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Giuliano Galletta

Bindi, gli inediti e la scuola genovese

«Sarebbe questo?», il tecnico del suono guarda il nastro con aria perplessa. Gian Piero Alloisio lo ha appena tirato fuori da un vecchio sacchetto dove è stato conservato per anni insieme ad audiocassette altrettanto vetuste. Gliele ha consegnate così Massimo Artesi, per trent’anni compagno di vita di Umberto Bindi e ora suo erede, morale e materiale. «Speriamo bene» ribadisce Marco Canepa, fonico della Casa della musica di Genova e, con una certa cautela, lo adagia sul Revox. Ma basta qualche secondo e la sala di registrazione viene inondata dalla musica di Umberto Bindi e del suo pianoforte. La qualità del suono è tutt’altro che eccellente, forse il piano è persino scordato, ma sono tutti difetti che rendono ancora più emozionante il momento.

Quel nastro è la punta dell’iceberg di uno straordinario tesoro musicale sepolto, quasi quaranta ore di brani inediti del cantautore scomparso nel 2002, probabilmente il più musicalmente dotato del manipolo genovese ma anche, per molti versi, il meno valorizzato. Un patrimonio che rischiava di andare perduto a causa dell’obsolescenza dei supporti magnetici e che ora potrà essere salvato grazie a un progetto che coinvolge, Artesi, il cantautore Alloisio, la Regione Liguria, la Fondazione Palazzo Ducale. Un finanziamento dell’assessorato alla Cultura regionale permetterà infatti di digitalizzare buona parte del materiale sonoro che sarà poi trasformato in spartiti e potrà quindi tornare a vivere sulla scena musicale. I primi risultati di questo complesso lavoro sull’archivio Bindi sarà presentato a giugno nel corso di un concerto che si terrà a Palazzo Ducale.

La prima sessione di ascolto a cui abbiamo partecipato e che ha riguardato solo quattro ore di registrazione, circa il 10% del totale, ha già riservato delle notevoli sorprese. «Sono almeno quattro i brani che hanno le caratteristiche per diventare subito canzoni» spiega Alloisio «che sono cioè già completamente strutturate e pronte per accogliere i versi». Ciascun brano ha il suo titolo, scarabocchiato a mano da Bindi: “Preghiera”, “Irene”. “Interessante”. “Danza, notturno” è probabilmente quello che colpisce di più; si tratta di una milonga dal sound decisamente internazionale. D’altra parte le canzoni di Bindi hanno sempre avuto particolare audience sul mercato anglo-americano. Solo per citare qualche “classico” , “Arrivederci” (scritta con Giorgio Calabrese) può vantare una versione di Chet Baker, “Il mio mondo”, portata al successo da Gino Paoli, che era anche autore del testo, fu cantata, tra gli altri, da Tom Jones, Dionne Warwick, Shirley Bassey. La versione inglese della “Nostra canzone” fu interpretata da Robert Plant, prima che diventasse il cantante dei Led Zeppelin. Ma nella massa del materiale sonoro non ci sono solo canzoni ma anche composizioni di più ampio respiro: frammenti sinfonici, balletti, colonne sonore. Dalla metà degli anni Settanta il musicista lavorò pensando anche all’opera lirica, elaborando diversi temi intorno alla Turandot. Praticamente completo è invece “Scarpette rosse”, una sorta di musical per bambini, ispirato alla fiaba di Andersen di cui Bindi aveva iniziato a scrivere anche il testo; le registrazioni conservano una sua struggente interpretazione del tema conduttore.

Evidentemente la storia della bambina, che continua ballare a dispetto di tutto e di tutti, esercitava un fascino particolare su Bindi, diventando quasi una metafora della sua vita: “condannato” a comporre anche se perfettamente cosciente - da un certo momento in poi - che nessuno lo avrebbe pubblicato. «Penso che Bindi non sia stato emarginato per la sua omosessualità» osserva Artesi «ma per la sua bravura, quella era davvero scomoda per molti. Lei non sa quanti grandi successi della musica italiana degli ultimi due decenni siano stati scritti da lui e firmati da altri». «Sono molto contento che questa operazione di salvataggio dei nastri» prosegue «avvenga proprio a Genova, la città di Umberto, che non sempre ha dimostrato grande attenzione per il suo talento. Devo però ammettere che il rischio che questo materiale andasse perduto è in parte colpa mia, ho aspettato forse troppo; ma non è facile, in questo ambiente trovare persone di cui fidarsi. Io sono una uomo semplice e ho già preso troppe fregature. Fino ad oggi avevo pensato: vorrà dire che questa musica la sentirò soltanto io. Ma invece è giusto che venga recuperata e valorizzata». Il materiale è importante da un punto di vista strettamente artistico ma anche storico ed è particolarmente affascinante entrare nei meccanismi creativi del musicista, ascoltare “in diretta” la nascita dell’idea, le incertezze e alla fine la soluzione, che non sempre arriva. Tutte le registrazioni sono state realizzate nella casa di Bindi a Monterosi, vicino Viterbo, nello studio dell’artista che, ricorda Artesi, era anche una specie di voliera dove circolavano liberamente canarini e cocorite il cui cinguettio fa spesso da sottofondo casalingo agli impeti alla Rachmaninov del musicista.

Ma nel “magazzino” c’è ancora noolto altro,ad esempio, una serie di provini di canzoni mai incise scritte con autori come Mogol o Bardotti. Insomma una miniera in cui si è appena iniziato a scavare. «A giugno presenteremo alla città una selezione di questi brani» conclude Alloisio «e spero davvero che questa iniezione di creatività stimoli musicisti, cantanti, poeti a lavorare su questo prezioso materiale e al tempo stesso sproni Genova a riscoprire la sua vocazione musicale». Tra gli effetti collaterali dell’ascolto di questo laboratorio bindiano c’è, infatti, la netta percezione che la “scuola genovese” sia realmente esistita

“Il Secolo XIX”, 13 marzo 2009