Giuliano Galletta
essere
giovani significa farsi un giro (nei
caruggi)
Il genius loci di Genova abita Sottoripa. Chi voglia ingraziarselo
(operazione consigliabile per chiunque, turista o residente d’altri paraggi,
desideri affrontare i segreti dei caruggi) deve recarsi sotto i portici della
Ripa Maris. Possibilmente in una limpida
mattina di tramontana (ma va bene anche un grigio pomeriggio di maccaia) ed
entrare in una delle due friggitorie
sopravvissute. Lì acquistare un baccalà fritto e sacrificarlo - mangiandolo - allo spirito del luogo. Chi ha
problemi di fegato è autorizzato a dare soltanto un morsetto. Sbrigato il rito
propiziatorio si può provare svelare l’enigma del centro storico di Genova che,
in un certo senso, è l’enigma di Genova.
Città divisa che spesso guarda se stessa come un’estranea e forse per questo
piace tanto ai poeti. Per cominciare basta spostarsi di pochi metri da
Sottoripa, attraversando la piazza Caricamento e passando sotto la
Sopraelevata, per fare un salto di civiltà dalla kasbah mediterranea, al
non-luogo del porto antico progettato da Renzo Piano. Qui la storia urbanistica
della città ha compiuto all’inizio degli anni Novanta la sua seconda svolta. La
prima si era realizzata, qualche anno prima, quando un lungimirante
intellettuale come Edoardo Benvenuto, allora preside della facoltà di
Architettura, aveva deciso di far progettare (a Ignazio Gardella) la nuova sede
della facoltà sulla collina di Sarzano (vale una visita), dando il via al
risanamento dei vicoli e alla new wave della movida notturna nei roggi, come li
chiamano i ragazzi. È da Sarzano che aveva cominciato a naufragare la logica
degli sventramenti che negli anni Sessanta-Settanta aveva prodotto la nascita
della cosiddetta city dalla distruzione del quartiere di Portoria (quello di
Balilla) prima e di via Madre di Dio dopo. Proprio in piazza Caricamento i tre
segni forti (come direbbero gli architetti) si contrappongono: la medievale
Sottoripa, la Sopraelevata (il Moderno) e la zona ludico-spettacolare
(acquario, città dei bambini, porticciolo turistico, museo del mare), il
Postmoderno. Questo a grandi linee, per farsi un’idea della situazione, con un
unico colpo d’occhio. Ma le considerazioni urbanistiche, storiche e financo
politico-sociali forse potranno bastare al turista intellettuale, ma non certo
a un vero viaggiatore e di sicuro non bastano a chi scrive, se vuole accettare
il cortese invito a dire qualcosa sui caruggi. Il dubbio è naturalmente che chi
è antropologicamente organico ai vicoli, chi si è formato su quegli scalini di
ardesia, ancora prima di imparare a leggere e scrivere (tutto si determina
prima dei cinque anni, diceva il vecchio Freud), sia il meno adatto a prendere
la parola, per un eccesso di vicinanza. Comunque, visto che siamo qui, se concordiamo sulla definizione di
viaggiatore urbano (flaneur?) come colui che è capace di perdersi, allora un
punto di partenza vale l’altro, diremmo di più: un ricordo (d’infanzia) vale
l’altro.
Ad esempio davanti alla cattedrale di San Lorenzo (dove siete
arrivati partendo da quella piazza Caricamento citata all’inizio e solo dopo,
mi raccomando, aver mangiato il baccalà) ci sono due leoni di marmo. Quando ero
bambino mi piaceva starci seduto sopra (come Kim sull’affusto di cannone) e da
lì controllare la situazione, ma la cosa più piacevole era sentire il
freschetto del marmo sulle gambe nude. Oggi quel marmo è quasi del tutto
consumato, probabilmente a causa dell’inquinamento, (la strada è stata
pedonalizzata solo da pochi anni) ed è venuto fuori il ruvido della pietra. In
quella cattedrale (a destra entrando notare la miracolosa bomba inesplosa)
subii lo schiaffetto rituale del principe della Chiesa Giuseppe Siri (come
generazioni di cresimati genovesi). Non era però San Lorenzo la mia chiesa
d’elezione, ma la più defilata San Giorgio, nell’omonima piazza dove fronteggia
la chiesa di San Torpete e che potrete raggiungere scendendo in vico Chiabrera
e girando in via Giustinani. È San Giorgio (un santo, prima importantissimo,
poi messo in discussione) la chiesa a
cui sono rimasto più affezionato, anche perché è proprio lì che sono diventato
ateo. Prima però ho fatto la mia bella trafila da chierichetto. Ricordo le
processioni serali di maggio (tepori e crepuscoli indescrivibili) che facevano
tappa davanti alle antiche edicole mariane, ma soprattutto l’appuntamento con
la benedizione delle case che permetteva a noi bambini di scoprire mondi meravigliosi.
Di particolare interesse erano le case delle prostitute, tutte molto devote e
generose nelle offerte. Tra loro cera una matrona felliniana, alta e mora, che passeggiava sempre accompagnata da un
bellissimo pastore tedesco e che temevo riconoscesse nel chierichetto uno dei
monelli che la importunavano per strada ironizzando sul suo spiccato accento
siciliano, ma forse l’abbigliamento o più probabilmente la bontà d’animo della
signora mi hanno sempre salvato da una brutta figura. All’epoca (parliamo dei
primi anni Sessanta) la diatriba nord-sud era molto vivace. Una volta il mio
migliore amico – avrà avuto dodici anni, era nato in Sardegna e lavorava come
garzone da un macellaio di vico Sauli - minacciò con un coltello per disossare
il suo principale che aveva avuto qualcosa da ridire sulla sua statura e le sue
origini, ma alla sacrosanta ribellione non erano estranee motivazioni sociali,
per me alquanto educative. Bei tempi.
Non voglio farla troppo lunga - il mio è solo un esempio di
percorso turistico anomalo, di deriva psicogeografica fatta in casa - tornando
in via Giustiniani cè però un altro appuntamento gastronomico,quasi importante
come quello del baccalà, la farinata da Sàpesta. Personalmente la consumavo
dopo la scuola, dentro un panino (ma non so se si usa più), e i soldi per la
merenda erano stati eroicamente guadagnati (snobbando burri e marmellate
materne) vendendo il cartone recuperato nei negozi. Vi risparmio i famigerati
anni Settanta, con le bettole e tutto il resto, con le stupende femministe che
vivevano in appartamentini fatiscenti, ma altamente erotici, che oggi
probabilmente costano diecimila euro al metro quadro. Mi fermo qui e temo di
non aver rispettato l’impegno a dire qualcosa (di serio) sui caruggi, ma vi
consiglio comunque di farci un giretto. Se non altro per rimanere giovani.
“Leggendaria”,
n° 61, marzo 2007