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Giuliano Galletta

il giovane Sanguineti, Anceschi, Ungaretti e altro

“Avendo ripreso energicamente a comporre versi, e proprio di quelli scritti con il cuore di una volta, leopardianamente, Lei non può credere alla fatica notturna, per la vita mia diurna dissipata laboriosissimamente, onde strappare al sonno quel poco di tempo che mi giovi a strappare l’urgenza del mio ultimo fantasticare, travagliato e nero, appassionato e nuovissimo, al quale mi afferro con un rancore che è anche più vivo della fiducia: non creda che io sia orgoglioso del mio scrivere recente: sono gli aggettivi che impiego di pura superstizione e, appunto, di puro rancore; ma scrivo, e mi basta; dolorosamente, e mi basta; non è consolazione, nemmeno; è ancora e€sempre rancore, e un poco dispettoso e bizzarro”. Era il 29 gennaio del 1958 quando Edoardo Sanguineti relazionava sul suo stato creativo a Luciano Anceschi in una “epistolona”, come la definisce ironicamente Sanguineti, che è in realtà un piccolo capolavoro letterario, una lucidissima dichiarazione di poetica. “In un certo senso” scrive ancora Sanguineti “credo la mia poesia non sia destinata mai ad uscire da una fase sperimentale, in un altro senso, la credo, per contro, nascere proprio come perpetuamente uscente, se così posso dire, da una fase sperimentale consumata all’interno della poesia stessa, ma non mai in modo tale, s’intende, che non i segni manifesti (e provocanti, abbiano a che vedersene intenzionalmente)”.

Questa lettera è soltanto una delle suggestive scoperte contenute nel volume “Lettere dagli anni Cinquanta” (De Ferrari, 277 pagine, 18 euro) in cui Niva Lorenzini - docente di Letteratura italiana all’università di Bologna e profonda conoscitrice dell’opera sanguinetiana - ha raccolto il carteggio del poeta con il grande critico Luciano Anceschi. Si tratta di una selezione di 158 lettere - su un corpus di 284 conservate nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna - che vanno dal 30 aprile 1954 al 4 gennaio 1961. Quando la corrispondenza ha inizio Sanguineti ha 24 anni ed è studente universitario a Torino, allievo di Giovanni Getto e al lavoro sulla tesi di laurea dedicata a Dante, ma già attivo come saggista e poeta; Anceschi ha 43 anni ed è già un per affermato intellettuale, massimo esperto dell’ermetismo. Sono anni cruciali l’opera di Sanguineti - e la vita (il matrimonio, i figli, l’insegnamento) e molte delle lettere hanno il ritmo, il furore citazionistico, il gusto per la l’impostazione grafica delle sue poesie - ma anche plurilinguistico e letteratura italiana in cui sta lentamente maturando la “rivoluzione culturale” degli anni Sessanta di cui proprio Sanguineti sarà uno dei protagonisti. Due sono i fatti emblematici di tale fase, il primo è l’uscita di “Laborintus” - pubblicato nel 1956 in una collana diretta da Anceschi - la raccolta di Sanguineti che costituirà uno spartiacque nella poesia italiana del Novecento; l’altra la polemica fra lo stesso Sanguineti e Pier Paolo Pasolini, l’anno successivo.

«“Laborintus” suscitò molte inimicizie nei confronti di Anceschi, lui grande promotore di Quasimodo, perché fu considerato una specie di tradimento» racconta Sanguineti «Il rapporto con Pasolini cominciò bene; lui fu uno dei pochi a recensire il libro su una rivista romana e ricordo che fu Giorgio Manganelli, che allora avevo appena conosciuto, che mi segnalò l’articolo. La recensione non era del tutto negativa, definiva la mia poesia notevole anche se leggermente quatridiana, termine che si riferisce alla resurrezione di Lazzaro, intendendo dire che io avrei recuperato stilemi di avanguardie ormai sepolte». Le cose si complicano circa un anno dopo quando Pasolini chiede a Sanguineti due poesie da pubblicare su “Officina” ma a sorpresa le inserisce in una “Piccola antologia neo-sperimentale” affiancandole ad un suo testo interpretativo. «Sostanzialmente Pasolini usava le mie poesie per dire che il vero sperimentalismo era il suo, accusandomi di epigonismo. Decisi così di rispondergli inviando ad “Officina” il mio testo “Una polemica in prosa” che in realtà era scritto in terzine di endecasillabi». La poesia di Sanguineti risulta tanto dura nei contenuti quanto ironica nello stile che riprende parodicamente proprio i seriosi endecasillabi pasoliniani delle “Ceneri di Gramsci”. La pubblicazione scatenò innumerevoli polemiche e sancì la rottura fra i due: qualcuno ritiene anche che sia stata all’origine della chiusura di “Officina”.

«In realtà pochi anni dopo la neoavanguardia obbligò lo stesso Pasolini, ma anche Moravia, Montale o Zanzotto, che aveva definito “Laborintus” il risultato di un esaurimento nervoso, a modificare il loro stile le loro prospettive letterarie» prosegue Sanguineti «il mio dissidio con Pasolini però andò avanti e divenne successivamente tutto politico. Scrissi un articolo molto duro su “Paese Sera” in cui criticavo, come reazionarie, le sue posizioni di nostalgia di un mondo pre-moderno, illusoriamente intatto, l’idealizzazione della plebe, del sottoproletariato. Da un punto di vista marxista la sua vicinanza al Partito comunista mi pareva un grande equivoco».

Unica eccezione fra l’estasblishment letterario alle condanne dello scandaloso “Laborintus” fu il poeta Giuseppe Ungaretti.

«Quando lesse il libro» rievoca Sanguineti «si entusiasmò davvero, mi scrisse e decise di presentare e sos

tenere il mio libro al premio Viareggio. Le nostre poesie non avevano naturalmente nulla in comune, se non, forse, solo il fatto di essere “difficili”; ma la difficoltà era del tutto diversa dalla mia. Ciononostante Ungaretti amò le mie poesie forse in ricordo di quando a Parigi aveva frequentato le avanguardie. Fu poi lui a invitarmi agli incontri letterari di Cerisy-la-Salle. Tornai altre volte in Normandia dove conobbi il gruppo di Tel Quel e incontrai Octavio Paz (premio Nobel per la letteratura nel 1990, ndr) che anni dopo mi avrebbe invitato a Parigi per realizzare, da Gallimard, l’opera poetica collettiva “Renga” con lui, Roubaud e Tomlinson».

Spiega ancora Sanguineti: «Rispetto alle precedenti, la nostra generazione ha avuto la fortuna di essere esentata sia dall’orgoglio che dalla vergogna della poesia, per considerarla una possibilità umana come un’altra. Non dicevamo, ungarettianamente, “sono un poeta, sono un grumo di sogni...” e neppure con Gozzano “mi vergogno di essere un poeta”».

«A quell’epoca in realtà io provavo un sentimento che definirei di rivolta anarchica» conclude il poeta «che non era un’anarchia politica ma un’anarchia assoluta: niente principi, non ci sono modelli, gerarchie di stili, di oggetti, fine. Questo principio credo sia all’origine di tutta la grande arte moderna. L’esito politico, poi, può essere diverso: a destra come Pound, Eliot, Céline, o a sinistra come Brecht, i surrealisti, Picasso. Ma quello che li accomuna è il fatto di essere uomini in rivolta».

“Il Secolo XIX”,  20 ottobre 2009