Il saggio qui riproposto accompagnava la sezione
italiana della mostra Promuovere l’alluvione, dedicata a Fluxus nel 1997
Carlo
Romano
Fluxus, Italia
Se una cosa nasce o attecchisce in Germania,
anche quando fa riferimento al mondo classico, è "romantica" e
"idealista". Lo spirito e "la casa dell'essere" non può che
edificarsi a nord delle Alpi. Il tempo in cui a lambire detta casa erano le
acque dell'Egeo è rovinosamente tramontato così da consigliare la nuova patria.
Di edifici meno ambiziosi, ma sicuramente confortevoli, trasportati pietra su
pietra da un posto all'altro si ha esperienza un po' dovunque. Unica, come quella
tedesca, è semmai l'esperienza italiana, dove una casa è stata trasportata
addirittura dagli angeli. Per quanto la sua Inquilina si trovasse in prossimità
dell'essere (nel caso se ne desse un'interpretazione teologica) l'essere
tuttavia non era.
Prediletta che sia dalla
Madonna, l'Italia se non ha fama di devozione, ce l'ha di paganesimo. Il paese
è del resto quello dei Rinascimento, quando a rinascere, insieme al paese,
erano gli antichi dei. Di fama, a questo proposito, gliene è venuta assai. Ciò
non toglie che se fama ne ha tanta a questo proposito, altrettanta è venuta
all'Italia come paese della Controriforma e del Barocco. Il paganesimo dunque,
se veramente vi sopravvive, ha qui una natura ambigua e corrotta.
L'interpretavano bene quel turisti d'antan cui l'Italia era cara soprattutto
per i suoi giovinetti. E giusto dal Rinascimento, o giù di lì, che certe
inclinazioni sessuali vengono definite altrove, in Europa, "amore alla
fiorentina". Avendo quindi, per farla breve, sì la casa della Madonna, ma non
quella dell'essere, l'Italia (nonostante Gioberti) deve ragionevolmente pensare
di moderare le aspettative e lasciar correre le altrui opinioni. Il
Romanticismo, se ci sarà, sarà minore, come l'ideale modesto.
Che tali conclusioni non
incontrino l'unanimità è scontato. Nessun popolo sarebbe felice di venir
considerato unicamente come un popolo di camerieri e di coiffeurs come è
comunemente ricordato l'italiano. Quantunque in verità non sia una gran
sciagura, le ragioni del dissenso non mancano. Avendo qui da rilevare l'apporto
italiano a un movimento internazionale, Fluxus, si può andare a vedere, per
esempio, un altro movimento che di quelli internazionali è stato il modello,
vale a dire il movimento socialista. Ebbene, in Germania, paese filosofico e romantico
per definizione, il socialismo fu cosa di dottori, pedante e senz'anima. Furono
italiani, viceversa, coloro che per primi (i Labriola e i Gentile) ne trassero
conseguenze speculative. Così di Fluxus, che ha origini americane (fortunati i
popoli che si accontentano di trasportare castelli scozzesi nel deserto!)
sarebbe bello poter dire che pur essendo un movimento (o gruppo internazionale)
caratterizzato soprattutto dall’evento ha riscontrato in Italia una buona
produzione di idee. I fatti sono comunque pochi (meno degli “eventi”) e le
idee, purtroppo, non sono molte di più.
Anche in Italia, come
altrove, negli anni sessanta-settanta si registra l'ascesa di correnti
artistiche pretese "concettuali". Come altrove, anche in Italia,
mentre i risultati sono programmaticamente modesti sul piano estetico, ancora
più scialbi lo sembrano su quello "mentale". Gli scampoli di teoria
dell'arte che qui e là compaiono come enunciazioni sono supponenti quanto
insulsi. I primí vagiti italiani di Fluxus si odono comunque quando ancora
simili correnti non si sono svezzate dalla custodia delle forme essenziali e
"pure" di un'arte astratta rimasticata nelle poche maniere possibili.
Fra il 1959, quando a Milano John Cage, Juan Hidalgo e Walter Marchetti tengono
un concerto, e il 1963, quando Giuseppe Chiari partecipa al festival di
Düsseldorf, avvengono le poche cose che vanno ascritte alla preistoria italiana
di Fluxus. E’ però con la rassegna Gesto e Segno, organizzata da Daniela
Palazzoli alla Galleria Blu di Milano nel 1964, che la particolare fragranza di
Fluxus comincia veramente ad espandersi negli effluvi italiani. In una rara, e
probabilmente unica, veste performativa, vi prende parte anche il vecchio (a
sessantacinque anni si era allora già vecchi da un pezzo) Lucio Fontana. Ciò
che qui tuttavia interessa è che vi partecipano Giuseppe Chiari e Gianni Emilio
Simonetti, i due artisti che, a diverso titolo, coaguleranno quel po'
d'attenzione (per la verità non molta) che anche in Italia viene prestata a
Fluxus. La prima vera manifestazione siglata come gruppo (è del resto
caratterizzata dalla proposta degli Events di "padri fondatori" quali
Maciunas, Brecht, La Monte Young, ecc.) si tiene in ogni caso qualche tempo
dopo, nel 1967, in svariate gallerie d'arte di diverse città. Fra i simboli
addottati nel diversi inviti si trovano un dito nel culo (Milano) e un omino
intento a mollare flatulenze (Genova). Casomai qualcuno avesse interpretato in
chiave scatologica gli effluvi menzionati più sopra, sappia dunque di trovarsi
nel giusto, dal momento che la sua è anche una delle interpretazioni ufficiali
dei termine Fluxus. Nonostante la nobiltà delle intenzioni, saranno tuttavia
altri artisti che, a partire da quel 1967, riempiranno un certo ed influente
ambiente artistico italiano dei loro umori . Nel 1967, infatti, Germano Celant
battezza l'Arte Povera.
Affini alle correnti
internazionali dette “concettuali” gli artisti dell'Arte Povera (ma non tutti)
si distinguono, nei limiti dettati dalla freddezza emotiva che condividono con
la gran parte di esse, per gusto scenografico e propensione estetica.
Caratteristica precipua è comunque l'aver accettato la delega a banditore del
critico-teorico (sebbene non tutti, francamente, abbisognino di tale
copertura). Si tratta, a ben guardare, di una variante artistica della
strategia messa in atto già da qualche anno dalla neoavanguardía letteraria per
acquisire potere in quella che allora si chiamava industria culturale. Celant
non ci mette molto ad ottenere successo. L'Arte Povera (come più tardi la
Transavanguardia) diventa una sorta di viatico per il prestigio internazionale
dell'arte italiana. Eppure, benché di fronte a un fenomeno ben assestato negli
ambienti collezionistici e museali, un qualche sentore di abusivismo non manca
di far capolino. Della vivacità caratteristica degli anni che hanno visto
nascere l'Arte Povera, questa ne è stata solo un aspetto e non il più
importante. Fenomeno elitario (o più esattamente: snob) ha concertato il suo
sviluppo in poche gallerie selezionate, evitando ogni reale, seppur minimo,
dialogo con quanto avveniva (a meno di non considerare tale la sconclusionata e
velleitaria invocazione "guerrigliera" di Celant).
Complessivamente più
interessante, comunque più vitale (tanto da riscuotere ancora consensi
giovanili), è viceversa la grande ondata della cosiddetta Poesia Visiva (o come
diavolo la si voglia chiamare). Divisa in “scuole” (che sono poi frammenti
localistici), spesso ossessionata dalle teorizzazioni (ma in modo più onesto e
meno banale di quello "concettuale") e altrettanto spesso presuntuosa
(benché consapevole della tradizione nella quale si inscrive) la Poesia Visiva
ha dalla sua almeno un poco di quella sostanza che in passato, secondo i modi
di assunzione, poteva aver dato vigore all'avanguardia artistica come alla
goliardia o ai burloni da caffè. E’ quanto basta a conferirle quella porzione
di sentimento del proprio tempo che manca del tutto all'Arte Povera. Sarà
dovuto a semplici questioni di opportunità - e un'autentica attrazione o una
vera conformità sono probabilmente fuori luogo - ma le sedi collettive nelle
quali gli artisti italiani di Fluxus (oltre alle rassegne musicali e di
attività performative) hanno fatto la loro parte sono state in Italia proprio
le mostre di Poesia Visiva. D'altronde quest'ultima - sebbene taluno dei suoi
artefici più pedanti li vorrebbe netti - ha confini variabili, mentre l'altro
non ne dichiara. Una condizione assai favorevole affinché si possano
vicendevolmente scambiare i risultati (cosa che in verità non ha grande
importanza).
C'è da dire che gli
artisti italiani di Fluxus non hanno esercitato alcuna pressione affinché
venissero accolti in un sempre onorevole empireo poetico. Simonetti, che del
poeta avrebbe i mezzi, civetta piuttosto con la musica. Chiari è musicista.
Come è noto, la musica ha in Fluxus, partigiano dell'intermedialità, un po' il
ruolo wagneriano che ha nell'opera d'arte totale.
Sbizzarrendosi, si
potrebbe azzardare che l'una è misura dell'altra. Dall'aneddotica
dell'avanguardia si apprende viceversa che André Bréton aveva dei motivi
(rimasti purtroppo oscuri) per espellere dal Surrealismo anche chi solo
ascoltava musica. Comunque sia, in Italia c'è stato perfino un Fluxus-Bussotti.
Abbiamo invece già menzionato Walter Marchetti, un musicista che nelle vicende
italiane di Fluxus ha una sua importanza anche sul piano organizzativo.
Personaggio schivo (dice di provare "vergogna" all'esecuzione dei
suoi concerti), è vissuto per molti anni in Spagna dove, con Juan Hidalgo, ha
fondato il gruppo Zaj. Congenitamente portato al rigore, in un ambiente nel
quale conclamando l'informalità dei rapporti si facilita l'ascesa dei furbi, è
rimasto prigioniero della sua timidezza. Ciò non toglie (e magari ne è la
ragione) che nel suo lavoro, eccezionalmente (a parte Satie, of course) rigore
ed ironia diventino un'unica cosa. L'esatto contrario di Giuseppe Chiari.
Questo artista
fiorentino ha coltivato l'immagine del pianista tutto genio e sregolatezza,
debitamente scarmigliato e agghindato à l'artiste. Della sregolatezza sappiamo
punto, del genio tutto. La sua estrinsecazione è avvenuta prevalentemente (come
nel francese Ben Vautier, che non a caso proviene dal Lettrismo) in una serie
di scritte (dunque Chiari è anche scrittore) fra le quali la più celebre, e
reiterata, è rimasta quella che dice: l'arte è facile. Perfettamente intonata
allo stile di Fluxus (o alla sua assenza, come viene proclamato) è una frase
tanto profonda, nella sua semplicità, che di sicuro è Zen. Quanto alla sua
forza persuasiva, alle sue conseguenze pratiche, è difficile dare una
valutazione. Ancorché non si possa escludere del tutto una sua funzione
esortativa a produrre autonomamente, in casa, arte contemporanea, il campo nel
quale ci inoltra è decisamente teoretico. Questo è il punto! La frase cerca di
combinare due elementi, creatività ed egualitarismo, che nella vita reale
collidono. Se l'arte, quale epifenomeno della creatività, diventa possibile a
tutti, che arte è?
Tracce di risposta a una
simile domanda si trovano nella vasta produzione saggistica di Gianni Emilio
Simonetti, senonché una personale inclinazione ad affrontare argomenti più
stringenti, e una certa quale osticità sofistizzante della sua scrittura,
rendono spuria la questione sia per i contenuti sia per come è posta. In tale
percorso testuale irto di difficoltà, impregnato di raffinatezze (ma tutt'altro
che languido e molliccio), è nondimeno plausibile trarre pochi ma decisivi
tratti critico-teorici come spunti caratteriali e autobiografici. Per Simonetti
l'arte altro non è che un'attività più o meno remunerativa. C'è, in detta
convinzione, una buona dose di cinismo. Di fatto è come dire che i clienti
dell'arte hanno quello che si meritano. Gli artisti, quando non sono in
malafede, sono per lo più come i loro clienti. Traendovi quale unica virtù il
sostegno alla sopravvivenza, per Simonetti la sfera artistica è nettamente
separata da quella intellettuale. Non consentendo lo spazio di opinare
adeguatamente una sì evidente schizofrenia, non rimane che accoglierla. Quanto
all'artista Simonetti, a dire il vero, non è che, con queste premesse, la sua
carriera sia stata avara di riconoscimenti (fra l'altro su una sua opera
esposta alla Biennale veneziana ha ricamato anche un film comico interpretato
da Alberto Sordi). La sua pseudo-scrittura musicale degli anni sessanta (detta
"mutica" = musica muta) è sufficientemente ricordata nella
storiografia. In essa, come nella produzione successiva, l'abilità compositiva
prevale (Simonetti, nonostante tutto, l'arte "la vuoi far bene")
sugli immancabili esoterismi à l'avantgarde. E un'attitudine, questa, che ha
avuto modo di manifestarsi (direttamente o in collaborazione) in quelle vesti
tipografiche di un trasporto sentimentale, osservabile in Fluxus, nel confronti
delle vecchie avanguardie (e che Simonetti spinge ad investire l'underground)
L'impronta tipografica
di Fluxus in Italia viene data innanzitutto dalla casa editrice ED912 di Sassi
ed Albergoni (svariati manifesti di Alison Knowles, Takako Saito, Henry Flynt,
George Brecht, Ben Vautier, Dick Higgins, George Maciunas, Gianni Simonetti - e
una rivista, ''Bit''). Gianni Sassi diventerà poco dopo l'editore discografico
(Cramps records) di Cage, Marchetti, Hidalgo, Castaldi, Cardew, Stratos
(inoltre riproporrà le vecchie incisioni musicali dei Futuristi).
Successivamente, negli anni ottanta, si metterà alla testa di Milano Poesia
dove Fluxus eserciterà un ruolo preponderante. Da Gino Di Maggio e Giancarlo
Politi vengono invece riproposti, in anastatica, i primi introvabili fascicoli
americani di Fluxus ("CCV3")
Negli anni settanta Gino
Di Maggio inizia un'ambiziosa attività editoriale ("a-beta", svariati
opuscoli e cataloghi), la quale tuttavia travalicherà Fluxus, e un vasto lavoro
espositivo (galleria Breton e galleria Multhipla) che prosegue oggi nel Mudima
(Museo Di Maggio).
E questo è pressoché
tutto.
Dedurre da codesta
sinossi le prerogative delle quali Fluxus si è ammantato in Italia è veramente
difficile. In Francia Fluxus non può essere che francese come in Germania è romantico-espressionista,
contraddicendo in ambedue i casi i dettami dei gruppo-movimento americano (che
è internazionalista e stoico-zen). Difficile, benché un certo negativismo
induca a credere di saperlo fin troppo bene, è anche dir bene cosa sia italiano.
Un'ipotesi da esplorare
è quella che Fluxus in Italia si manifesti all'americana, in modo omogeneo,
dunque, all'ispirazione originaria, al suo centro di l'irradiazione. Ipotesi
ardita, senz'altro, che presta il fianco all'accusa, tremenda, di una supina accettazione
dell'ingordo colonialismo culturale americano. Per maggior chiarezza è
opportuno ricordare che fino ad oggi non si è parlato ancora in Italia di quote
di ingresso relative a Fluxus come se ne è parlato per il cinema, la
televisione e la musica. Ciò può voler dire che il peggio è già avvenuto - e
allora gli italiani dovranno mettersi il cuore in pace - oppure che chi si
preoccupa di introdurre simili quote reputa in questo caso ininfluente imporle
- e allora tanto peggio per Fluxus. C'è peraltro un aspetto degli italiani che
suggerisce come perseguibile la nostra ipotesi nelle sue conseguenze più
estreme e preoccupanti, ed è lo scarso onore, a quanto si dice, che essi
accordano alla bandiera nazionale ed al valori che le sono collegati. Un fatto dei
genere apre evidentemente un varco ad ogni penetrazione culturale straniera. Il
comprensibile moto di orgoglio di chi si metta a rivendicare il primato del
Futurismo italiano sulle avanguardie non attenua probabilmente il timore agli
occhi di chi responsabilmente ne è preda. Unica vera consolazione è che si
tratti soltanto di un'ipotesi, della quale, fra l'altro se ne possano dare
altri sviluppi. Uno, per esempio, è che essendo Fluxus in America portato al
niente (come, in fin dei conti , viene affermato dagli stessi artisti
americani), esso sia, nel suo autonomo svolgimento (questo è importante),
niente anche in Italia.
Certi argomenti
rimangono tuttavia lontani dal sollevare i timorosi. Quello del niente è troppo
intriso di angosciosa metafisica per essere rassicurante. Andrebbe solamente
preso per il verso giusto. Non avendo, finché si è vivi, un'esperienza diretta
del nulla, niente è una parola che si può usare anche a sproposito. Come quando
incontrando un amico per la strada, dopo i convenevoli, ti senti chiedere:
“Cos'è che hai in borsa?” In borsa ci sono quattro carte insignificanti, le
chiavi di casa e una penna, magari anche un libro che però sul momento non hai
voglia di commentare, e rispondi: "niente". Fluxus potrebbe essere così: quattro carte
insignificanti e magari anche un libro che non hai voglia di commentare.
Perché? viene da chiedere. A volte, per una qualche ragione, non si vogliono
far conoscere le proprie letture, ma non è questo il caso, Altre volte il libro
in borsa lo si giudica inutile cosicché si pensa: “inutile parlarne”. Non
vogliamo aprire qui una dissertazione sulla dialettica fra l'utile e l'inutile
(o il necessario e il superfluo), pedanti lo siamo già stati a sufficienza.
Diciamo allora che qui inutile equivale al níente della nostra risposta. La
natura di una cosa che c'è ma che è niente (e ciò vuol dire che è come se non
ci fosse) si precisa meglio con una terza soluzione. Capita cioè di avere in
borsa un libro dai contenuti troppo complicati per liquidarlo rapidamente e,
alla fatidica domanda, schermandosi, si risponde: “niente”! In altre parole,
Fluxus è niente, ma c'è, dal momento che è servito a chi l'ha condiviso;
ciònondimeno, piuttosto che mettersi a parlare di tutti quelli che l'hanno
condiviso è meglio dire: “niente”. Che
un niente americano diventi qualcosa in Italia è dubbio. Cosa sarebbe, un
niente retorico, un niente di niente?
Gli esiti paradossali
della nostra ipotesi non devono viceversa far dimenticare che Fluxus potrebbe
essere qualcosa. Chi se ne è occupato in sede storiografica si è saldamente
tenuto a criteri di realismo. Onestamente, se la sostanza della storia sono i
“fatti”, e quella di Fluxus sono gli “eventi”, per uno specialista, fintanto
che le discipline umanistiche avranno cultori adeguati, saltare dagli uni agli
altri rimarrà una bazzecola. Che Fluxus sia qualcosa prima di tutto per chi vi
ha preso parte, l'abbiamo già detto. Il nostro problema rimane quello di capire
se è anche qualcosa di italiano.
Le rare “storie” di
Fluxus (che se non sono ufficiali sono semi-ufficiali, tipo il Flux Codex)
appaiono sostanzialmente come imponenti raccolte di curricula personali degli
artisti. In un certo qual modo ricalcano la “letteratura” stessa di Fluxus,
sfacciatamente elementare, che consiste di preferenza in genealogie. Dick
Higgins, ad esempio, ha intitolato “Saggio su La Monte Young” un albero
genealogico alquanto povero di rami. In
Italia, uno studioso, Enrico Pedrini (autore anche di una monumentale monografia
su Chiari), si è spinto a trovare analogie tra Fluxus e la fisica contemporanea
(un celebre libro di Fritjof Capra ha mietuto la sua vittima). Fra gli artisti
italiani e americani non c'è tuttavia lo scarto che sussiste fra una produzione
intellettuale di tal fatta e una semplice cronologia. Si dovrebbe inoltre tener
presente che data la proliferazione, e la varietà, di leghe autonomiste, in
Italia si potrebbe fra non molto non parlare più di un Fluxus italiano, bensì
di uno calabrese, un altro lombardo-veneto, e così via. Nell'epoca della “globalizzazione”
anche il pensare localistico è però costretto ad uscire dalle sue angustie.
Tutto sommato, l'ipotesi di un consistente grado di omogeneità,
indipendentemente dalla frequenza dei contatti fra il gruppo americano e quello
italiano - che sopra ci ha portato fin troppo avanti nella speculazione - non
solo non la scartiamo ma pensiamo che resti l'unica ad avere un minimo di
senso. Riteniamo infine che l'essere riusciti a condurre, per tutte queste
pagine, un discorso su un argomento di cui pure abbiamo ventilato la
possibilità dell’inesistenza sia un nostro successo personale. A frenare
l’entusiasmo c'è soltanto la consapevolezza che a scrivere “per tutti e per
nessuno” abbiano già pensato altri.