Pierangelo Castagneto
Joe Frazier (1944-2011)
Sembra di vederlo ancora, come
sempre, avanzare, ondeggiando, sbuffando, evitando i colpi, ingobbito, cercando
di portare il suo mortifero gancio sinistro che spedi’ al tappeto molti dei
suoi avversari. Come quella notte di New York, al Madison Square Garden, quando
a cadere davanti a lui fu the Greatest. Quella sera, l’America Bianca aveva
tifato per lui, per un afroamericano, come era gia’ successo nel 1938, quando
un altro peso massimo afroamericano, Joe Louis, aveva sconfitto in nome della
democrazia Max Schmelling, l’ulano nero del Reno, ariano simbolo dell’avanzante
nazismo.
Nato a Laurel Bay, Beaufort, in
Sud Carolina, da un famiglia di agricoltori, Joe Frazier aveva imparato presto
l’arte del combattere, fuori e dentro al ring. Si racconta che, quando era
ragazzino, un grosso maiale lo insegui’ nel cortile; Joe cadde malamente sul
suo braccio sinistro. Poiché la famiglia non poteva permettersi di pagare un
dottore, il braccio guarì da solo, rimanendo però leggeremente curvato
all’indietro. Come un’arma carica, pronta a colpire.
Nei primi anni Cinquanta, il
pugilato americano poteva offrire un ventaglio di campioni di ineguagliata
bravura: leggende del ring quali Sugar Ray Robinson, Rocky Marciano, Jack La
Motta, Willie Pep ben presto divennero gli eroi del piccolo Joe che poteva
seguire le loro imprese trasmesse dai televisori allora da poco disponibili. Nel
1958, Joe decise di lasciare le magre prospettive che il cotone e le angurie
della Carolina potevano offrire e raggiunse il fratello Tommy a New York. Da
qui a Philadelphia dove sotto la guida del maestroYancey "Yank"
Durham, Frazier iniziò la sua carriera pugilistica. Come dilettante
il suo score fu eccezionale: un solo match perso in tre anni di attivita’. Alle
Olimpiadi di Tokio, nel 1964, vinse la medaglia d’oro, nella categoria dei pesi
massimi. In finale, con il pollice sinistro fratturato, affrontò un possente meccanico
tedesco, dieci anni più vecchio di lui, che in semifinale aveva sconfitto il
nostro Giuseppe Ros. Non potendo contare sulla sua arma migliore, Frazier vinse
col destro.
Il passaggio al professionismo
avvenne l’anno successivo. Frazier inanellò una lunga serie di vittorie prima
del limite, spesso grazie al gancio sinistro preparato dal maiale, fino alla conquista, nel 1970, del titolo di
campione del mondo dei massimi, quando sconfisse Jimmy Ellis. Fra le sue
vittime, pugili di vaglia quali il roccioso argentino Oscar Bonavena, l’indomito
canadese George Chuvalo e il californiano Jerry Quarry. Poi venne la notte di
New York. Frazier non perdono’ mai fino in fondo Alì. Nel loro terzo, epico
incontro, “The Thrilla in Manilla”, nelle Filippine del dittatore Marcos, il
labbro di Louisville lo derise e lo sbeffeggio costantemente con pesanti
insulti razziali, chiamandolo Uncle Tom, paragonandolo ad un gorilla. Era lui a
sentirsi il paladino degli afromaericani, con la sua conversione all’Islam
esibita con clamore ad un’America ancora divisa dalla linea del colore. Solo
qualche tempo prima, nel 1966, quando Alì venne privato della licenza pugilistica
per essersi rifiutato di andare in Vietnam, Frazier lo aveva sostenuto in ogni
maniera chiedendo addirittura al presidente Nixon che fosse perdonato. Ma a
Manila, Alì non mostrò alcuna riconoscenza. Dopo quattordici, feroci riprese, Eddie
Futch, l’allenatore di Frazier, impedì al
suo protetto, ormai cieco per i colpi ricevuti, di continuare. “La cosa più
vicina alla morte che abbia mai provato”, avrebbe poi commentato Alì, parlando
di quel match. Dopo quell’incontro la carriera di Frazier può considerarsi
chiusa: un altro terribile picchiatore, George Foreman, gli inflisse l’ultima
sconfitta.
Sfuggendo da un cliché che lo
voleva introverso e schivo, negli anni Settanta, Frazier aveva tentato una carriera parallela in campo
musicale. Con il suo gruppo di r&b, i Knockouts, incise alcuni singoli, non
memorabili invero, per la Motown e la Capitol, esibendosi anche al Cesars
Palace. Fino al suono dell’ultima campana, Joe Frazier visse nella palestra che
portava il suo nome, a Philedelphia, ricordando quella notte di marzo, mimando
per i nuovi e vecchi discepoli della nobile arte quel fantastico gancio,
quell’indimenticabile quattordicesimo round. Il match del secolo.
“il Secolo XIX”, novembre 2011