giuliano galletta
50anni di merda d’artista
Era l’agosto del 1961 quando il ventottenne Piero
Manzoni presentava, per la prima volta, alla Galleria Pescetto di Albisola
Marina, le sue scatolette di “Merda d’artista”.
“Contenuto netto grammi 30” recita l’etichetta
“conservata al naturale, prodotta ed inscatolata nel maggio 1961”. Il prezzo
fissato dall’artista per le 90 opere, firmate e numerate, corrispondeva al
valore corrente dell’oro. Oggi, a mezzo secolo di distanza, i barattolini sono
conservati in diverse collezioni d’arte di tutto il mondo, il numero 4 è
esposto alla Tate Modern di Londra e l’80 nel nuovo Museo del Novecento di
Milano. Il valore di ciascuno pezzo sarebbe stimato intorno ai 30.000 euro ma
il 23 maggio 2007 nelle sale della casa d’aste Sotheby’s, di Milano un collezionista
privato europeo si è aggiudicato l’esemplare numero 18 per 124.000 euro. Il
mercato dell’arte ha realizzato compiutamente, anzi ha superato, l’utopia
dell’artista: trasformare la merda in oro.
La provocazione è stata assorbita nelle regole del
collezionismo, del museo e dell’intera società; un destino segnato per tutte le
avanguardie del Novecento: dall’orinatoio-fontana di Marcel Duchamp al dito
medio di Maurizio Cattelan. L’unica differenza sono i tempi di reazione, anni
per le avanguardie storiche, quasi immediate per gli artisti contemporanei,
almeno quelli su cui il mercato sapientemente (o meno) investe. Nella società
dello spettacolo la provocazione artistica non funziona più che come mezzo
promozionale e i provocatori più efficienti non sono più gli artisti ma i
pubblicitari.
Come ha scritto Theodor Adorno l’arte del Novecento
“ha fatto naufragio dal suo pubblico” ed è “ormai ovvio che nulla di ciò che
concerne l’arte è ovvio, nè nell’arte stessa, nè nel suo rapporto con il tutto,
ovvio non è più nemmeno il suo diritto all’esistenza”. Tuttavia, spiegava
ancora il filosofo tedesco, “l’arte è seria”, perchè è in rapporto con la
verità. È forse tutta qui la contraddizione, il paradosso, dell’arte
contemporanea, il suo segreto, che è anche il segreto della merda d’artista. E
di Piero Manzoni. Il rivoluzionario pittore milanese che diede l’addio alla
pittura e che morirà nel 1963, neanche trentenne, scriveva tre anni prima nel
suo “Manifesto contro niente per l’esposizione internazionale di niente”: “Una
tela vale quasi quanto nessuna tela. Una scultura è buona quasi quanto nessuna
scultura. Una macchina è bella quasi quanto nessuna macchina. La musica è
piacevole quasi quanto nessun rumore. Nessun mercato d’arte è fruttuoso quanto
il mercato d’arte. Qualche cosa è quasi niente (nessuna cosa)”.
Di fronte a questo nulla anche scatoletta di merda
d’artista diventa “qualcosa”. Non soltanto un’idea (nella scatola probabilmente
c’è gesso, ma nessuno ha mai verificato) ma anche una forma. Come nelle altre
opere di Manzoni gli achrome, il fiato d’artista, la base del mondo, i panini
plastificati, le linee, le uova firmate con l’impronta digitale. «Aldilà di
certe trovate estemporanee, legate alla sua autentica originalità di uomo»
spiega Gillo Dorfles, padre degli studi estetici in Italia «Manzoni era un vero
artista, destinato a rimanere. Penso soprattutto per gli achrome. Credo però
che con lui il mercato abbia un po’ esagerato, le sue opere sono facilmente
replicabili, in circolazione perciò ci sono molti falsi e ce ne saranno sempre
di più».
Non tutti però sono dello stesso parere. Il filosofo
Mario Perniola sull’argomento risponde: «Stendiamo un velo pietoso su Manzoni
(non Alessandro, ma un tale Piero) e sulla maggior parte della produzione degli
ultimi cinquant’anni. Ormai nell’arte, come nella politica, abbiamo raggiunto
il punto di svolta che ci porta altrove». “il secoloxix” 25 agosto 2011