Giuliano Galletta

Testa: «gli epigoni dei grandi nichilisti hanno stufato»
Enrico Testa, 53 anni, anni insegna Storia della lingua italiana all'Università di Genova. Critico letterario e poeta, oltre al "Personaggio nel romanzo" (Eroi e Figuranti, Einaudi, 2009) ha pubblicato, sempre da Einaudi, l'importante antologia Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000 e le raccolte di versi In controtempo, La sostituzione e Pasqua di neve. Nel suo ultimo saggio, destinato a far discutere, lancia - con il suo stile pacato e lineare - una meditata accusa al grande romanzo "nichilista" del '900, colpevole del "tentato omicidio" del Personaggio, salvo registrarne, subito dopo, una ritrovata vitalità.
«Il mio libro» spiega Testa «nasce dall'analisi e dalla critica a un certo tipo di personaggio romanzesco, così come si è sviluppato nel Novecento, inteso cioè sempre in modo negativo. È un modello fondato sul nichilismo, sull'esasperazione della soggettività, sul presupposto di conoscere il Male a ogni costo. Di fronte a questo tipo di personaggio, che ha avuto grandissimi interpreti da Franz Kafka a Samuel Beckett a Thomas Bernhard, mi sono posto la domanda se era possibile individuare un'altra categoria di personaggio, che non si limitasse semplicemente a conoscere il Male ma che volesse negoziare con esso, che avesse un rapporto con il Nulla ma tentasse di sperimentare le possibilità di abitabilità di questo Nulla».
E quale è stata la risposta?
«L'individuazione di una tipologia duplice,. Una più negativa, cioè quella di un personaggio che vuole avere rapporti solo con stesso, e la seconda che ho definito, con un termine non so quanto azzeccato, "personaggio relativo", cioè fondato - come ha scritto Henry James - sul sentimento della relazione, sul rapporto con gli altri personaggi. Quest'ultimo figurante non si pone tanto l'obiettivo di trovare il Vero a tutti i costi quanto quello di cercare un equilibrio tra le ragioni del Male e quelle del Bene ».
In base a questa dicotomia lei costruisce una genealogia alternativa di scrittori e di romanzi.
«Sì, che possiamo far partire, appunto, da Henry James, in particolare con Gli ambasciatori e Ritratto di signora, e che arriva fino ai giorni nostri con autori come Abraham Yehoshua, David Grossman, Danilo Kis, Winfried Sebald. Scrittori che nelle loro opere non si pongono soltanto problemi conoscitivi ma soprattutto un'istanza etica. Come accade a James alle prese con le questioni dello "scrupolo" e del "dovere". Figure romanzesche che si danno una missione da compiere».
Al contrario la linea principale, quella che lei chiama del "personaggio assoluto", è finita in un vicolo cieco?
«Direi che ha come obiettivo il disfacimento, come si può vedere soprattutto negli esponenti più recenti come, ad esempio, in Paul Auster. Le destinazioni terminali di questa tendenza sono da una parte la cancellazione di se stessi, il non essere più, e dall'altra l'azzeramento del mondo , essere contro il mondo, come avviene in maniera molto affascinante nei romanzi di Thomas Bernhard. Sono atteggiamenti letterari che, per dirla in parole povere, hanno stufato un po' e che soprattutto negli epigoni risultano di maniera. Registro questa insistenza sull'identità che però viene trattata come un gioco, mentre ritengo che l'identità sia invece un problema, un lavoro. Probabilmente dobbiamo renderci conto che - come peraltro diceva già Beckett - senza nomi propri non si vive».

“Il Secolo XIX”, 13 febbraio 2009