Jean Montalbano 

un posto al sole: Glass sulla spiaggia

Scrisse, nel 68, un “Pezzo in forma quadrata” in ricordo di quelli “a pera” del vecchio Satie. Oggi, Philip Glass, ama definirsi compositore per teatro,  ma quest'anno, attraverso la sua Orange Mountain Music, ha iniziato a vendere una serie di suonerie per cellulari ricavate da diverse opere.

Dalla musique d'ameublement -musica mobilio di satiana memoria- alla mobile music - musica per dispositivi mobili (qui c'è tutto il destino di una stirpe di outsiders novecenteschi, direbbe qualcuno). E attorno è tutto un  fervore di riedizioni e riletture con diverse orchestrazioni di passate partiture, parte di un programma impegnativo e tutt'altro che minimalistico (termine che andrebbe applicato più propriamente alle arti visive), dando ragione a chi, fin dal principio, assegnava la produzione di Glass al reparto iterativo e ripetitivo, vedendovi  nessi più saldi con il pop e l'optical (Judd o Serra per es.) che non con le analitiche riduzioni o i ritorni al primario/ elementare promossi dai quasi contemporanei artisti fluxus. Processi ovvero ripetizione e mutamento, un modo sbrigativo per eliminare ogni “storia” o elemento narrativo esterno dalla musica il cui contenuto è la forma del processo: ed una volta entrati nel flusso, l'esperienza ha, con le parole dell'autore, qualcosa di “addictive” e di altamente emotivo (emozionante almeno quanto può esserlo un film di M. Snow).

Il gigantismo (almeno paragonato alle contemporanee opere di Reich, Riley o Nyman, cui un poco automaticamente Glass venne accostato) è frattanto dilagato dal teatro-danza di Einstein on the beach alle opere-opere commissionate a raffica dai vari teatri (perlopiù d'area germanica) smaniosi di rinnovare un repertorio e catturare nuovi spettatori o almeno limitare la fuga degli abbonati. Se alla svolta degli anni sessanta (dopo la frequentazione di R. Shankar e gli studi in Francia che non gli evitarono l'essere considerato un “musical idiot” da colleghi ed esecutori riluttanti) Glass sembrò partecipare, con il suo studiato insistere sulla componente ritmica e sui processi additivi e sottrattivi per solisti o piccoli ensembles di fiati e tastiere, al radicale ripensamento dei materiali e del legato musicale che venivano costituendo il minimalismo americano, adesso egli è alle prese con la tradizione e la storia in grande stile: si tratti di cultura indiana (Bhagavad Gita, Ramakrishna, Shankar) o di faraoni, di eroi (Colombo) o scienziati (Galilei o Keplero oltre ad Einstein), si fatica a tener dietro agli allestimenti. Una metamorfosi che nel giro di pochi decenni  ha pressochè espunto dalle partiture quella irruente spigolosità ed esplicita ossessività che, a dispetto del suo esibirsi al principio come Philip Glass Ensemble in lofts e gallerie d'arte, l'avvicinava, per potenza sonora, alle esibizioni di rock bands: ne risultava una peculiare versione del suono di N.Y. City che aspirava ad essere riconoscibile quanto quella di Zappa o dei Velvet. Perciò  le “troppe note”(sic) che gli rimproverava John Cage (Moondog, al contrario, gli consigliava di passare più tempo con Bach e Beethoven) hanno fatto comodo, al di là  del lavoro di “pulizia” appreso da Beckett. L'incontro con la nuova danza  americana (i movimenti della vita quotidiana  portati sulla scena da attori in scarpe da tennis) ed un certo spirito di dedizione hanno fatto il resto aiutandolo ad uscire dalla scena autoreferenziale, anche mettendosi al servizio, dove occorresse, di opere preesistenti: è il caso della trilogia ricavata dai film di Cocteau, di cui Glass apprezzava il senso di sviluppo drammatico, scelto come guida per un'indagine sul processo creativo: Les Parents Terribles, Orphée e La Belle et la Bête.

L'orecchiabile semplicità delle sue pagine più note, dopo la seduzione del pubblico di cose contemporanee, passando per la dance-opera ed il cinema (Mishima con Schrader, Kundun con Scorsese, The thin blue line con Morris, ma tutto era cominciato negli anni sessanta con il controverso Chappaqua di Rooks) ne ha fatto il richiestissimo autore odierno, il prolifico sinfonista partito dalla fauna artistica dei garages della New York che non dorme mai ed approdato alle terrazze di Ravello passando per il finto Attico di Sargentini. Se aggiungiamo le collaborazioni, non del tutto felici, con pop celebrities (da Eno e Bowie fino a Ginsberg o Cohen) diamo gli ultimi ritocchi al profilo del musicista di successo che dalla gavetta e dall'auto-promozione con la “Chatam Square” è salito ai piani alti del business musicale: giustamente soddisfatto di non esibirsi più davanti a sei persone, mamma compresa, come agli esordi nel lontano 1968.

Il lungo memoir da poco pubblicato ( Philip Glass, Words Without Music, Liveright Publishing Co. 2015*) è ritmato per luoghi (le città in cui l'autore ha vissuto più a lungo) e incontri decisivi (Shankar, Boulanger, le compagne ma anche la cultura tibetana) ed avrebbe forse guadagnato da un maggiore lavoro di forbici. Nonostante il cognome, la famiglia di Glass, basata a Baltimora, non usciva dalle pagine dei racconti di Salinger. Poca poesia, ancora meno follia, ma tanta gavetta, anche operaia, e dunque non ci si aspettino aneddoti strazianti o koan irrisolvibili. Il Glass di queste pagine, spesso dimesso e per niente esaltato, considera comunque il passato con la mal celata soddisfazione di chi ce l'ha fatta e volgendosi  indietro vede ogni tessera sistemata al giusto posto, proprio come doveva essere, riposato nel rivedere ogni tappa, evento o incontro andare a incastrarsi nel bel mosaico che è una biografia. Nulla d'irrilevante o che non trovi una corrispondenza a distanza d'anni: ad esempio, e non crediamo di travisare il senso di certe righe, gli scappa detto che la lentezza del direttore Furtwängler prepara quella teatrale di Bob Wilson o che la lunghezza delle sinfonie bruckneriane “facilitò” l'esecuzione di quelle di Glass a Linz. Difatti, quello che si affaccia fin dalle prime battute, è un autore per nulla seccato nell'ammettere di essere in viaggio da Sidney verso Parigi, passando per L.A e N.Y. La profezia leggermente sprezzante della mamma (“finirai girando da una città all'altra come tuo zio”) ha mutato segno, nell'accettazione pienamente americana di un beato continuo spostamento.

La popular music ascoltata nel negozio di dischi paterno, nei cui altoparlanti la chitarra elettrica di Buddy Holly mano a mano sostituiva il banjo appalachi, gli insegnò l'importanza della diffusione e riproduzione anche nel cuore di un lavoro artigianale come quello di musicista verso cui si sentiva portato. Quando arrivò quindicenne a Chicago (in quel tempo anche la città di Arendt, Eliade, Algren, Bellow per fare solo alcuni nomi) e notò che c'erano anche studenti neri, capì di aver vissuto fino ad allora, ebreo inconsapevole, la segregazione di Baltimora. (Le radici ebraiche, cui l'autore accenna per un ramo della famiglia, spiccano per assenza nella sua opera, a differenza di un Reich, che periodicamente vi ritorna: Glass sceglie di frequentare il mito classico, soprattutto greco). Nella capitale dell'Illinois fece in tempo a sentire Bud Powell, Charlie Parker e Billie Holiday, prima che i suoi dei diventassero, a New York, i maestri della new thing, Coleman e Coltrane sopra tutti. Da loro derivò, se così si può dire, quell'idea di propulsione, di atletismo, di autoconvinzione spesso associati anche alle sue opere. Ma, ancora, circa l'addestramento alla durata, vanno ricordate certe successive rappresentazioni indiane di “kathakali” tirate per tutta una notte (cui presenziò nei vari pellegrinaggi in oriente) o un exploit come “The Life and Times of  J. Stalin” del solito, e suo futuro coautore, Robert Wilson.

E se Glass ritorna sulla precoce frequentazioni letterarie, non trascura di ricordare la vita dei quartieri bohémiens di cui per anni condivise le difficoltose libertà (lui stesso s'inventò occupazioni da idraulico, trasportatore, tassista pur di non diventare dipendente o funzionario accademico). Dunque decantare le doti di affidabilità della moto BMW (con cui solitamente andava in gita a  Coney Island, oppure nel ripetuto attraversamento degli States, fino a San Francisco) è un modo di rendere omaggio a  Sulla Strada  uscito nel '57. A proposito di formazione letteraria, prediligeva Hesse (come tanti beats, del resto) a scapito del nichilismo “a tesi” dei Sartre o Camus, cui preferiva, ancora prima del soggiorno parigino, le pagine di Genet o Beckett. Un altro insospettato autore di gioventù fu Brecht, il cui teatro frequentò intensamente nella stessa Berlino insieme alla compagna di allora, ma non sarà  immediato trovarne tracce nei suoi lavori (ove se ne eccettuino certe intenzioni didattico-pedagogiche o, forse, lo straniamento- sfasamento di musica e immagine alla Einstein on the beach).

* il libro è stato tradotto in italiano da il Saggiatore (Parole senza musica. La mia vita, 2015)