Giuseppe Zuccarino

sulle tracce di Sarastro

Partendo dall’idea di proporre una documentazione relativa al proprio lavoro artistico, Giuliano Galletta ha dato vita ad una nuova opera. Almanacco di un altro anno (Genova, Pirella, 2004) non è infatti un catalogo né un libro, nell’accezione comune dei due termini, bensì un prodotto assai più inconsueto, paragonabile ad un album fotografico personale arricchito da glosse e allegati di vario genere. Una plausibile definizione dei materiali che lo compongono ci viene offerta dall’alter ego dell’autore, Leo Sarastro, il quale parla di «rottami, abbandonati dai flutti sulla spiaggia dell’immaginario, parole, icone, descrizioni, prefazioni, note, supplementi, appunti, citazioni».

Chi sia press’a poco coetaneo di Galletta soggiacerà senz’altro alla tentazione di vedere in queste pagine un ricco e fedele campionario di segni – iconici e verbali – da assumere nella prospettiva del «come eravamo». E in effetti non c’è dettaglio delle fotografie presenti nell’Almanacco, specie di quelle più lontane nel tempo, che non si presti ad essere chiosato in riferimento ai modi di pensare, di leggere, di vestirsi, di atteggiarsi o di sognare che, pur con varianti individuali, sono stati propri di un’intera categoria di giovani, in un momento e in luogo determinati. Tuttavia questo côté quasi sociologico costituisce solo uno dei motivi di interesse dell’album. È in causa innanzitutto il lavoro di un artista, sviluppatosi secondo una traiettoria piuttosto particolare. Com’è stato notato da uno dei critici che l’hanno seguita con attenzione, Carlo Romano, Galletta ha «lavorato sulla “possibilità” come poetica […] diradando sempre più l’attività, cosicché pigrizia e negligenza si sono consustanziate ai lavori più nuovi, tanto da accentuare la naturale inconcludenza degli altri».

Nelle opere, performance o installazioni documentate visivamente nell’album, esistono delle tematiche o dei procedimenti di cui è agevole rilevare la costanza. Consideriamo ad esempio la frequente presenza dell’immagine dell’autore, che non va certo intesa come un’esibizione di tipo narcisistico: da un lato, infatti, essa consente di costruire un personaggio immaginario (che solo casualmente ha i tratti di un individuo reale) e dall’altro di esercitare su questo stesso personaggio, specie in quanto rivesta il ruolo di artista, una sistematica negazione ironica. Se, già per il fatto di essere fotografata, la persona tende a trasformarsi in spettro (lo ricorda Roland Barthes in un passo trascritto da Galletta), nell’Almanacco tale operazione derealizzante ha il suo culmine nell’immagine di copertina, costituita dal ritaglio di una lastra radiografica: ritratto dell’artista come scheletro, dunque.

Poiché si è parlato di ironia, sarà bene precisare che quella praticata nelle opere gallettiane non si limita mai a ribaltare o a cambiare di segno ciò che a prima vista viene sostenuto: l’affermazione (esplicita o implicita) permane, pur essendo idealmente messa fra virgolette. Ciò vale per i segnali di carattere politico, frequenti soprattutto nelle opere più antiche: elementi chiaramente connotati, che vanno dall’impiego di drappi rossi ai richiami ad autori, eventi o personaggi legati alla tradizione rivoluzionaria, non vengono ingenuamente fatti propri da Galletta, ma solo «citati», con un’affettuosa evocazione a distanza. E qualcosa di simile si può dire per un altro tema ricorrente di questi lavori, ossia la centralità assegnata agli oggetti di uso comune, assunti sia quali anonimi emblemi della merce sia per le valenze private o inconsce di cui potrebbero eventualmente essere dotati. Così la vernice colorata che spesso li riveste svolge la funzione di isolarli dal contesto originario, e magari di drammatizzarli, smaterializzarli o sacralizzarli: avremo allora, ad esempio, un tavolo e un coltello tinti di rosso, una pistola-giocattolo ricoperta d’azzurro o degli occhiali interamente dorati. Tutto ciò dà luogo a un teatrino allusivo, composto di elementi per la cui decifrazione non è obbligatorio far ricorso ad esegesi colte: anzi, la coscienza della dimensione ironica del discorso («un’ironia tendente al macabro», precisa Sarastro) resta la chiave di lettura più semplice, e nel contempo meno ingannevole, per comprendere il senso dell’intera operazione.

A chi gli chiedesse che cosa ha voluto comunicarci ricostruendo davanti a noi un percorso artistico in apparenza interrotto (l’ultima installazione fotografata risale al 1993), Galletta potrebbe rispondere alla maniera di Gadda, che in un testo intitolato Come lavoro esordiva dicendo: «Come non lavoro. Che dà egual frutto, a momenti, nella vicenda oscillante d’uno spirito fugitivo e aleatorio, chiamato dall’improbabile altrettanto e forse più che dal probabile». Volendo, di tutto ciò che l’album non esibisce sarà sempre possibile cercare degli indizi altrove, se è vero che «anche le cose non fatte lasciano tracce». A Sarastro, cui si deve questo apoftegma, e che ci ha fatto da guida nella lettura dell’Almanacco (cosa che gli si addice, visto che il suo nome è quello di un esperto di iniziazioni, il sacerdote isiaco che compare nel libretto del Flauto magico di Schikaneder e Mozart), converrà lasciare l’ultima parola. Spetta a lui, infatti, il merito di aver chiarito perfettamente quale sia la situazione in cui l’artista genovese si trova adesso, anzi da sempre: «Egli cammina su un filo sospeso e da qualsiasi parte cada il suo destino è segnato. Di raggiungere un’altra sponda non se ne parla nemmeno. Troppo lontana. Da questo punto di vista il tempo svolge un ruolo importante. Ma Galletta non sembra preoccuparsene. Attende il passo falso con l’agitata tranquillità del pendolare. Osserva i volti dei suoi compagni di viaggio [i nostri volti, dunque] e si commuove dal divertimento».