Wolf Bruno

marxologia dellavvenire

Diego Fusaro: IL FUTURO È NOSTRO. Filosofia dell’azione. Bompiani, 2014 | Diego Fusaro: ANTONIO GRAMSCI. La passione di essere nel mondo. Feltrinelli, 2015

Ricorre con imbarazzante insistenza nel quarto volume di Fusaro pubblicato da Bompiani la locuzione “con la grammatica di” - e se una volta si tratta di Pinco, l’altra è di Pallino ma anche, per tacere di Sempronio, di Tizio e Caio. Benché una simile proliferazione non possa sfuggire, entro la sua cornice ho però notato – per star dietro all’autore – una sola sintassi, quella, se ancora si dice così, del magistero hegelo-marxista, ancorché scomposto in due filoni, uno scopertamente marcusiano sul piano dell’osservazione critica e uno gramsciano/gentiliano su quello dei fini ultimi. Ci si ritrova così a dondolare fra il deprecato "consumismo" che avvelena l'anima prima delle tasche e il "divenire dello spirito" che assicurerà la terra ai giusti.

Il "consumismo" non ha mai avuto buon nome ma era da tempo che non leggevo la sua deprecazione esposta con tanta acribia (se non "nell'alluvione mediatica" di Cristoph Türcke). Fusaro, che allo stesso tempo depreca l'allentarsi dell'assistenzialismo, sembra non rendersi conto del rapporto presente - anche per quel che c'è di storicamente documentato - fra il consumismo e lo "Stato sociale". Non dovrebbe per altro ignorare che, mentre i liberali puri utilizzavano il paradigma della scarsità per giustificare l'accumulazione privata della ricchezza, John M. Keynes, l'intellettuale di maggior autorevolezza nella stagione degli aiuti statali, amava ripetere come, a differenza del risparmio, fosse il vizio del consumo privato a generare la virtù pubblica. Il punto non è tuttavia questo.

Che un essere vivente consumi a piacere i prodotti che più gli aggradano dovrebbe far parte delle personali preferenze. Il biasimo del “consumismo” si appoggia tuttavia sulla deduzione che a queste sia negata una vera scelta la quale in primo luogo sarebbe  determinata da incombenze come la pubblicità fino ad assorbire insieme alle scelte le facoltà critiche, generando uomini “eterodiretti”, omologati al grado supremo fino a perdere di vista le sacrosante ragioni che avrebbero per avversare il “sistema”.  Venendo a mancare fra gli uomini un soggetto oppositivo trainante, Fusaro lo ritrova – come Fichte o Mazzini - nello Stato, chiudendo così l’analisi “marcusiana”, foriera di ingenuità libertarie, per snodarsi in quella gentiliana. Del mazziniano Gentile, viene da rilevare. Dopotutto Fusaro segue, almeno in parte, le orme del suo maestro dichiarato al quale, nell’anno della scomparsa, dedica ancora una volta un libro. Alludo a Costanzo Preve, un filosofo di vaglio che, dopo la rovina dei regimi moscoviti ribattezzati “il comunismo storico novecentesco”, fece fare a un marxismo nel quale tentava in qualche modo - poche idiosincrasie a parte - di salvare tutto sul piano “teorico” - i teorici fossero pure Stalin o Mao Tse Tung - un salto geopolitico-comunitaristico che ricorda, fra l'altro, la Jeune Europe e il Parti Communautaire Européen di Jean Thiriart, interessanti formazioni che negli anni sessanta aspiravano a superare l'ideologia neofascista dell’area di provenienza (in Italia le fu vicino il bravo Franco Cardini) ma che significava negli anni più vicini allinearsi a quel filone emerso in opposizione alle nuove impertinenze dell'individualismo capitalista fra i cui maggiori esponenti si videro, all'inizio, l’austero e ostico tomista Alasdair MacIntyre e il canadese Charles Taylor, coinvolti – insieme al relativismo identitario di Alain De Benoist col quale Preve dialogava volentieri - nel voler ricollocare l’individuo in un contesto realistico  di contro all'uso strumentale (strumentalmente atomistico) fatto dal liberalismo.

L'individuo è una congerie di relazioni, nulla da eccepire su questo piano. Neppure mi trova distante l'esercitazione geopolitica di Fusaro nell'ultima parte del libro che anzi scopro, per quanto non originale, azzeccata. Ciò per cui divergo è l'idea che se l'opposizione non si manifesta in termini di visibile, e in fin dei conti irreggimentata, solidarietà essa smetta di esistere. Il che significa sacrificare gli individui concreti, qui e oggi, magari con le loro alienate ed alienanti passioni, sull'altare dell'individuo puro e genuino che spunterà dalla comunità futura finalmente realizzata. Il che, stando a Fusaro, se avverrà - a parte che avverrà in quell'arcinoto lungo periodo nel quale saremo tutti morti - avverrà attraverso un'azione astratta rispetto alla condizione normale degli uomini qual è quella dello Stato - fra l'altro percepita generalmente come negativa - e non attraverso l'intrecciarsi, sotto gli occhi di tutti, delle vicende umane, buone o cattive che siano, e della loro influenza sulla società. In questo senso stimo la distinzione fatta a suo tempo da certi vecchi marxisti fra "il partito formale", che ha consapevolezza della storia, e "il partito reale", che si muove nella quotidianità e vi coincide, più aderente alla totalità dei rapporti umani della totalità di un'emanazione che andrà compiendosi chissà quando e chissà dove, tanto che Fusaro, per sostenerla, deve usare parole dure nei confronti dello scetticismo. Certo, ricordo, " pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà", ma "la volontà" di chi? Ieri era quella del "moderno Principe" - il partito leninista-gramsciano, incarnazione del “cesarismo progressivo” - oggi è quella dello Stato nazional-popolare. Il "comunismo storico novecentesco", argomenta Fusaro, si supera così!

Il carico completo dello svolgimento storico atteso da Fusaro prevede tuttavia anche altri elementi, seppure ausiliari. Per prima cosa ci si dovrebbe sbarazzare della vecchia dicotomia fra destra e sinistra, del resto giudicata inservibile e fuorviante da un bel po' di commentatori. A me lascia indifferente (o potrei anche essere d'accordo, ma qualificare tutti i politicanti come uniformemente collocati in una qualsiasi delle due posizioni onestamente mi solletica onestamente mi solletica). Altro elemento è quello dell'asprezza critica nei confronti del "sessantotto" colpevole non tanto per la quantità sesquipedale di scempiaggini dette e pubblicate in assemblee e documenti vari ma per aver aperto la strada a una fase nuova del capitalismo caratterizzata dall'accantonamento della sobrietà borghese, il che significa in fin dei conti, senza che Fusaro sembri avvedersene, affermare un suo intrinseco vigore, anche se misurato nelle impreviste ricadute, come del resto è successo per tanti processi definiti "rivoluzionari". C'è infine il dileggio del materialismo e dell'ateismo (in particolare di Piergiorgio Odifreddi) che sembra non debbano meritare la medesima sorte di cittadinanza culturale di quella fede religiosa della quale si prendono facilmente gioco con un buonumore in genere sconosciuto all'altra. Rifletto: questi elementi sussidiari non sono forse oggi così strillati un po' dappertutto da far pensare al consumismo intellettuale? Se le cose stanno così Fusaro deve esser rimasto vittima dei suoi raggiri.    

“Fogli di Via” n.16-17, marzo-luglio 2015