Giuliano Galletta

ritratto di Giorgio Labò
“A Giorgio devo d’aver conosciuto da presso un eroe. Egli ha dato per me contenuto a un’abusata figura rettorica, della quale i tempi, che di eroi spessegiavano, avevano più che mai portato a diffidare. Tra troppo eroi a lora insaputa, Giorgio fu eroe di sua scelta, davanti a se stesso e in silenzio”. Così Camillo Sbarbaro ricorda il suo allievo genovese Giorgio Labò, precoce intellettuale e partigiano, medaglia d’oro al valor militare, fucilato ia nazisti a 25 anni, nel 1944 . Enfant terrible , così lo definirà Lele Luzzati, suo compagno alle elementari Giano Grillo; rampollo “difficile” di una famiglia di intellettuali che solo un professore d’eccezione come Sbarbaro, riuscì – con ingegnosi espedienti didattici – ad accostare al latino “aureo” e agli autori classici, da Omero a Dante, Giorgio riserverà grandi sorprese. Se, da principio, “delle materie di studio non ce n’era una che non aborrisse”, più tardi, doppiati gli insidiosi scogli della sintassi, fu lui a stupire il maestro partendo “lancia in resta contro un critico ostile alla pittura di De Chirico” e manifestando addirittura l’urgenza di controbatterlo su un giornale.
Questo fermento, già maturo in età adolescente, era frutto, oltre che del rapporto confidenziale che lo legava al poeta di Pianissimo, di un ambiente familiare ricco di stimoli: il padre Mario, architetto, formato in un ambito di cultura liberty, promotore di iniziative imprenditoriali nel campo delle arti applicate che lo mettono in rapporto con artisti della caratura di Arturo Martini, diverrà uno degli alfieri del Razionalismo; la madre Enrica Morpurgo, donna di spiccati interessi letterari e filosofici, curerà la traduzione di testi chiave di architettura, mentre la zia materna Lucia, moglie del pittore Paolo Rodocanachi, animerà a lungo, nella sua casa di Arenzano un cenacolo letterario frequentato da Sbarbaro, Carlo Bo, Carlo E,milio Gadda e da Eugenio Montale, e coadiuverà quest’ultimo – come anche Elio Vittorini – nella trasposizione in lingua italiana di autori inglesi e americani. Non stupisce perciò più di tanto il fatto che, iscrittosi alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, il giovane Labò sia entrato con tutta naturalezza in rapporto con gli ambienti artistici e letterari del capoluogo lombardo, partecipando in veste di critico d’arte all’avventura di Corrente, cui erano legati pittori come Birolli e Guttuso, poeti come Vittorio Sereni e filosofi come Antonio Banfi e collaborando con diverse voci al Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi.
E’ mentre coltiva queste passioni, leggendo avidamente e indagando l’arte di Afro e Mirko Basaldella, attivando contatti con architetti come Pagano e Sartoris, che - divampato il secondo conflitto mondiale - viene chiamato alle armi nel Genio minatori. Lontano dalle prime linee, sottoposto a continui trasferimenti tra Firenze, Novi Ligure e Poggio Mirteto, nella una monotona vita di guarnigione Labò continua dapprima a perseguire le sue ricerche, progettando monografie sull’architetto finlandese Alvar Aalto e sul futurista Antonio Sant’Elia, caduto nel 1916, verso il quale lo attrae “un rapporto di somiglianza umana, fra generazioni che hanno vissuto l’ansia di una eguale attesa”. Ma crollato il regime fascista nel luglio 1943, e ancor più dopo l’8 settembre diviene consapevole della necessità di un’azione contro l’occupazione nazista e si lega con il Gruppo di Azione Patriottica romano guidato da Antonello Trombadori, dove mette a frutto l’esperienza acquisita nel Genio creando con il chimico Gianfranco Mattei ordigni esplosivi utilizzati in diverse azioni di sabotaggio. Tradito, viene catturato e tradotto nel carcere delle SS in via Tasso, dove Mattei, temendo di cedere alle torture, si dà la morte.
Sottoposto a brutali interrogatori Labò non parla. Recita la motivazione con cui gli venne in seguito conferita la medaglia d’oro: “legato mani e piedi ininterrottamente da strettissimi vincoli che fecero in breve tempo incancrenire i suoi polsi, con le ossa fracassate ed il volto disfatto dalle percosse, ad ogni intimazione dei carnefici rispondeva: non lo so e non lo dico. Viva l’Italia!”. Cade fucilato per rappresaglia, con nove compagni, il 7 marzo 1944 a Forte Bravetta. Piero Boragina racconta ora nel suo libro “Vita di Giorgio Labò” (Aragno, 355 pagine, 40 euro), che il 15 maggio sarà presentato a Palazzo Strozzi, Firenze, attraverso documenti epistolari e fotografici, brani di diario, straziante quello del padre che va a cercarne la salma, articoli e rievocazioni di amici, componendo un mosaico che restituisce vividamente il percorso di questo giovane eroe dall’infanzia alla sua ora estrema. E nel suo argomentare mette in luce con tutta chiarezza come l’impegno culturale e la partecipazione al movimento di Resistenza avessero la stessa radice; come, nelle parole di Giulio Carlo Argan, “Giorgio sia diventato un militante comunista sui testi della poesia e della pittura moderne”.
Il Secolo XIX”, 30 aprile 2012