Giuliano Galletta
Mario Perniola
Nel suo
nuovo libro “Miracoli e traumi della comunicazione” (Einaudi) Mario Perniola,
che oggi interverrà al Festival della Filosofia di Modena, dedicato al tema
della comunità, compie una disanima degli ultimi quarant’anni di Storia
attraverso l’analisi di quattro fasi: il maggio 1968, la rivoluzione iraniana
del 1979, la caduta del Muro nel 1989 e l’attentato alle Torri Gemelle nel
2001. Secondo il filosofo tali fatti vengono vissuti nell’immaginario
collettivo come apparizioni, miracoli o traumi, inaccessibili però a una
spiegazione razionale e a una narrazione coerente.
Perniola, gli eventi restano quindi
inspiegabili?
«Dalla fine della seconda guerra mondiale all’ottobre del 2008, le
cinque grandi potenze hanno esercitato un’egemonia quasi assoluta. Quest’ordine
comincia a incrinarsi con il crollo dell’economia mondiale. Il discorso
politico moderno, che aveva mantenuto una sua credibilità fino agli anni
Sessanta, è sostituito dalla infantilizzazione e futilizzazione delle
popolazioni: la cultura è stata messa alla periferia dell’esperienza umana.
Essa è diventata prossima agli spettacoli, ai giochi o addirittura agli sport e
l’intero Occidente è entrato nella fase della puerilità. All’interno di questi
quarant’anni ci sono quattro momenti diversi che leggo attraverso le nozioni di
contestazione, anni Sessanta-Settanta, di deregolamentazione, anni Ottanta,
provocazione, anni Novanta, e valutazione tendenziosa ed iniqua dal 2001 in
poi. In altre parole il mio discorso non è affatto enigmatico o astratto: se
gli eventi appaiono inspiegabili è perché le categorie politiche e sociali
moderne non sono più adeguate a spiegarli. Esse rappresentano una cortina
fumogena dietro la quale si nascondono realtà molto diverse».
Al Festival della Filosofia lei parlerà
di autismo, ovvero lo stato opposto a quello della comunità.
«Diceva Luigi Pareyson che se ognuno seguisse il suo vero interesse,
andremmo tutti d’accordo. La parola interesse ha un campo semantico-concettuale
estremamente vasto e non limitato al denaro: vuol dire essere in mezzo, essere
vicino. La condizione umana può essere appunto definita come la capacità di
interesse, di essere-tra. Purtroppo siamo
travolti da passioni insensate che ci impediscono di vedere i punti di
comunanza con gli altri. La nozione di comunità si porta dietro un retaggio
pesante: fin dall’Ottocento indica una collettività intesa come un organismo
vivente che implica una profonda convivenza sentimentale, intima ed esclusiva.
Mi sembra una nozione legata a esperienze di vita molto lontane dalle attuali.
Perciò preferisco mettere l’accento su ciò che ostacola la comprensione tra gli
individui, e non dar niente per scontato. La psicoanalisi classica ha
sottolineato la presenza in ogni essere umano di impulsi distruttivi
costituzionali, come l’invidia e la gelosia, che minano alla radice la
possibilità dell’essere insieme. Nel corso degli ultimi decenni l’attenzione
degli studiosi si è concentrata su patologie sempre più diffuse che rendono
ancora più difficile il costituirsi di profonde intese e solidarietà. Queste
sono le tre A che minano in profondità la struttura psichica degli individui:
addiction, dipendenza, anedonia, incapacità di provare piacere, e autismo:
questi fenomeni chiudono la psiche in una cripta impenetrabile, dando luogo a
esistenze murate in se stesse, inaccessibili ad ogni partecipazione».
Internet però sta sviluppando in modo
esponenziale i social network come Facebook e Twitter. C’è desiderio di
comunità?
«La rete è qualcosa di profondamente diverso dalla comunità; tenga
presente che il novanta per cento dei blog non trovano nessun commento. In gran
parte non si tratta veramente di scritture, vale a dire di composizioni dotate
di senso, ma di sfoghi, libere espressioni spontanee, incapaci di suscitare
l’attenzione e l’interesse di qualcuno. Tutti vogliono parlare, ma non c’è più
nessuno ad ascoltare. La tecnologia della comunicazione, nei suoi ultimi
sviluppi, produce un risultato esattamente opposto a quello che propone: non la
libera partecipazione di tutti ad un mondo comune, ma l’incapacità di
interazione sociale e di rapporti di reciprocità, l’indifferenza emotiva agli
stimoli esterni o la reazione scomposta ed iper eccitata, la paura del
cambiamento, l’ecolalia, vale a dire la ripetizione stereotipata di ciò che è
ascoltato».
Le cosiddette comunità virtuali creano
quindi individui incapaci di rapporti faccia a faccia?
«In un rapporto interpersonale diretto passano un’infinità di messaggi,
i più importanti dei quali sono inconsci: esiste un’interazione strategica
fatta di gesti, di espressioni, di esclamazioni, di azioni che viene
completamente estromessa dal rapporto virtuale. Inoltre penso che Internet sia anche
connesso con l’imbarbarimento dello stile del discorso politico, perché implica
una confusione tra il pubblico e il privato e induce ad esprimersi in modo
disinibito e pieno di risentimento. Il modello argomentativo sul quale si basa
la cultura politica tradizionale viene sommerso dall’insulto, dal sarcasmo e
dall’irrisione: Internet diventa il luogo di opinioni imbarazzanti e di cattivi
sentimenti che, anche quando risultano condivisi da altri utenti, non
sottraggono il singolo alla patologia dell’autismo e dell’autoreferenzialità.
Infatti, ci si rifiuta di prendere in considerazione coloro che pensano
diversamente e si linkano solo i siti che sono percepiti come affini».
“il Secolo XIX”, 18 settembre
2009