Quello che segue è il saggio di
carlo Romano approntato per il catalogo della mostra che Giuliano Galletta ha
tenuto nell’ottobre-novembre 2007 al CAMeC di La Spezia diretto da Bruno Corà
Carlo Romano
Giuliano Galletta
aveva…
Giuliano Galletta aveva di che essere contento. Prendeva la vita per il verso giusto, ammesso che ci sia un verso per prenderla. Ciò che tentava di intraprendere andava a buon fine, cosa che in un temperamento diverso avrebbe sortito un senso non del tutto ingiustificato di onnipotenza. Ma Galletta aveva un cruccio, benché insufficiente a fare di lui un carattere tormentato. Conviverci non fu difficile e ancor meno difficile fu confessarlo, una mossa che d’altra parte si dice renda poi tutto più semplice. Per sua stessa ammissione si sentiva completamente privo di talento, e ciò poteva sembrare un guaio per chi a un certo punto - fra l’altro precoce – sentiva crescere in sé la vocazione dell’artista. A Galletta non interessava più di tanto - anzi, non gli interessava affatto - quell’ebbrezza che porta a credere di fare della propria vita un’opera d’arte, semmai cercava di vivere da artista quanto andava facendo. Ciò che lamentava in fatto di talento scoprì non essergli di ostacolo e se anche si imbatté in certe confortevoli dichiarazioni dell’amato Samuel Beckett, egli si era già tirato su il morale per conto proprio.
Da tempo immemore alle arti visive non si chiedevano più le capacità di un Raffaello o di un Ingres. Fra gli altri, Marcel Duchamp, un artista al quale senz’alcun dubbio un certo talento tradizionale non mancava, aveva preso a lasciarsi alle spalle i pennelli preferendogli la vita comoda e il gioco, dimostrando che bastavano poche ideuzze per niente faticose a fare dell’arte. Non fu il solo e non fu il primo. Nell’epoca vivace in cui nell’arte tutto sembrava eresia, non era nemmeno il più in vista. Quando Galletta scoprì la sua vocazione, Duchamp, benché non da molto, era già morto, tuttavia la sua reputazione era alle stelle e riferirsi a lui costituiva una fonte di legittimazione. “Le posizioni eretiche”, ha scritto il noto divulgatore dei principi religiosi cattolici Vittorio Messori, “sono come quelle erotiche: poche e ripetitive”, con ciò a quelle erotiche ci si continua solitamente a dedicare senza noia, meno a quelle eretiche, le quali strada facendo perdono smalto, salvo conformarle in una speciale dottrina, e a quel punto interessano soprattutto sparsi individui che condividendola (la dottrina) sembrano trovarvi un senso di potenza e di distinzione dall’uomo comune che non trovano nel lavoro appagante e nella famiglia felice che magari hanno (e ciò potrebbe dirla lunga sulla famiglia e sul lavoro, chissà).
Galletta si svegliava all’arte proprio quando questo carattere dottrinario era, come Duchamp, alle stelle. L’arte – vale a dire gli artisti, i critici, le riviste, le gallerie “che contano” – aveva assunto più l’atteggiamento di chi comanda di quello che, eventualmente, suggerisce, cosicché tutto sembrava rientrare, anche quando non c’entrava affatto, negli assiomi spesso cupi, ma anche ridicoli, delle “concettuali” tendenze dominanti. Era persino difficile resistere al canone, eppure, magari con prudenza, riconoscendo il buono quand’era il caso, succedeva. Se Galletta ne fu risparmiato lo dovette innanzitutto alla peculiare vena poetica, che del resto, parsimoniosamente, palesava anche attraverso i versi “lineari”, non soltanto rasentando la “Poesia visiva”.
Fin dal principio fu chiaro che Galletta non voleva mostrare al mondo altri mondi, di cui non gli mancava d’altra parte la cognizione, ma soltanto se stesso. Scelse l’arte, per così dire, come forma dell’autobiografia. In quello stesso momento la sua confessione circa il talento assunse contorni paradossali: non ne ha per l’arte, la fa, dunque il talento ce l’ha. “Tutto quel che dico è falso”, asserisce un noto paradosso. Se è probabile credere a un Galletta avvinto in queste inestricabili contorsioni, lo è altresì prendere alla lettera la sua ammissione. C’è per giunta da considerare che con questa volesse fare semplicemente il punto sulla condizione dell’arte (e non solo) tracimando la propria autobiografia in quella di tutti. Non si può soprassedere infine sull’ipotesi che Galletta, altrimenti amabilmente felice, possa essere nient’altro che pessimista. Esserlo non vuol dire trascorrere una vita disastrata e priva di allegria, significa porsi delle domande (classicamente sul bene e sul male) che non sempre trovano risposta e consolazione. Nell’opera di Galletta – si tratti di quella visiva, di quella poetica centellinata sfiorando l’epigramma, di quella giornalistica e intellettuale in genere - c’è allegra ironia e c’è infatti (com’è nell’ironia, allegra o meno che sia) pessimismo. Pensandoci, non mi viene in mente il nome di un artista d’oggi che sia sinceramente pessimista. Galletta, così su due piedi, mi pare l’unico.
Giungendo all’attuale mostra, colpisce come elemento risolutivo la vecchia tuta spaziale di un astronauta della ingloriosamente finita Unione Sovietica. Diventa complicato anche soltanto vagheggiare in questo caso qualcosa di autobiografico, non essendo Galletta né russo né tantomeno astronauta. Potrebbe semmai abbozzare uno di quei sogni infantili per cui con sicurezza intorno agli otto anni si decide di fare il pompiere o il corridore automobilistico. Il ricordo del mondo diviso in blocchi partigiani che, a un certo punto, per la gioia delle masse, competono coi loro programmi spaziali è un’altra immagine verosimile dalla quale, volendo, si potrebbe far discendere l’idea che poi quei blocchi nella sostanza tanto diversi non lo erano. In un’ulteriore concessione interpretativa, si andrebbe a vedere colmato il rapporto tra ideologia e realtà nel rimescolio di quello fra arte e verità.
Gli artisti sono comunque tali anche per l’uso spregiudicato ed esoterico delle metafore, e non sempre è dato decifrarle. Molte volte è anzi conveniente non farlo poiché (come nei casi suddetti) si resterebbe delusi. Quanto alla verità, se veramente Galletta, come si è detto, è pessimista, il problema se lo dovrebbe porre in maniera molto lasca e per niente assertiva. Il dolore che c’è dietro alle immagini gioiose di contorno alle vecchie imprese spaziali sovietiche non gli è ovviamente sconosciuto, ma resta fuori dal raggio della mostra – a meno che non si vogliano considerare le macerie che sottolineano il suo titolo, Hotel de l’avenir, come il suggello di quel dolore. Per altro, questo nome non rimanda solo a qualcosa come un antico falansterio fourierista o all’illusoria delizia di un futuro miseramente crollato: c’è nei fatti, attivo ed operante, un lussuoso albergo parigino che lo riporta.
In un contesto dell’arte che non ha esitato a rappresentare un ammiccante ribrezzo – lusingando una certa categoria di malinconica, conformistica e inguaribilmente superba clientela – quella di Galletta è l’espressione non conformista di quello che, poco o tanto che sia, sa fare con le proprie occasioni e le proprie ossessioni. Nient’altro. L’avenir non ha hotel diverso da quel che siamo. Ieri e oggi sono trattati in questa mostra nel viluppo stentato di un personale flusso di coscienza che è l’ordinaria immersione quotidiana nel disordine delle immagini. Che ognuno poi ci veda quel che vuole, Gagarin o macerie.
Rispetto alla dimensione astronautica, l’altro e più appartato elemento, strategicamente laterale all’allestimento della mostra, pare aver maggior schiettezza di autobiografia, sia pur intitolandosi a una “ragazza con la giacca a vento rossa” per buona creanza è consigliabile non indagare troppo, qualora si supponesse una lontana storia fra ragazzi e ragazze. Il colore della giacca è tuttavia inequivocabilmente collegato al mondo che fu della tuta spaziale e a questo punto, benché gli elementi del discorso si contino in misura accettabile, si rischia ciò nondimeno la baraonda, per cui mi par opportuno tener presente la massima di Joseph de Maistre: “il capolavoro del ragionamento consiste nello scoprire il punto in cui bisogna cessare di ragionare”. E, per realizzare ogni tanto anch’io un capolavoro, lo faccio. Credo che Galletta apprezzerebbe. Ancor più credo che apprezzi, come chiusa, questa volta di Karl Marx, un’altra citazione, altrimenti passibile di esser posta ad esergo: “chiedere agli essere umani che abbandonino le illusioni riguardo alla loro condizione, equivale ad esigere che una condizione bisognosa di illusioni sia essa stessa abbandonata”.