Giuliano
Galletta
Adorno e Celan
“La critica della cultura si trova dinnanzi all’ultimo
stadio della dialettica di cultura e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz
è barbaro e ciò avvelena anche la consapevolezza del perché è diventato
impossibile scrivere oggi poesie”. Questa celebre frase del filosofo Theodor W.
Adorno, di origini ebraiche, scritta nel 1949 – poco dopo il suo ritorno in
Germania dall’esilio americano - è stata discussa, quasi sempre per confutarla,
per tutto il corso della seconda metà del ’900. Segno che un’affermazione così
radicale andava a toccare uno dei punti chiave del dibattito sul rapporto fra
intellettuali e società, dove i primi percepiscono il senso profondo di una
sconfitta epocale di fronte al nazismo prima e alla cultura di massa dopo. Nel
corso degli anni successivi Adorno avrebbe chiarito meglio la sua posizione e i
fraintendimenti a cui, secondo lui, era stata sottoposta, ma alla fine
ammettendo che si trattava di un errore. Nel 1966 scriveva infatti: “Il dolore
incessante ha altrettanto diritto di esprimersi quanto il torturato di urlare;
perciò forse è sbagliato aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere
poesie”.
Nei diciassette anni che separano queste due
affermazioni si inscrive il rapporto tra il filosofo e il poeta Paul Celan.
Quest’ultimo, ebreo rumeno di lingua tedesca, sopravvissuto al lager dove
morirono i genitori, fu probabilmente l’intellettuale che visse nel modo più
lacerante la sentenza adorniana, lui che del ricordo della Shoah aveva fatto
uno dei punti centrali della sua opera, intesa anche come possibilità di
salvezza dall’indescrivibile orrore. “La poesia” scrive Celan “in virtù della
sua essenza, e non della sua tematica, è una scuola di umanità vera: insegna a
comprendere l’altro in quanto tale e cioè la sua diversità; invita alla
fratellanza e contemporaneamente al profondo rispetto dell’altro, anche là dove
questi si manifesta come deforme o con il naso adunco”.
La ricostruzione del rapporto fra Adorno e Celan,
quasi esclusivamente epistolare, è al centro del libro di Paola Gnani Scrivere poesie dopo Auschwitz
(Giuntina, €15), un saggio che disegna anche
con documentata accuratezza l’ambiente degli intellettuali tedeschi nel
Dopoguerra. In questo quadro l’autrice racconta l’emblematico episodio del
primo incontro, avvenuto nel 1967, fra
Celan e Martin Heidegger, il filosofo che aveva aderito al nazismo e che però
definiva Celan “il più avanzato di tutti e il più trattenuto di tutti”. “Al
momento di incontrare Heidegger” scrive
Gnani “Celan avrebbe dovuto tenere il più possibile disgiunto il pensiero dalla
vita del filosofo. Il problema era decidere se e come ci sarebbe riuscito”. Il contatto
avvenne prima di una lettura dei versi di Celan nell’atrio dell’auditorium
dell’università di Friburgo, ma nel momento in cui qualcuno cercò di
immortalare l’evento in una fotografia “Celan” scrive ancora Gnani “si
allontana con uno scatto repentino dichiarando che non voleva assolutamente
essere fotografato con il filosofo. Anche un ulteriore e più lungo incontro,
una passeggiata sotto la pioggia verso la baita di Heidegger a Todtnauberg
nella Foresta Nera, non soddisfò la speranza di Celan di capire che cosa avesse
spinto Heidegger verso il nazismo.
Fra rese dei conti e sensi di colpa intellettuali
compromessi, esiliati o perseguitati, antifascisti o revisionisti, nella
cultura tedesca dell’epoca, e non solo, tutto si misura guardando
all’Olocausto, “Nella poesia di Celan” spiega Enrico Testa, poeta e critico
letterario “il monito di Adorno si rovescia in una ricerca paradossale ed
estrema. Auschwitz, il male storico, diventa il passaggio per un nuovo percorso
della parola. È come se l’aria gelata che ci è toccato inspirare, attendesse
ora un’espirazione - una svolta del respiro - che restituisca come poesia la
realtà. Al centro di questo progetto, che va oltre l’interdizione adorniana,
sta il compito di interpretare il muto messaggio dei morti, dei “sommersi”. Nel
corso della sua opera Celan affronta questo compito seguendo, per così dire,
due strade di invenzione poetica, “scendendo verso il basso” prosegue Testa
“andando incontro agli scomparsi, entrando nel mondo delle vittime, da un lato,
e, dall’altro, attendendo, quasi sognando, l’arrivo di una voce di là”. Nella
sua storia poetica l’arte riacquista così un obiettivo: quello della
memorabilità (e della responsabilità), del tenere a mente i fatti, del dare
significato alla “memoria”.
Celan non è però solo il poeta della Shoah,
indimenticabili le poesie di tema familiare o quelle, bellissime, dedicate
all’amore coniugale. Si trovano in lui sia i sentimenti privati, il “piccolo”,
sia gli eventi storici trasfigurati, il “grande”. “Così la madre trucidata”
prosegue Testa “è sia quello che è stata
sia il simbolo di tanti anonimi “sommersi”. In questa singolare complementarità
sta la forza di Celan, che gli permette di evitare sia il minimalismo che la
retorica dei grandi argomenti. In entrambi i casi, la parola lotta con il
silenzio e - almeno per un certo periodo della sua storia - non cede ad esso e
al nichilismo: è una parola conquistata nel gorgo muto della vittime -
“conquistata tacendo”.
Con questa poetica Celan si sottrae alla tradizione
lirica imperante nel Novecento, proponendo una torsione anti-sublime del
sublime letterario. “Basti pensare ai suoi ultimi anni con la poesia che si fa
sempre più oscura sino al limite dell’afasia” conclude Testa “sconfitta
dall’illeggibilità del mondo, e ròsa
come in Primo Levi dal sentimento del rimorso dello scampato, dalla colpa di
chi resta”. Ed è la condizione dei “salvati” che torna proprio in Adorno nel
momento in cui il filosofo spiega come la poesia di Celan sia riuscita a
superare il suo errato interdetto ma allo stesso tempo ne dà un’interpretazione
più nuova e più estrema. “Invece non è
sbagliato” scrive Adorno “sollevare la questione meno culturale se dopo
Auschwitz sia ancora possibile continuare a vivere e soprattutto se lo possa
chi vi è sfuggito per caso e di norma avrebbe dovuto essere liquidato”. Quattro
anni, il 20 aprile 1970, Paul Celan si sarebbe suicidato gettandosi nella
Senna.
“il
Secolo XIX”, 23 gennaio 2010