa o quella collana variano naturalmente secondo il gusto dell’amatore. I collezionisti preferiscono in genere Avon o Popular, per lo stile pulposo delle loro copertine (in aggiunta, il loro lato maldestro ed ingenuo). Si riconosce subito il divoratore (o la divoratrice) di “whodunits” dalla predilezione verso i libri Dell. Le attraenti copertine di Gerald Gregg e la sua rara tecnica dell’air-brush (aerografo) vi svolgono un loro ruolo. E poi Dell pubblicava molti Agatha Christie, Mignon G. Eberhardt, Ellery Queen ed altri campioni del delitto al chiuso; e si potevano sempre rintracciare gli andirivieni del vicario o del maggiordomo grazie agli utili diagrammi dei “mapbacks” sulle copertine. Spariranno nel 1951, con gran sollievo dei direttori di vendite e responsabili di pubblicità che avevano sempre detestato quell’idea; i diagrammi erano fastidiosi da preparare e disegnare, oltre a togliere spazio all’eventuale pubblicità. E poi bisognava leggere il fottuto libro per sapere cosa disegnare ! Era sempre un problema, soprattutto per i romanzi un  po’ meno terra terra ed “evoluti”. Non c’erano vicari o maggiordomi nei romanzi e racconti di D. Hammett; allora ci si contentava di una cartina dettagliata della “Sam Spade’s San Francisco”. Per “Long Haul” di Bezzerides (“They Drive By Night”) era una mappa della California che tracciava le “lunghe tirate” dei camionisti, da L.A. a Stockton, fino ad Eureka.

In “Paperbacks, U.S.A.” Schreuders sembra privilegiare Pocket, Bantam, Penguin e Signet – il che è del tutto normale, visto che lui stesso è grafico. Il suo privilegiare Signet e soprattutto le copertine di Avati si spiegano molto meno, se non perché quelle copertine “neo-realistiche” molto caricate profumano d’epoca: Hell’s Kitchen, i romanzi “impegnati” di James T. Farrell, i romanzi di guerra, il Fronte d’Italia, il vicolo della delinquenza. Le donne non ridono mai e somigliano tutte a Lee Remick in “Wild River”. Gli uomini sono sempre tetri. Siamo parecchio lontano dalle libere copertine del decennio precedente. Anche quando la posa è osé, la scena trasuda angoscia o disperazione esistenziale – come la celebre copertina di Avati per il “Kiss Tomorrow Good-bye” di Horace McCoy.

L’Età dell’Oro del paperback è passata già da molto tempo. Dopo il 1959, le collane si sono banalizzate o sono del tutto scomparse.  Non c’è più spazio per l’errore, l’anomalia o la fantasia – e nemmeno per l’avventura. Il libro tascabile si è “normalizzato”, e la gran tristezza di tutto ciò si può facilmente verificare girando tra gli scaffali di Brentano’s o di qualsiasi altro libraio. Osservate le copertine. Come per le caramelle o i fogli patinati si gioca ad acchiappa-retina. Bisogna che colpisca, che brilli. Attualmente è di gran moda la copertina “multipla” (otto o dieci diversi colori) e l’ultimo grido è il cartoncino argentato e soprattutto in rilievo. La copertina che strilla in braille. Vedendo questo, ci si dice che forse non è così idiota intestardirsi su libriccini tanto vetusti e fragili che la maggioranza dei collezionisti nemmeno li legge per paura di ritrovarsi con un mucchietto di polvere. Io stesso che vi parlo, ho affinato l’arte di leggere questi maledetti affari senza aprirli veramente. Tutto uno sport, ne convengo; delle autentiche pelli di zigrino ! E tutto mi è noto: dalle colle che si polverizzano ai cartoncini che si sfaldano fino alla carta che va in merda; o la disperazione di scoprire – dopo l’iniziale euforia – che Little Johnnie o Betsy-Lou hanno scarabocchiato nel libro della mamma, un magnifico esemplare di “No Pockets In A Shroud” miracolosamente trovato nel garage di un vicino. E conoscete la vertigine che vi assale nello scoprire che malgrado le sei diverse edizioni di “Serenade” già possedute ve ne manca ancora una ? La più bella, evidentemente (quella di Jonas per Penguin nel ‘47).

Ma quel periodo non è stato fecondo soltanto di piccoli riquadri colorati: durante venti anni in America si è praticata un‘arte poco vantata, poco o mal studiata (salvo forse che in Francia, non sempre per buone ragioni) – quella del romanzo pubblicato solo in paperback, o talora scritto proprio in funzione del paperback. Vedremo in seguito come lavoravano i “paperback writers”, i David Goodis, Jim Thompson, Charles Williams e Day Keen vari – quelli che scrivevano talvolta senza badare al contagiri.

paperback writer

“ If you really like it you can have the rights

 It could make a million for you overnight

If you must return it you can send it here

But I need a break and I want to be

 A paperback writer

Paperback wri-ter”

(Lennon-McCartney)

       C’è spesso la tendenza a considerare i paperbacks come oggetti da collezione, oggetti culturali o motivi di distrazione. Evidentemente, v’è tutto questo allo stesso tempo, ma anche dell’altro. Certo, non è del tutto superfluo studiare un po’ più da vicino le diverse e successive copertine dei più popolari romanzi. Si può fare, all’occorrenza, un rapido “Chandler attraverso gli anni”. Ciò che subito colpisce, è senza dubbio la poca influenza del cinema sull’iconografia, persino dopo il successo degli adattamenti a partire dal 1945. Né Bogart né Dick Powell sembrano aver colpito gli illustratori, per la buona ragione che in maggioranza questi hanno avuto il giudizio d’evitare di mostrare Marlowe sulle copertine (così come Chandler stesso si mostrava reticente nella descrizione del personaggio). Le prime sono le copertine più belle, quasi tutte disegnate da Hoffman, cui si devono pure alcune superbe copertine per i romanzi di Hammett, tra cui l’ineguagliabile “Red Harvest”. La sua copertina più celebre per Chandler è certamente quella di “Addio mia Amata” pensata nel ‘43 per Pocket. Vi si vede un Moose Malloy stagliato come il gabinetto del Dottor Caligari, in una Central Avenue similmente stilizzata, ambientato al Florian. Hoffman ha messo curiosamente un’insegna di barbiere rossa e bianca in primo piano, il che dà un bizzarro lato veneziano all’insieme; quasi quasi ci si aspetta di veder spuntare una gondola…La serie edita da Pocket dieci anni dopo è altrettanto colorata, meno stilizzata è molto più violenta. Ci ritroviamo a chiederci cosa mai pensasse Chandler di tutti quei calci di pistola e quelle molle a elica. Dopo, venne il tetro realismo di Tom Dunn; non molto eccitante, ma sempre più o meno fedele a Chandler e alle trame dei romanzi (c’è proprio una molla da letto in un capitolo di “Addio mia Amata” anche se, francamente, non resta molto in mente).

Là dove si comincia a sghignazzare è verso metà anni ‘60. Gli illustratori hanno smesso di firmare i lavori, e vedendo l’insieme delle copertine dell’epoca un poco li capiamo. La possibilità di firmare una copertina era per molti disegnatori proprio quel che faceva loro tollerare gli alea di un mestiere poco remunerativo, ma preferibile agli incarichi pubblicitari finanziariamente molto più vantaggiosi. La copertina di “Addio mia Amata” terza maniera è una vera chicca: su sfondo rosso, una donna in rosso (parecchio scollata) elimina a bruciapelo un tipo elegante che ha tutta l’aria d’essere il buon vecchio James Bond; in ogni caso, somiglia al Bond delle copertine del periodo, così come lo stile grafico (disegno al tratto, stile volutamente schizzato, tutto quel che caratterizza “Playboy” agli inizi). Anche il grosso calibro è di rigore: è almeno una Colt Government .45 quella che la signora stringe al termine dell’elegante polso. Si fa fatica ad immaginarla in una borsa. E dal modo in cui la tiene, ad altezza di bacino e gomito sciolto, pure Lee Marvin e John Milius si slogherebbero il polso…

Nel 1968 l’ignominia è completa e Pyramid è il suo profeta. La loro copertina per “Playback” potrebbe andar bene anche per un romanzo di S.A.S. Il tizio ha macchie di sangue dappertutto sulla camicia e la donna (coperta con l’air-brush) è nefandamente sproporzionata. Per fortuna Raymond era già morto e non ha dovuto vedere una simile cafoneria. Personalmente, la mia serie Chandler preferita, e la sola che abbia cercato di completare con qualche tenacia, è quella che Ballantine ha pubblicato agli inizi degli anni 70. Questa edizione uniforme – ed uniformemente disegnata da un certo Tom Adams – è di molto superiore agli orrori neo-pulposi usciti in seguito. Sulle sue copertine Adams mostra una Los Angeles senza età, ma tuttavia ne nota gli aspetti più gotici. Sembra aver tutto compreso di Chandler: l’importanza dell’acqua, della pioggia, la tristezza indicibile delle palme, i fiori carnivori e le carni in decomposizione; il lato organico e vegetale della corruzione.. I fiori velenosi, grassi e pericolosi sono la costante delle nove copertine (per la “Signora del Lago” è un viso di donna in sfacelo ad evocare un nenufar). Le illustrazioni di Adams (di cui non so praticamente nulla, malgrado i miei sforzi) sono totalmente arbitrarie, sospese, misteriose, esemplari. È la Los Angeles di Chandler che egli mostra come tela di fondo (Mid-Wilshire, MacArthur Park e Santa Monica) ma è una Los Angeles meno polverosa di quella visibile oggi, una Los Angeles innaffiata, colma di corruzione, carica di escrescenze malsane. La sola copertina atipica è quella di “The Long Goodbye” ed è la più strana: gli alberi di Joshua sullo sfondo evocano la Valle o, suppongo, il Messico. L’enorme testa di serpente a sonagli sta per il tradimento, o la corruzione, o entrambi. Ma la cosa migliore è che il gaucho “da marciapiede” somiglia troppo a Elliott Gould. Ora, la copertina è stata disegnata almeno due anni prima dell’uscita del film di Robert Altman (epoca in cui Ballantine si è d’altronde affrettato a sostituirla con una posa del film che ritrae proprio Gould e il suo gatto). Quanto alla copertina per “Trouble Is My Business” mi basterà dire che evoca immancabilmente “Blade Runner”, con i suoi pesci rossi (sintetici ?) e quel taglio di capelli alla Deckard.

Ma la grande epoca del libro tascabile americano presenta un interesse molto più grande delle sole estetiche o piccole sociologie pop. Tra il 1948 e gli anni ‘60 si è praticato un genere letterario nato dalle costrizioni e necessità dell’edizione tascabile – un genere molto mal documentato e studiato negli Stati Uniti, ma che tuttavia illumina parecchio quell’ectoplasma conosciuto in Francia sotto il nome di polar. O polard. Contrariamente a ciò che si potrebbe credere, polar(d) forse non è solo un derivato di “poliziesco”. Nel qual caso, la serie risulterebbe mal designata. Ma “polard” vuol dire anche “sesso”, “daga” (arma un po’ datata) – almeno in Céline e nell’argot parigino (come in “ha tirato fuori il suo polard e si è messo a darci dentro” – in “Morte a credito”). E, francamente, pur se il Dizionario Robert non è d’accordo sull’ortografia, è un’etimologia che pare convenire meglio al genere. Non c’è quasi mai un detective o un poliziotto in Goodis o Thompson o Charles Williams; ma c’è sempre del sesso.

Se per l’esteta o lo storico le case editrici più affascinanti sono sicuramente Penguin, Bantam, Pocket o anche Ballantine, sono le altre collane ad interessare di più il vero amatore di letteratura popolare o di anomalie letterarie: quelle che giustamente sono considerate dagli specialisti al fondo della graduatoria. Non è un caso se cinque di questi editori appaiono sul mercato nello stesso anno: Gold Medal (Fawcett), Pyramid, Graphic, Checkerbooks e Lion Books sono tutte fondate nel 1949, epoca in cui la scommessa  del libro tascabile sembra definitivamente vinta. Tutti i “grandi” fanno fortuna, ragione sufficiente perché un buon numero di anziani professionisti della stampa specializzata o della distribuzione voglia dedicarvisi e tosare lo stesso vello, pur se in apparenza l’impresa ha molto del racket delle macchinette mangiasoldi. Quei filibustieri in buona parte avevano già l’infrastruttura; disponevano già di un distributore o erano già essi stessi distributori. I fratelli Fawcett, Wilford e Roscoe, facevano girare Fawcett Publications fin dagli anni 20. Nel 1942, gli affari andavano così forte che dovettero acquistare un intero immobile di ventuno piani a Manhattan per sistemarvi il personale della redazione (questa parola si può usare nel caso delle edizioni Fawcett) necessario ai quasi sessanta tra periodici e fanzines pubblicati dalla ditta: “True Confession”, “True”, “True Police Cases” (Jim Thompson ha lavorato per questo tipo di riviste, prima di scrivere libri tascabili) e dei comics come “Slam Bang”, “Wow Comics” o “Holyday Comics”.

Per parte sua, il fondatore e proprietario di Lion Books altri non era che Martin Goodman, l’intrepido editore che si era già fatto un nome verso la fine degli anni ‘30 sul mercato dei pulps con la sua Manvis Publications: nel 1937 la famosa (infamous) collezione Red Circles contava quattordici titoli, tra cui “Mystery Tales”, “Uncanny Tales” o “Real Mystery”. Il logo era una pallottola scarlatta ed i titoli sbaragliavano la concorrenza dal momento che le copertine e le storie Red Circles erano le più sanguinose e sensazionali  nella storia dei pulps; cose come “Satan Is My Lover” o “Pawn Of Hideous Desire”… Goodman era cugino di Stan Lee e più tardi avrebbe fatto fortuna con la sua Magazine Management che distribuiva i Marvel Comics, oltre a riviste erotiche come “Stag” o “Men Only”.

Lion Books, che in seguito avrebbe pubblicato tre titoli originali di Goodis (più una ristampa) e numerosi originali di Jim Thompson, Day Keene e David Karp assortiti, aveva d’altronde debuttato sotto bandiera Red Circle – ed effettivamente c’erano pochissime differenze tra cose come “Leg Artist”, “Body Or Soul”, “Hot Date” o “Passion In The Dust” e le vaccate pulp di papà Goodman. Soltanto il formato era mutato mentre le illustrazioni di copertina mantenevano ancora un forte sapore di marciapiede, e le sottotitolazioni erano ancor più adescatrici e bugiarde: fino a risultare quasi avvincenti. Quello di “Passion In The Dust” (un western) proclamava :”GRILLETTI FACILI – E DONNE SENZA LEGGE !” I primi sette volumi Lion compaiono in realtà sotto il marchio Red Circle, così come i numeri 12 e 13. Il volume 8, il primo a fregiarsi della testa di Leone, rappresenta una reale volontà di cambiamento: è “Hungry Men”, il primo romanzo di Edward Anderson (“Thieves Like Us”) uno spietato ritratto della vita degli hobo durante la Depressione. Anderson non è esattamente un autore licenzioso, e c’era un buon salto tra il suo romanzo e “Leg Artist” – anche se la copertina mostrava una ragazza a petto scoperto. Il fatto è che nel frattempo Goodman aveva ingaggiato Arnold Hano per dirigere la sua collezione. Hano aveva lavorato per Ian Ballantine alla Bantam, dove si era occupato soprattutto di western; poi Ballantine lo aveva promosso al rango di general editor. Hano aveva gettato un occhio spaventato (o disgustato) sulle licenziose copertine Red Circle ed aveva accettato l’offerta di Goodman soltanto a condizione di poter cambiare tutto alla Lion. Goodman, che non se ne capiva granché di letteratura, nemmeno popolare, aveva ceduto. Certo, lo stile a petto scoperto e le pollastrelle delle copertine fu più difficili farli sparire. C’erano anche le costrizioni rappresentate da un budget limitato. E poi Goodman aveva comprato romanzi in anticipo, e Hano dovette inserirli nelle infornate del primo anno, il che spiega forse la presenza di “The Indiscreet Confessions Of A Nice Girl”, “Soft Shoulders” o “The French Touch” in mezzo a rispettabili  western o romanzi seri come  “He Ran All The Way” (il romanzo di Sam Ross che diede il via al famoso film con John Garfield).

Hano oggi vive in California. Ha una bellissima casa sul fianco di un canyon sopra Laguna Beach ed insegna all’università. Oltre ad essere stato capo collezione ed editor, lui stesso è stato “paperback writer”. È autore di circa sessanta libri scritti con diversi pseudonimi. Dice spesso scherzando che un giorno scriverà le sue memorie e che il titolo sarà “The Hack” (il cottimista) e chiama spesso la moglie per chiederle “sotto che nome ho scritto il romanzo su Gauguin, quella volta ?” (“The Flesh Painter”, a nome Ad Gordon). Ma i suoi libri sul baseball godono di buona considerazione, al punto che uno di essi è stato recentemente ristampato. Sua moglie precisa che utilizzava tutti quegli pseudonimi non solo per modestia o falso pudore: “La sua prima moglie dopo il divorzio sorvegliava da vicino la sua carriera…”Arnold Hano adora parlare di sé e degli autori che pubblicava; se la sua memoria talvolta fa qualche confusione, basta mostrargli una copertina o citare un titolo perché gli tornino a mente gli aneddoti giusti.

“Si arrivava dopo gli altri, e non c’erano molti soldi a disposizione. Bisognava arrangiarsi con quel che c’era. Lion aveva una serie di romanzi di guerra; soprattutto perché sembrava non interessassero nessuno. Potevamo permetterceli perché nessuno faceva aste al rialzo. Avevo desiderato ripubblicare “Niente di Nuovo Sul Fronte Occidentale” alla Bantam, ma avevano rifiutato; allora l’ho fatto alla Lion. Nel ‘49, pubblicare un romanzo pacifista era come farsi trattare da sporco comunista. Certamente, Martin Goodman anche stavolta è riuscito ad infilare una donna sulla copertina, persino in un romanzo che si svolge quasi tutto nelle trincee. C’è un soldato tedesco ucciso, faccia nel fango, sul retro; noi, era questa che volevamo mettere davanti. Era una battaglia continua. Si cercava di far qualcosa di buono, pubblicare buoni romanzi, puntare su generi trascurati da altri ma pur sempre interessanti. Chiaro che bisognava far compromessi. Per esempio le copertine erano davvero mediocri.

Stranamente gli unici problemi di censura che avevo non erano d’ordine grafico. Goodman, che spingeva per il sensazionale sulle copertine, aveva una fifa matta di parolacce ed argomenti tabu come incesto e simili. Tuttavia una volta ho fatto passare uno “shit” senza dirglielo; dovevo farlo, per principio ! Mi ricordo, volevo far riuscire quel romanzo nei tascabili, un giochino a base di sesso, una storia d’incesto un pochino  alla D.H.Lawrence. Si chiamava ”Thunder Without Rain” ed era scritto da quel tipo, oh, aveva uno splendido nome, tipo “zietta” inglese…CLIFTON CUTHBERT ! Proprio lui, Clifton Cuthbert…Dal momento che dentro c’era un incesto, bisognò avvertire Goodman. Gli ho detto che se lo pubblicavamo, ne potevamo vendere un milione come niente. Ha detto di no. Ho attraversato la strada e sono andato da Pyramid a dire la stessa cosa. Hanno risposto sì, hanno stampato il libro con un altro titolo, “La Vergogna di Mary Quinn”, e ne hanno venduto un milione. Ma mi hanno spedito un assegno per il disturbo. Subito ho pubblicato altri due romanzi di quel Clifton Cuthbert, ma non è andata allo stesso modo. Niente incesto, penso sia per questo…”

Può parere stupefacente che Hano abbia potuto attraversare tanto allegramente la strada ed aiutare la concorrenza, ma quelli del giro sostengono tutti che all’epoca gli editori non erano così compartimentati, né la concorrenza così feroce come al giorno d’oggi. Non era raro che un direttore artistico allertasse uno o più colleghi quando scopriva un illustratore particolarmente dotato o a buon mercato o rapido, o le tre cose insieme – pratica oggi impensabile. Questa relativa flessibilità s’applicava pure a livello redazionale: quando Jim Thompson ha pubblicato ”Signor Zero” con Dell, il direttore di collana ha semplicemente chiesto a Hano di preparare il manoscritto e di occuparsi di Thompson – solo perché lui e Thompson andavano d’accordo e Hano sapeva come trattarlo. Thompson è, naturalmente, il più celebre “autore della casa” alla Lion ed uno di quelli che scrivevano romanzi specificatamente per la collezione, senza cercare di farli pubblicare “rilegati”, in edizione cartonata presso un editore “rispettabile”. Hano spiega come erano arrivati a pubblicare degli “originali”. Lion d’altra parte non era la prima casa editrice a farlo: Gold Medal  ne pubblicava fin dal 1950, e credo che sia stato Day Keene, il prodigiosamente prolifico Day Keene, ad aver scritto il primo “original” nel 1948 con Avon (“This Is Murder, Mr. Herbert” – ed, effettivamente, era lui).

“Pubblicavamo otto titoli al mese, e a volte facevamo fatica; dato che non potevamo pagare più di 1500 dollari a libro (una volta siamo arrivati a 2000 dollari, ma solo una volta) la scelta era tutto sommato limitata. Allora si rimediava alla penuria in vari modi. Stampavamo antologie di racconti – di cui vado molto fiero. E cose tipo “Baseball Stars Of 1950”- una per anno, naturalmente. Era Bruce Jacobs a scriverle. Scriveva come scriveva, ma comunque poteva andare. In seguito è diventato generale. Si, per incredibile che possa sembrare, ora è generale di riserva nell’esercito ! E poi, sicuro, abbiamo cominciato a ordinare qualcosa direttamente a diversi autori. Credo che il nostro primo titolo originale fosse di Prathers, "Lie Down, Killer”. Mi rivedo ancora a tagliare; hai voglia a tagliare, era sempre troppo lungo…”

In effetti, il primo originale della Lion deve essere stato “The Lustful Ape” di Russel Gray, che non è altri che Bruno Fisher. Gli altri “regolari” alla Lion erano Davod Karp, Day Keene e Walter Untermeyer Jr. (“Lui era ricco, di buona famiglia, e scriveva quando gli girava; gli altri, erano malridotti”). Benché abbia pubblicato tre “originali” di David Goodis, Hano non lo ha mai incontrato, neanche una volta: “Lo Scassinatore” è l’unico romanzo che abbiano ricevuto così, “già bello e pronto”. Soprattutto un manoscritto netto e senza sbavature “The Burglar”; l’abbiamo pubblicato tale e quale. Goodis non era neanche ricorso ad un agente, aveva solo imbucato il lavoro. Ci stupiva, tanto più che senza dubbio eravamo uno degli editori che pagavano meno un originale: si pagava un anticipo di $ 1500, e naturalmente le solite royalties. Gold Medal dava di più, per esempio; tiravano in quantità superiori, e soprattutto pagavano in base alla tiratura, non alla vendita. Se tiravano in 250000 copie, pagavano $ 2500 come anticipo, che gli esemplari si vendessero o no. Lo stesso per le tirature successive. In breve, “Lo Scassinatore” mi era così piaciuto che aspettavo il seguente con impazienza.  Si immagini la mia faccia mentre ricevevo “The Blonde On The Street Corner”!   Era tutto fuorché un romanzo. Solo frammenti di conversazioni in un caffè e all’angolo di una strada; senza trama o azione, senza intrigo. Comunque l’ho pubblicato, ma è piaciuto a pochi. “Venerdì Nero” era migliore. Subito abbiamo ristampato “Nightfall” con un diverso titolo, “The Dark Chase”…Non chiedetemi perché…Senza dubbio qualcuno aveva notato che “Dark” faceva vendere…”

Tutti i romanzi dovevano contare centosessanta pagine all’incirca; mai più di duecento, in ogni caso. Gli autori lo sapevano. Ho chiesto a Hano se questo potesse spiegare il brutto modo di finire dei romanzi di Thompson, ad esempio. “No, gli piacevano così. Era un lavoraccio fargli cambiare la minima cosa. Thompson era un uomo incapace di riscrivere – e questo, credo, perché lui non sapeva bene quel che faceva, dunque era inadatto a correggere. Era un tipo originale, un istintivo. Mi piaceva molto, e perciò lo abbiamo fatto tanto lavorare. Non si facevano molti soldi con i suoi romanzi, non ha mai avuto un grosso successo; ma nemmeno ci perdevamo. Fu l’agente Ingrid Hallen a proporcelo, nel 1952 mi pare. Ritornava allora da un lungo soggiorno in ospedale per disintossicazione; aveva lavorato per “Police Gazette” e simili. Aveva pubblicato vari romanzi con Harper, ma era da un bel po’ che non pubblicava niente. Come facevamo con David Karp de altri, gli abbiamo dato una sinossi. La prima credo fosse “The Killer Inside Me”. So che sua moglie ha smentito questo, ma è la verità. Era Jim Bryans a scriverle, solo una o due pagine, a volte anche meno. Jim era editor alla Lion, lavorava con me. Certo, gli si davano solo indicazioni; gli abbiamo detto di scriverci una storia su un poliziotto di New York che si metteva a violentare ed ammazzare. Ne ha fatto lo sceriffo di Central City, e sicuramente era cento volte meglio. Si è fatto così per due o tre romanzi (“Cropper’s cabin”, “Recoil”) ed in seguito, visto come lavorava, l’abbiamo lasciato tranquillo. Gli lasciavamo fare quel che voleva. Un giorno, si è messo in testa di scrivere un romanzo senza utilizzare più di cinquecento parole diverse. Ne ha usate un po’ di più per “Savage Night”, ma non molto – e credo sia quel che su tutti preferisco. “Bad Boy” e “Roughneck” costituivano l’autobiografia che non era mai riuscito a piazzare da nessun editore. Scriveva molto velocemente. Un anno, per noi ne ha fatti otto”.  

È interessante notare che “Roughneck” era presentato come un romanzo normale, non un’autobiografia. La copertina mostrava una scena agreste e spiantata alla Caldwell; vediamo un tipo con un recipiente d’acquavite illegale ed una bionda in jeans e capelli corti. Illustrazione che evidentemente non ha niente a che vedere con il contenuto di “Roughneck”, non più del sottotitolo abusivo: “He brawled his way through ten years of booze and bawds”. Il retro mostrava una ragazza da burlesque in guanti neri, in una bottiglia ! DAMES AND DAMNATION ! HUNGER AND HELL ! Ma è lo stesso Thompson a raccontarsi  una pagina dopo l’altra, Thompson e la moglie Alberta con i tre figli, Sharon, Mike e Pat. Bisogna seguirlo mentre descrive i suoi pargoli, con lo stesso affetto riservato dal contadino ad un esercito di termiti: “quei tre mocciosi, Pat Mike e Sharon… Una sola occhiata è bastata loro per decidere che eravamo nulla più di una coppia d’imbecilli felici, non malaccio, ed hanno continuato a crescere senza prestarci la minima attenzione. (…) A tavola, appollaiata su pile di libri, ci davano dentro con i loro coltelli affilati come rasoi – ognuno aveva una lama favorita. E mentre io e Alberta guardavamo, spaventati, un prosciutto intero o un arrosto di nove libbre sparivano come per magia. Fumavano le mie sigarette. S’impadronivano della mia birra…”

A parte queste omelie domestiche, Thompson racconta in dettaglio tutti i lavori fatti prima di guadagnarsi onestamente la pagnotta come scrittore. Quelle esperienze si ritrovano evidentemente nei numerosi romanzi. C’è stata tutta una serie di occupazioni infami quando cercava di pagarsi gli studi a Lincoln, nel Nebraska. Ha scavato come manovale, lavorato in una panetteria industriale (esperienza di cui si ricorderà poi in “Savage Night”) è stato contabile poi esattore o recuperato crediti, ed anche rappresentante (“A Hell Of A Woman” – “Diavoli di Donne”). E, naturalmente, è stato “roughneck” nei campi petroliferi del Texas occidentale (“South Of Heaven”, “Wild Town”). È stato pure fattorino in un giornale e direttore del Writers Project per l’Oklahoma (anche se il volume dedicato a questo stato non lo nomina – lui spiega perché in “Roughneck”). È sempre una delle grandi forze dei romanzi di Thompson (come di quelli di Cain, in grado minore) l’insegnarvi le tecniche o le pratiche di lavori tanto arcani: distributore di film nella provincia profonda (“Nothing More Than Murder”, un romanzo che dovrebbe tentare un Wim Wenders – “Nulla Più Di Un Omicidio”, in italiano) acquirente d’oro itinerante e porta a porta (“The Golden Gizmo”, l’unico romanzo ambientato interamente a L.A.) imbonitore all’ingresso dei burlesques o trivellatore di pozzi – cose che s’imparano in Thompson. Nel ‘52, quando si presentò da Hano a New York, tutto ciò era alle spalle.

Può stupire che scrittori come Goodis o Thompson si siano messi a scrivere in esclusiva per edizioni tascabili. Dopo tutto, Thompson aveva avuto molti libri editi da nomi rispettabili, e Goodis aveva ottenuto un grande successo con “Dark Passage” (“La fuga”); aveva guadagnato parecchio. Hano suggerisce che è solo questione di soldi. “Tutti questi tipi, almeno i migliori, avrebbero potuto farsi pubblicare senza problemi da Doubleday o Simon & Shuster. Goodis avrebbe potuto pubblicare in “Front Page Mystery” o “Inner Sanctum Mystery” o in serie poliziesche simili. Ogni editore aveva la sua collana; Lippincott aveva Main Line Mysteries, Dodd, Mead & Co aveva Red Badge, ecc… Ma loro pagavano soltanto 500 dollari d’anticipo. Naturalmente, davano le percentuali  del 10 %, ma se eri malmesso o se non avevi molte speranze di successo, venivi da noi. 1500 dollari subito alla consegna del manoscritto. Anche di più da Gold Medal o Dell. Questi tipi immaginavano che scrivendo parecchio si sarebbero assicurati delle buone entrate – e così era per alcuni. L’unico inconveniente è che quei libretti tascabili passavano inosservati. I critici ne stavano lontani, e così gli universitari. Quando Anthony Boucher, il critico del “New York Times” fece l’elogio di Thompson, per noi fu un trionfo, eravamo un po’ più che fieri. Ma era l’eccezione”.

È per questo motivo che certi autori di “polar” venerati in Francia sono sconosciuti negli Stati Uniti, o perlomeno ciò spiega perché spesso su di loro si sappia poco dal punto di vista biografico. Charles Williams era del Texas, è stato a lungo operatore-radio sulle navi e viveva a San Francisco alla fine dei suoi giorni. Ma chi ne sa molto di più sull’autore di “Non è peccato (The Diamond Bikini)” ? Lo stesso di Goodis. Nessuno si era curato di far ricerche. Pochi articoli su di lui da vivo o dopo la morte; poche interviste. E almeno, nel caso di Goodis, ci sono state delle interviste.  Ma di persone senza alcun legame con Hollywood, come Day Keene, William Francis, David Karp ed altri, nessuno si occupa negli States, dove tutta l’infrastruttura letteraria è manovrata dalla cricca newyorkese. Questi autori, semplicemente non esistevano per la critica – e poco per Hollywood (a parte ogni tanto un nome che compare nei titoli di testa: “tratto da una storia di …”)- anche se questi stessi autori sono letti da milioni di persone. Solo che queste persone è molto probabile che abitino a Kallispell o Albuquerque o Chattanooga; e che comprino i libri dal libraio all’angolo, o che li scambino da Bob’s Book Nook o al Paperback Exchange o Doris’ Book Shack. In effetti, esagero un poco: questi lettori probabilmente oggi sono scomparsi; i libri da stazione ed i paperbacks Lion o Gold Medal interessavano perlopiù un pubblico che adesso guarda la televisione, una volta risolti tutti i problemi d’offerta e ricezione. Tra la televisione e la diffusione pressoché generale e quasi legale del porno negli States, non c’è spazio per prodotti come “Child of Rage” o “Cassidy’s Girl”. So che alcuni di quegli autori “facevano arte” all’insaputa di tutti, ma ignorare le condizioni in cui lavoravano, il mercato cui miravano e i vincoli di produzione sarebbe altrettanto stupido quanto ignorare quegli autori col pretesto che scrivevano per signore sole e camionisti dell’entroterra.

È altrettanto certo che quegli autori forse beneficiavano (come i loro equivalenti del cinema di serie B) di una libertà di cui non godevano gli altri.  Ci si chiede per esempio se Thompson avrebbe potuto permettersi tante fantasie stilistiche o accostare temi così oltraggiosi se fosse stato pubblicato da Knopf o Doubleday o un altro editore “ortodosso”. Penso particolarmente alla fine di “A Hell Of A Woman”, in cui Thompson presenta due finali diversi per la storia, ma in maniera simultanea (il personaggio è schizo); in uno è castrato a colpi di cesoia, nell’altro si butta dalla finestra. Al termine di “Diavoli Di Donne” [in francese reso con “Des Cliques et des Cloaques”] i responsabili della Série Noire hanno adottato un compromesso e presentato i due finali, uno di seguito all’altro. Thompson, però, senza dubbio radicale quanto i suoi eroi, voleva presentare le due soluzioni frammischiate. E Hano si è adeguato: tutto l’ultimo paragrafo è schizoide e si può leggere una riga, poi una riga in corsivo senza nulla a che vedere con la prima, poi la continuazione della prima riga, e così di seguito. Si può trovare questa fantasia fuori luogo o ridicola o mal eseguita. Resta il fatto che se Thompson o Hano avevano voglia di sperimentare, nessuno li ostacolava. Ed i lettori non si lamentavano; difatti, non ci capivano un acca.

Hano ancora ricorda ridendo quella volta in cui ha dovuto annunciare a Stanley Ellin che non gli piaceva il titolo del romanzo rilevato dal suo editore originario e che lo avrebbe cambiato. “Il suo lavoro si chiamava ‘Dreadful Summit’, un titolo proprio terribile, non si capiva se era un romanzo sullo sci o sugli sport invernali o la scalata…Quando gli ho detto che lo avremmo titolato ‘The Big Night’, ha fatto un salto: era proprio il titolo da lui voluto fin dal principio ! Ma i suoi editori non avevano voluto…”

Se talora gli autori trovavano direttori di collana che li capivano e li sostenevano, non sempre andava così. Talvolta, l’unica libertà reperibile nei libri tascabili era quella che si prendevano gli editors con il testo originale. Si sa per esempio che la versione americana di “Un Lenzuolo Non Ha Tasche”, pubblicata da Signet nel 1948 è stata alquanto scorciata (dallo stesso McCoy) e trasformata, soprattutto nelle prime cinquanta pagine. La versione Gallimard del 1946 è la traduzione dell’edizione inglese (la prima) apparsa nel 1937 (ne esisterebbe pure una traduzione francese precedente datata ‘38 e intitolata “Un Suaire N’a Pas de Poches” !). Nell’edizione Signet (la sola esistente negli States) Myra non è più una comunista ma una sporcacciona: “Myra lavora per Mosca, ha fatto la galera in Texas per aver distribuito volantini” diventa nell’edizione Signet: “She’s a goddamn sex maniac”; ed in Texas è stata dentro per “corruzione di minore”. Ugualmente, la versione Signet di “Kiss Tomorrow Good-bye (Non Ci Sarà Domani)” conta 35000 parole in meno di quella conosciuta. Ma in questo caso preciso (come in altri simili per Cain) l’autore era d’accordo con i castratori: “No Pockets In A Shroud” è dedicato a Victor Weybright e Don Demarest, che all’epoca altri non erano che i direttori di collana alla Signet.

In tutt’altro registro, Popular Library ha pesantemente purgato il testo di un romanzo di Jonathan Latimer apparso in Inghilterra nel 1941, ”Solomon’s Vineyard”, allorché fu pubblicato nel 1950 col titolo più accattivante di “The Fifth Grave”. La versione originaria è stata da poco restaurata e pubblicata in edizione limitata da Maurice Neville, un collezionista ed editore occasionale di Santa Barbara (ha curato anche lo script di Robert Towne per “Chinatown”). È divertente notare che nel 1950 l’America si mostrava più pudibonda e timorata della fiera Albione del 1941; bisogna dire che nel 1941 la fiera Albione non era fiera ed aveva altre gatte da pelare che non quelle di Latimer e del suo detective Karl Craven. Il che non impediva d’altronde a Popular di presentare la sua versione “bromuro” con una copertina particolarmente calda di Belarski: pigiama strappati, seni all’aria e così via. Eppure: ”Dal  modo in cui le sue natiche si muovevano sotto la seta nera del vestito, sapevo che a letto sarebbe stata memorabile” diventa “Da quel che indovinavo sotto il vestito di seta nera sapevo in anticipo che sarebbe stata un problema”. E via di seguito. Non sarebbe molto se  “Salomon’s Vineyard” non fosse proprio il miglior romanzo di Latimer (parecchio superiore alla sua serie di Bill Crane Mysteries) e forse anche uno dei migliori romanzi “duri da cuocere” d’ogni tempo (a momenti quasi pari al suo maestro Hammett); è pure uno degli esempi più riusciti di un grande artigiano del genere che si fa beffe del genere stesso e di quel che è diventato – pur rimanendo palpitante, bizzarro, pieno di nerbo e di lubricità liberatrice (anche con una gran sorsata di razzismo, bisogna dire).

L’America e soprattutto l’Accademia non si sono ancora decise a studiare questi autori o questa fase tanto particolare della letteratura popolare degli ultimi trenta anni, pure se non dovrebbe mancar molto. I rari tentativi già esistenti (come il recente “Hardboiled America” di Geoffrey O’Brien) si smarriscono sempre nelle impasses plastiche e nei pantani retrò, non sapendo mai scegliere tra la scarpetta di raso e il vero studio ancora da fare, quello sul modo in cui erano realmente scritti quei polar così diseguali, tanto affascinanti, così diversi e mal noti. Sapere come nascevano quei prodotti, e per qual pubblico, non ridurrà tutto ad un’equazione, lungi da questo; ma questo eviterà almeno di dire troppe sciocchezze. Il meglio, in tutto ciò, è che invece di rintuzzare i sogni e la gioia, questo fa venir voglia di leggerne ancora di più. Perché essere un “paperback writer” all’epoca era anche un’avventura. Se Jim Thompson avesse scritto un seguito di “Roughneck”, forse ne avremmo saputo di ancora più belle…

(“Hollywood”,  febbraio 1983)