Rarefatti ormai i ritrovamenti di inediti
legati con maggiore o minore pertinenza al tempo “dada”, è alla periodica
riesumazione di scritti minori dei protagonisti di quella stagione che
un’editoria, orfana di belle invettive e cesure necessarie, attinge per
smarcarsi dal basso profilo dell’attualità. Di Georges Ribemont-Dessaignes
(1884-1974) la cui notorietà è associata ai pamphlets, alle poesie ed al teatro
negli anni successivi al primo dopoguerra, i cassetti riservano ancora
scoperte, pur se va notato che la longevità (i.e. l’abbondanza produttiva)
dello scrittore (nato, a pensarci, solo dieci anni dopo Jarry) ha nuociuto
secondo alcuni alla media qualitativa di quanto si viene scoprendo. Se a ciò
aggiungiamo la sempre precaria disponibilità di sue opere nello stesso paese
d’origine ed il fatto che alle lettere egli si volgesse dopo promettenti esordi
pittorici (e Duchamp fu subito tra i suoi estimatori) senza mai ricavarne
agiatezza e conforto, ne risulterà l’abusata sagoma dell’eterno comprimario da
rivalutare. La raccolta di dodici racconti, in buona parte editi su riviste
anche prestigiose (ma sospette all’ex sodale Breton) che l’editore Le Castor Astral ha da poco raccolto
col titolo La Divine Bouchère, confermerà probabilmente i partiti dei
detrattori ed esaltatori nelle proprie convinzioni; ad esemplificarne gli esiti
più felici si legga “Fou de sa libertè” apparso nel 1946 nella raccolta “Alternance” in compagnia di testi, tra gli altri, di
Giraudoux, Maulnier, Paulhan, Mac Orlan e Cassou dove il motivo ricorrente
della libertà appena ritrovata richiama dialetticamente quello delle prigioni
ancora piene. Come se solo davanti ad una prigione si potesse avere un’idea
giusta della libertà.
Georges Ribemont-Dessaignes
pazzo
di libertà
L’uomo ne scorse un altro, distante, sul bordo della strada. Un uomo che pareva stremato. Uno sterratore, senza dubbio. Oreste pensò, non senza una segreta ironia: Un fratello ! Perciò gli si avvicinò e disse: Salve, fratello ! L’altro rispose solo con un borbottio. Oreste incalzò, più familiarmente: “ Qualcosa non va, vecchio mio ? “
L’uomo era seduto sul ciglio della strada. Alzò su Oreste uno sguardo vago che pareva provenire da un universo ignoto e non rispose. Allora Oreste gli disse: “ Posso fare qualcosa per voi ? “. “ Va tutto bene, rispose l’altro, sono o no un uomo libero ?”.
Oreste lo lasciò per riflettere e proseguì per la sua strada: “Sono un uomo libero, aveva affermato il solitario. Io lo sono o no ? “. Questo suonava come una sfida. Bisognava concluderne che, secondo il parere di quell’imbronciato, un uomo libero non può coabitare con un altro libero.
E Oreste guardò il cielo, i grandi pioppi, i corvi che si lanciavano dalle cime verso le nuvole davanti a cui disegnavano strane orbite. Si è soliti avere un’idea particolarmente netta della libertà quando ci si trova a contatto della natura. Almeno, lo si dice. Ma Oreste alzò le spalle. Il cielo, beninteso, non è libero. I pioppi non sono liberi: crescono dritti verso il cielo, ma non possono fare altrimenti. E se crescono storti, è solo ad occhi umani: i rami sono stati feriti, spezzati, tagliati, pure il sole li attirava, ma gli alberi non possono camminare. È vero che non ne hanno la volontà. O perlomeno, quel che in essi chiamiamo volontà è giusto ciò che possono volere. Possono volere soltanto quel che fanno. Non è ciò che gli uomini definiscono libertà. E i corvi, se la passano meglio agli occhi di chi ne osserva le evoluzioni nell’aria ? Che differenza c’è fra il corvo e il lombrico che afferra ingordamente ? Forse il corvo può porre il problema del corvo meglio di quanto il lombrico possa porre il problema del lombrico ? La questione era presto risolta. Ma Oreste aveva davanti agli occhi altre prospettive.
Questi scrupoli gli erano venuti in maniera singolare. Era un uomo ricco, uno dei quei personaggi come ce n’è tanti, che considerano la vita solo sul piano dei propri occhi; senza dubbio ciò permette loro di vedere dall’alto, ma abbassare lo sguardo su tutto quel che è al di sotto riesce loro insopportabile. Tra le cose si spalanca il vuoto. Una nebbia bagna allora lo spazio ed essi provano un’insormontabile vertigine. Ma ciò che vedono, vale a dire il mondo al loro livello, non pare bello per questo, e la grande malattia della vita, con il suo fremito, va ad infrangersi fino ai loro piedi.
A dire il vero, il rimedio è semplice: i muri di queste persone hanno tappezzerie fiorate, le loro donne portano cappelli con piume vistose, le piega dei loro pantaloni assume più importanza del pantalone stesso, la cui stoffa pure arriva dall’Inghilterra. Così l’angoscia si cancella sotto la sua posatura, diventata mar dei Sargassi.
Dunque Oreste aveva ricevuto una rivelazione: le venne dal fatto che, essendo stato a caccia, una caccia in cui i battitori si occupavano di quasi tutto, aveva ucciso un perniciotto. Povero uccello, cosiddetto libero, ma che di sicuro era stato vivo, adesso era solo un poco di carne piumata. Oreste ne ebbe un poco di sangue sulle mani e, meccanicamente, come si fa con la propria ferita, si portò un dito alla bocca. Immediatamente capì.
O meglio, non comprese più nulla di ciò che era stato ed era. Partì subito lasciando lì il guardiacaccia, i battitori e gli amici. Così incontrò lo sterratore e qualcosa come i gemiti della libertà.
Non era stato, fino ad allora, un uomo sgomentato dall’universo, dall’immenso universo. Questo si stendeva al suo livello tendendogli i suoi fili dorati. In materia di oro, Oreste deteneva ogni segreto.
Per questo, al fine di placare il disagio della mente, si recò da Madame Aline, che abitava in una casa appartata, non lontano dalla fabbrica Oreste. Oramai da molto tempo Madame Aline non gli rifiutava niente. O, come si dice, era la sua amante. Lui pagava l’affitto, i domestici, i fornitori. In cambio Madame Aline gli concedeva il godimento di tutto ciò che aveva ricevuto venendo al mondo, aumentato dai vezzi che costituiscono il fiore dell’essere umano. Cosa rimaneva di suo a questa donna una volta permesso che di lei ci si servisse come di un cane da caccia o di una tela d’autore ? Oreste le arrivò in casa all’improvviso, con un’aria strana, tirò dalla tasca un mazzetto di banconote, le sventolò e gettandole sul letto chiese:
- Aline, siete una donna libera ?
- Certamente, disse lei. Ogni essere umano lo è !
Lui le lanciò uno sguardo torvo e continuò:
- Allora, provatemi, Aline, che siete davvero libera e questa mazzetta è vostra.
Poiché lei non capiva, dovette spiegarsi:
- Per provare di essere liberi occorre agire.
- Che volete che faccia, amico mio ?
- Vi dico: Siete libera. Dunque agite, come vi garba. Ma attenta, Aline, se andrete soltanto a letto con il giovane Maxime de la Guibolle, o con il cameriere, non proverete un bel niente, perché non avrete fatto altro che seguire i vostri gusti – che io conosco!
- Albert ! Cosa andate a pensare !
- Decidete ! Provate d’essere libera !
- Siete ubriaco, Albert ?
Aveva tranquillamente allungato il braccio e, afferrate le banconote, se le mise in borsa.
- Vi perdono, disse allora, con soave sorriso. Pensate: ho proprio bisogno di una borsa. Questa è tutta consumata.
Lui sghignazzò:
- Una borsa per metterci questi soldi ? Ma saranno serviti per comprare la borsa !
Lei si mise a ridere:
- Siete proprio un uomo ! disse.
Lui si avvicinò e la schiaffeggiò… Ma era solo per provare di essere libero. C’era dell’altro dietro il suo gesto. E poi, era soltanto una donna. Lo aveva abbindolato, da donna, con la soluzione di prendere comunque i soldi. Allora uscì sbattendo la porta.
Fuori, invece di calmare un cervello in cui si rincorrevano tante incredibili idee, l’aria pura le faceva proliferare come coltura di microbi particolarmente nocivi.
Pochi momenti dopo entrava in tromba nell’ufficio privato della sua fabbrica. Cominciò col gettare dalla finestra un boccale con pesci cinesi. Poi, tratto un revolver da un cassetto, fracassò il suo ritratto, opera di un celebre pittore. Dopo di che, non provando alcun sollievo, premette il pulsante di un campanello. Il fedele cassiere dell’azienda non tardò ad arrivare e si stupì di trovare il padrone tanto sovreccitato.
- Signor Morille, gli chiese Oreste, siete un uomo libero?
- Mio Dio, fece il pover’ uomo, che dirVi ? Sì, credo.
- Anch’io, Morille. E potrei spararVi come ad un cane…mi limito a scacciarVi.
- Oh ! Signore ! Avete qualcosa da rimproverarmi ?
- No: è proprio per questo. Vi licenzio.
Senza dubbio, pensava Oreste, è un uomo libero. Se lo allontano, non è più libero di restare. Ma altrove eserciterà la sua libertà o assenza di libertà. Come vorrà. Ucciderlo non servirebbe a nulla. Di uomini come lui ce n’è a milioni. Libero o non libero allo stesso tempo. Finché ce ne sarà uno libero, finché ce ne sarà uno non libero, io stesso non sarò libero !
Allora, trasse dalla tasca un pacchetto di sigari e lo tese al cassiere, il cui volto pallido faceva pena:
- Scherzavo. Prendetene, Morille.
Questi prese i sigari. Oreste pensava: Li prende, perciò non è libero.
Ma questo non cambiava niente alla questione. Una certezza continuava a lavorargli il cervello malato. “ Non si può provare la propria libertà mentre si è in libertà “.
Quando il cervello fu simile ad un giardino sconvolto dalle talpe, Oreste decise d’applicare proprio il principio responsabile di tale sconvolgimento.
Per questo ordinò a un operaio di murare prima la porta di una cantina, poi lo spiraglio. Ma si guardò bene dall’avvertire che, durante l’operazione, lui era steso in un angolo buio e senza uscita che gli permetteva di seguire il progresso del proprio imprigionamento.
Quando la porta fu murata, l’operaio andò a mangiare, rimandando al giorno seguente la conclusione del lavoro. Lo spiraglio restava il solo collegamento rimasto ad Oreste, un’apertura ai venti dell’Universo. Era abbastanza per permettergli di non essere più in libertà ? finalmente libero?
Vicino allo spiraglio, un giovane e una ragazza che si erano dati appuntamento si scambiavano attestati d’amori inframmezzati da baci e sospiri. Non si curavano di nient’altro, perlomeno i loro scrupoli non riuscivano ad imprigionare quel che la notte incipiente scioglieva da ogni limite. Nessun dubbio, nel sentirli, che i genitori fossero decisi ad avvelenare, uccidere, distruggere la meraviglia delle meraviglie, quel giovane universo d’amore, quell’uovo di cui si osa appena rompere il guscio tanto il cuore vi batte all’avvicinarsi del miracolo. Quel fresco universo d’amanti subito dispiegato di là dalle porte aperte, da cui non si può entrare, nell’incanto delle vie stellate, dei viali notturni…
Davanti all’amore la domanda di Oreste poteva mai porsi ? Libero o non libero ? Vale a dire: se amo e voglio provare la mia libertà, non c’è che un’alternativa: Mollare l’oggetto del mio amore.
Domando scusa ! Non si tratta di questo: per provare la mia libertà bisognerebbe dire no alla presenza di questo amore. “ Amo ? Ebbene, no, non amo affatto “.
Ma, questo è il punto, l’amore può rinunciare al suo oggetto, non a sé stesso.
Compreso ciò nel dedalo dei propri tormenti, Oreste scoppiò in un’acuta risata, bastante a spaventare i piccoli innamorati nelle tenebre.
E l’indomani, l’operaio giunto a compiere l’opera fu non poco sorpreso nel vedere due mani strette alle sbarre dello spiraglio che andava murato mentre un riso orribile risuonava dentro lo scantinato.
Oreste venne riconosciuto e liberato. Egli aveva forse intravisto qualche uscita misteriosa in seno ai problemi relativi alla libertà.
Tuttavia, lo si rinchiuse, dal momento che era impazzito. Si dirà che almeno lo spirito aveva toccato la libertà. In questo ci si sbaglia. La follia è l’ultimo asilo di chi non ha più bisogno di libertà per essere libero. Le mura incantate erano costruite più solidamente di quelle di una cantina murata.
(trad. di Jean Montalbano)