La seguente conversazione è tratta dal volume
di Giuliano Galletta (testi) e Gianni Ansaldi (foto) Volti&risvolti (Sagep,
2009), una collezione di interviste a svariati personaggi (da Hans Magnus Enzensberger
a Gillo Dorfles, da Libereso Guglielmi a Serge Latouche, da Edoardo Sanguineti
a Iain Chambers, da Antonio Gibelli a Scott Turow, da Giuseppe Conte a Mario
Dondero…) pubblicate inizialmente su “il Secolo XIX”, salvo alcune
conversazioni inedite, come quella che riproduciamo.
Giuliano
Galletta
con Carlo
Romano
Carlo Romano è
una singolare figura di intellettuale eclettico e marginale, un “petite maitre
obscure” che ha fatto del disadattamento un’estetica in cui convergono Huysman
e la scapigliatura, il radicalismo e l’avanspettacolo, Fluxus e il Conte
Mascetti, l’underground e il dandismo,
il libertarismo americano e il Marchese de Sade, il blues e il
trallalero, le droghe e i bignè. Una struggente idea della Liguria su tutto il
resto. Penso di poter affermare che ha fatto dei libri la sua passione
assoluta, con evidenti sconfinamenti in una vera e propria perversione cartacea
(e oggi non solo cartacea). La libreria Il Sileno di Galleria Mazzini a Genova,
alla quale si dedicò col fratello Mario, è stata un luogo di elezione per
almeno un paio di generazioni di intellettuali (nonché di sbandati) genovesi e
la sua biblioteca (oltre trentamila volumi che da poco hanno trovato sede
presso la Fondazione De Ferrari) può essere forse considerata la sua più
importante “opera” di artista (segreto). Oggi vive a Uscio, il paese da cui
proviene la famiglia paterna, legge (onnivoramente, come sempre), scrive (è
collaboratore delle pagine culturali del “Secolo
XIX”) e cura un sito internet “La
biblioteca dell’egoista” che è lo specchio fedele della varietà dei suoi
interessi culturali.
Nel
1975 esce per Arcana “Lo spettacolo e i suoi prodigi”, come è nata l’idea?
Tanto per
cominciare direi come “materialmente” è nato. Per farla breve andò così: ero
amico di Gianni Emilio Simonetti, che all’epoca suggeriva all’Arcana, la casa
editrice italiana più vicina all’ “area della controcultura”, molti dei titoli
che pubblicava. Il titolare, Raimondo Biffi, della famiglia dello storico
locale milanese, era un gran signore in tutti i sensi, attento al mondo
giovanile e culturalmente spregiudicato. La casa editrice era costituita
sostanzialmente da lui e da quella sorta di capace e curioso factotum, nonché
preveggente bibliofilo, che fu Roberto Palazzi (fra l’altro di “formazione”
genovese). Allorché si trattò di inaugurare una collana di album iconografici
dove poter far entrare il libro di foto sulla “Beat generation” della Pivano,
si pensò anche a me in virtù dei miei interessi (quali?). Detto questo, credo che
Lo spettacolo e i suoi prodigi possa
esser visto oggi come una testimonianza - e non ce ne sono molte per la verità
– di presa di distanza (fino all’estraneità) della piega ideologica
post-sessantottesca, quella “lunga”, all’italiana. In un certo milieu i libri
di “immagini” erano per altro recepiti, nella migliore delle ipotesi, come
frivoli passatempo, meglio se disponibili nella veste del Kitsch e del Revival.
A me interessava far parlare immagini e testo in un’unica soluzione. In quel
momento, tuttavia, proprio Revival era una parola assai in voga, e dunque si
pensò, anziché ampliare la parte principale del libro, di aggiungerne una
seconda che giustificasse l’inclusione della parola nel titolo. Mi parve
un’inutile “ibridazione”, malgrado una certa coerenza si sia salvaguardata. Il
libro, inoltre, suggeriva una sorta di immersione in molto di quel che
costituiva la parte figurativa della vita corrente, in un singolare e
amoralistico capovolgimento delle idee alla Debord. Per certi versi credo si
possa azzardare che anticipasse ciò che anni dopo costituì il gran dibattito
sul “postmoderno”, nella specie: “è stato detto tutto, non c’è più niente da
dire se non attraverso dei collages di quel che si è già detto”. Se così fu,
nonostante l’uso della seconda persona plurale, lo fu in modo assai privato e,
rispetto a quel genere di nichilismo postmoderno, oso dire casomai che fu
allegramente conflittuale.
Quali
erano stati i libri- ma anche i film o i dischi - che ti avevano ispirato quel
discorso e quell’atteggiamento culturale?
Cosa leggevo
in quel periodo? Di tutto, come cerco di fare adesso, soltanto che a quel tempo
riuscivo a seguire “piste” assai diversificate senza troppi sforzi. Mi
interessavo, per esempio, di vari occultismi, simbolismi, misteriosofie, e
misticismi, dal materiale più popolare a quello più raffinato. In quel periodo,
per dirne una, la Adelphi proponeva le opere di René Guenon, ma io avevo già
letto da tempo più dell’essenziale attraverso le edizioni della “Rivista di Studi Tradizionali” (e
qualche materiale originale). Leggevo narrativa e poesia. Per dire di un
romanzo accolto subito con fervore, fu in quel periodo che uscì la prima
edizione italiana di Shining col
titolo, se ricordo bene, di Una strana festa di morte (fu dopo il
film di Kubrick che Bompiani decise di ristamparlo col titolo originale).
Leggevo di storia, filosofia, estetica, arte, letteratura… Anche di vicende
giudiziarie e storie criminali. Leggevo pure ogni sorta di libercolo
divulgativo insieme ai libri cosiddetti “impegnati”. Era anche il periodo dei
“maitre” francesi. Devo dire che portavo simpatia soprattutto nei confronti di
Lyotard. Aggiungo tuttavia che a un certo punto (in coincidenza con la loro “moda”, presumo) non ne potevo
proprio più. Era inoltre il periodo di Arcipelago
Gulag e molti testi del passato di critica e condanna del sistema sovietico
(come quelli di Ante Ciliga) mi erano già noti (acquisiti sulle bancarelle
dell’usato dove erano comuni ma trascurati). Quanto al cinema va
obbligatoriamente ricordato che c’era una scuola “ligure” di cinefili e critici
ben distinta dalle scelte conformiste del tempo. Proprio verso la metà degli
anni Settanta alcuni giovani (Bocci, Ghezzi, Giusti, Mora…) avevano allestito
una rivistina assai significativa, “Il
Falcone maltese”. I “pionieri” non stavano d’altra parte con le mani in mano: come dimenticare
la nascita della Cineteca Griffith grazie allo sfortunato Angelo Humouda, o
l’apertura, da lì a poco, di una sala di grande prestigio, Filmstory, grazie a Sandro Ambrogio? Ricordo con particolare
tenerezza l’istantanea commemorazione, in un noto cinema parrocchiale, di nuovo
artefice il gruppo di Ambrogio, dell’appena defunto John Ford. Amavo e amo John
Ford ma, come si sa, una reputatissima scuola francese esitava a includerlo fra
gli “auteurs”. Viceversa, “i genovesi” non avevano mai mancato di onorarlo.
Uscivano film emozionanti… Dillinger
di Milius, La conversazione di
Coppola, La stangata di Roy Hill… L’ultimo buscadero di Peckinpah… Amici miei di Germi e Monicelli… Il
cinema italiano stava tuttavia perdendo smalto ma uscivano ancora buoni horror
e polizieschi… Per venire alla musica di quegli anni, devo ammettere che non mi
stregava come quella di qualche anno prima. Mi ero ormai incarognito nella
musica popolare ed etnica. Furono l’amico Alfredo e mio fratello (e poi
l’esplosione del Punk) a “ravvedermi” e
a riconciliarmi col rock and roll. Frequentavo con qualche circospezione anche
poche gallerie d’arte. Soggiungo che i galleristi e gli artisti dell’epoca
amavano confrontarsi con le idee, sembrava naturale (o doveroso) farlo. Con
molti di loro era piacevole discutere.
Eravamo
in pieni anni Settanta, per molti versi famigerati…
Senti, degli anni settanta se ne sono dette di cotte e di crude. Si parla sempre del loro tasso di violenza, ma lo si fa con una tale parcellizazione – con disinteresse per i fatti quotidiani, con nichilismo travestito da buon senso e con ipocrisia mista a ignoranza - che a un certo punto sembra essere significativa per valutarli soltanto la violenza che colpiva i politici e la classe dirigente in genere. Sono stati anche anni vivaci per molti aspetti. Per quel che mi riguarda, a Genova, un po’ per celia, insieme ad alcuni amici (Mignani, Passadore, Merella, Barbini, Bignone, poi Ricaldone, Zuccarino e tu stesso, ma anche altri che avevano la Libreria Sileno come punto di convergenza) si cercava di “far gruppo”. Nacquero così “Atelier Bizzarro”, “In Posa” e successivamente l’Ufficio di ricerche e documentazione sull’Immaginario (ma qui già sforiamo). A Milano, con amici che gravitavano intorno a Gianni Emilio Simonetti e a Gino di Maggio, si fecero cose di un certo peso, come “a-beta” (dalla quale derivò in qualche modo - anche se, per la verità, le cose vanno ben distinte - la più celebre e prestigiosa“Alfabeta”). Con Scheiwiller avevo pubblicato un originale libriccino su Mucha (purtroppo zeppo di refusi) e con Arcana un saggio sul travestitismo finito su un album al quale partecipò nientemeno che Gillo Dorfles. Mi si proponevano delle collaborazioni e, volendo, potevo trovare aperte diverse strade, tuttavia la marginalità non mi stava stretta ed ho finito per coltivarla. Se ho fatto qualcosa di buono probabilmente l’ho fatta conversando, pur non possedendo le qualità del conversatore geniale (e gli amici erano peggio di me, se si può dire). I miei umori dell’epoca credo di poterli in ogni caso rinvenire in un testo di qualche anno successivo pubblicato sul numero unico (un destino, non solo il mio, da “numeri unici”) di “Stato Inferto”, cui avevano lavorato soprattutto, credo, Zuccarino e Mignani. Rimpiango quello “stile”.