giuliano galletta
l’ultimo sultano a Sanremo
Il
crollo dell’Impero ottomano e la spartizione dei suoi territori fra le grandi
potenze europee è all’origine di molti dei conflitti che oggi lacerano il Medio
Oriente. A segnare questa lunga storia in cui si confondono politica,
religione, guerra, economia e diplomazia c’è un filo nero chiamato petrolio,
una delle vere anime della storia del XX e anche del XXI secolo. E c’è sempre
il petrolio dietro la misteriosa fine di Maometto VI, l’ultimo sultano
dell’Impero, morto a Sanremo il 16 maggio del 1926. «Si può dire che l’Impero
ottomano sia morto a Sanremo per due motivi» spiega Riccardo Mandelli, autore
di L’ultimo sultano (Lindau) «sia
perché nella città ligure è morto il sultano detronizzato da Mustafa Kemal, il
futuro “grande padre turco”, Atatürk, sia perché proprio la conferenza
internazionale di Sanremo del 1920 aveva sancito lo smembramento dell’impero
sconfitto nella prima guerra mondiale».
Maometto
VI era arrivato a Sanremo tre anni prima il 20 maggio 1923 e si era installato
con la sua corte nella villa già abitata da Alfred Nobel. Maometto VI coltiva
la speranza di tornare in patria da vincitore e lavora alla realizzazione del
suo obiettivo: riceve emissari di una società segreta islamica, incontra il re
d’Italia al Casinò, si congratula con Mussolini per lo scampato pericolo di un
attentato, dà fondo al denaro che si era portato da Costantinopoli e tenta approcci
con il Vaticano per un’inedita alleanza tra islamici e cattolici contro
l’ateismo che avanza da Est. La sua corte è popolata da spie, mogli infedeli,
eunuchi ubriaconi, feroci circassi con il demone della roulette, parenti
spericolati. Uno scenario da romanzo che infatti ispirò lo scrittore Nico
Orengo per il libro “Islabonita” e che Mandelli ricostruisce puntigliosamente
sulla base dei documenti d’archivio.
«Nel
1925 Atatürk era alle prese con una delicata questione territoriale che
opponeva la Turchia all’Iraq, in quel momento protettorato britannico» spiega
Mandelli «per il controllo della preziosa provincia petrolifera di Mosul che la
Società delle Nazioni aveva attribuito all’Iraq e quindi all’Impero britannico
ma che Atatürk non voleva cedere». Sotto la minaccia di una guerra che avrebbe
visto alleate contro la Turchia, Inghilterra, Italia che già nel 1912 aveva
combattuto l’Impero ottomano in Libia, e Grecia, Atatürk, in difficoltà anche
sul fronte interno, a causa della sua politica, più o meno forzata, di
laicizzazione della società turca, decide di sacrificare quel territorio.
«La
decisione rafforza il presidente della neonata repubblica» prosegue Mandelli
«viene immediatamente scoperto un progetto di attentato contro la sua vita e
subito dopo muore il sultano. Questa morte è rimasta
avvolta nel mistero, ma fra le ipotesi subito fatte all’epoca c’è
l’avvelenamento. D’altra parte è accertato che all’interno della corte di
Maometto VI erano attive spie del governo turco». E proprio a uno di questi informatori
è al centro di un altro giallo che ha come scenario il parco della villa che
costeggiava la casa in cui viveva la famiglia Calvino.
Lì,
sulla veranda di villa Nobel, il 14 marzo del 1924 viene trovato in fin di vita
Resad Pascià, medico personale del sultano, con un pallottola conficcata nel
cranio. Morirà ventiquattr’ore dopo. L’uomo era depresso e in gravi difficoltà
economiche, come tutti i cortigiani che erano fuggiti da Istanbul salvando
pochi averi. L’ipotesi iniziale è quella del suicidio. Nel 1928 però, su
denuncia della moglie del medico, la magistratura italiana apre un’inchiesta
per omicidio che porta all’arresto del colonnello Zeki Bey, luogotenente e
cognato di Maometto VI che verrà assolto a sanremo ma condannato a morte in contumacia dal tribunale.
Bey
riparerà a Nizza dove morirà due anni dopo. «La tesi del suicidio mi sembra
difficilmente sostenibile» spiega Mandelli «il medico era accusato di essere
una spia di Atatürk; nel fascicolo del processo che ho ritrovato ci sono le
lettere di minaccia che aveva ricevuto e tutta l’inchiesta ha gravi lacune a
cominciare dall’autopsia». «La memoria di queste vicende è rimasta a Sanremo»
conclude Mandelli «un amico mi ha raccontato di uno di questi dignitari turchi
che andava a cenare nel ristorante della sua famiglia portandosi da casa una
bottiglia di vino che nascondeva sotto il tavolo. Lavorare su questa storia è
stato come aprire una botola in cantina e scoprire una città sotterranea». “il Secolo XIX”, 28 febbraio 2011