Eric Stark
K-punk
Mark Fisher, k-punk: The Collected
and Unpublished Writings, Repeater Books 2018
Con tutto il rispetto per il caso
umano, fatichiamo a capire l'entusiastica accoglienza per le (ritardate)
traduzioni italiane del critico culturale Mark Fisher, parendoci questi
aggiornamenti cyber o postumani del nostro
digitalizzato presente non far avanzare più di tanto quel che già intuirono
un'ostica teoria critica o un marxismo continentale nemmeno tanto eterodosso
ancora (elitariamente ?) incuranti di verificare le
proprie eresie frequentando boîtes chiassose. Per la
misurata comprensione del clamore e del seguito sorti intorno ai testi di
Fisher una contestualizzazione dei tempi e luoghi in cui si trovò a pensare (la
Gran Bretagna degli ultimi trentanni) gioverebbe
innanzitutto allo stesso profilo critico dell'autore, alla sua prosa spesso
felicemente sarcastica pur se altrettante volte inutilmente battagliera.
L'editor di questa ampia silloge, Darren Ambrose,scrive
che, contrariamente agli iniziali timori, al termine di questo recupero di
archeologia digitale molto del materiale firmato da Fisher conserva ancora
vitalità, fascino, ispirazione, perspicacia confermando come l'ampio seguito di
cui godeva in vita non fosse del tutto usurpato. Ora, come molti signori ben
oltre la mezz'età, ancora ossessionati dal fantasma del punk -età d'oro di
improbabile purezza ed energia incompromessa- periodicamente vi tornano per
misurare il decadimento di quanto nelle loro vite e nel fluire delle cronache
ne è seguito, così Fisher nel consegnarsi alla “cospirazione della nostalgia”,
dotandosi di adeguati attrezzi tecnici ha tentato di pensare, al di là
dell'immediato vissuto, quanto seguì i noti eventi degli anni settanta nel più
ampio contesto dell'offerta culturale neocapitalistica; più in particolare se
molti scritti furono pensati come risposta a quelli stimolanti dello stimato
Frederic Jameson sulla condizione post-moderna ovvero
sul presente come minestra riscaldata del passato, in seguito Fisher tentò di
evadere da quella diagnosi disarmante se non soffocante alla scoperta degli
impulsi utopici nascosti tra i frammenti della cultura esplosa e un tempo coesa
dei marcusiani anni sessanta. In questo si servì del gergo della french theory aggiornata a Baudrillard o Žižek rilanciandone
i risultati “incantatori” nella sua lettura ravvicinata ed implacabile della
scena anglosassone come frutto malato e rivelatore di un disagio complessivo
dei prodotti ideologici in rapido avvicendamento sotto la cappa del capitalismo
in versione neoliberale promosso da Reagan o Thatcher. “Traumatizzato” forse
dalla nota frase della signora Thatcher (“la società non esiste”) molto di
quanto Fisher scrisse, eclettico nei contenuti e pluralistico nelle teorie,
prima su riviste inglesi e poi su blogs, puntava a portare allo scoperto le
tracce (anche e soprattutto nel senso di cicatrici e malattie) del sociale fin
dentro l'individuo proprietario/singolarizzato tanto pregiato da neoliberali
molto attivi nel promuoverne il consenso allo status quo come resa, realistica,
al dato inaggirabile del capitalismo uscito vincitore dalla guerra fredda.
Uno dei tratti distintivi di Fisher
era la capacità di cogliere in tempo reale i flussi di quanto avveniva dandone
conto sulla rete al tempo in cui i blogs erano l'ultimo grido. L'esercizio di
seguire e stimolare in presa diretta i prodotti del modernismo pop per
rivelarvi e testarvi in filigrana le peripezie e sventure della teoria critica
era certamente più spericolato ed arrischiato di quanto tentato da chi, per
esempio da Greil Marcus, già si dedicò col senno di
poi a tracciare filiazioni dal dada zurighese alle agitazioni di Malcolm Mc
Laren degli anni settanta. Fisher, per suo conto, nella familiarità e
consuetudine con gli attori e le pose dell'ultimo trentennio, vagliati
all'incrocio di analisi culturale e teoria sociale, potè
produrre una mole ingente di materiali, un archivio di intuizioni ed errori che
ancora pochi anni fa vedevamo crescere giorno per giorno e che oggi pare
travolto o impedito dal battutismo twittarolo. Mentre
il presente già si manifestava come condivisione della noia, le righe sul blog
personale ne abbozzavano i sentieri alternativi, combattiva oasi di
sopravvivenza e resistenza, attraverso il recupero della fedeltà verso idee,
film, libri, musiche (il modernismo popular degli
anni formativi in breve) che col sopraggiungere dell'età adulta, distratto
dalle sirene dell'accademia, Fisher temeva di avere colpevolmente tradito:
dunque gli scritti valevano come scoperta del potenziale radicale, e
rivitalizzazione, delle tracce di modernismo “negativo” cancellato
dall'imperante e nullificante realismo capitalista degli ultimi tempi; tempi,
ripeteva, in cui le nostre immaginazioni sono figlie della mistura di cinismo
ed edonismo alla cocaina che governò poi la politica e l'arte a partire dagli
anni 90.
Al di là degli scatti umorali o dei
ripensamenti “datati” per la natura stessa del blog personale, k-punk
appunto, qui e nelle recensioni di cinema, tv e musica profilando l'orizzonte
storico attraverso le sue merci, Fisher smaschera come ideologico tutto quanto
negli ultimi decenni voleva proporsi come post-storico
e non congiunturale. In ciò il “realismo” del capitale opera come entità magica
e moltiplicatore di paura che ingiunge di pensare entro quei limiti, dati del
neoliberalismo, come i soli sensati e dunque invalicabili. Questa atmosfera
ideologica diffusa, sorta di infrastruttura psichica collettiva, prese in
Fisher il nome di “realismo capitalista”, ma erano proprio i buchi nelle maglie
di tale imposizione che lo ossessionavano provocandone il pensiero. Compito
della sua critica culturale era dunque denaturalizzare la società, sciogliendo
la maschera che indossa, indicando le forze artificiali che la muovono fino ad
assegnare al capitale stesso il sostanziale ruolo di agente svelatore: la
funzione di sbuco nella corazza costrittiva del reale, recitata un tempo dalla
visione psichedelica, venne ultimamente assegnata alla “eeriness”,
ovvero quel senso di inquietudine irradiante da luoghi disertati dall'umano
(per esempio la statua della Libertà abbattuta al termine de “Il pianeta delle
scimmie”): all'eeriness riporta tutto quel che ci
estranea dall'accordo politico chiamato realtà permettendoci di vedrlo come temporaneo e modificabile.
Senza spingersi ad esaltare il
delirio come critica sociale (impasse già imboccata da alcuni sventurati negli
anni 70) Fisher tematizza la spensieratezza del nightclubbing
come fuga dal realismo capitalista, il momento estatico del rave come punto
tangente da cui cominciare a considerare il tema dell'oppressione quotidiana e
quanto ne conseguiva ossia il pieno dispiegamento di un “edonismo depressivo”
al cui rafforzamento molto avrebbero contribuito i social media, con
l'impotenza riflessiva, però, in sostituzione della vecchia coscienza di
classe.
Voltandosi all'indietro, e forse
proprio per non averli vissuti, gli anni 50/60 si mostrano a Fisher molto più
insurrezionali, mentre il presente è “visitato” (al modo dei fantasmi) dagli
esperimenti radicali di quel periodo (quando con Lsd si dichiarava la
provvisorietà e storicità di una realtà capitalistica che oggi si vuole
insuperabile) soffocati poi dal trionfo neocapitalistico. “Quel che i capitalisti temevano, come un
serio pericolo, era che la classe operaia divenisse in larga scala hippie”...Questo perché, a detta dell'autore, la coscienza
psichedelica rappresentò, negli anni sessanta, una delle risorse per strapparsi
al circolo vizioso dell'eterno ritorno del capitale. Una sua ripresa odierna,
in un movimento di “comunismo acido” (come Fisher si spinse ad azzrdare) allenterebbe la presa (nel senso dell'essere
soggiogati) della credenza predominante ossia il “realismo capitalista” in cui
relazioni sociali e soggettività capitaliste vengono pensate ideologicamente
come inevitabili e non sradicabili da una coscienza in arretramento rispetto
alle conquiste ed espansioni culminati, a coronamento del welfare state, nei
mitizzati anni sessanta. La controcultura avrebbe “visto” la provvisorietà di
ogni sistema e la plasticità di ogni reale a differenza della trita saggezza
odierna con il suo cinico invito a rassegnarsi, adattandovisi, al dominio
vincente. La cultura psichedelica, apponendo le virgolette alla realtà,
indicava vie di fuga pur se queste si sono dimostrate, nel loro breve respiro,
meno tenaci delle strutture dure del capitalismo. Indebolitosi il potere trasformatore
della coscienza, è il realismo capitalista a circoscrivere il campo di quanto
sia politicamente possibile e immaginabile, dunque la pop culture in cui siamo
immersi vive e muore sotto lo sguardo della rassegnazione ma, se i suoi esiti
più peregrini denunciano discendenze beckettiane, Fisher vorrebbe andare oltre
la memorabile ingiunzione a “fallire meglio” cui la sinistra e la classe
operaia, nelle loro pose sconfortanti, sembrano affezionati. Resta il fatto che
nel guardarsi intorno (e indietro) il generoso Fisher vede alternative e lampi
di riscatto (femminismi e sindacati radicalizzati inclusi) dove altri leggono
“fine corsa”; in Italia negli anni settanta addirittura avremmo goduto (fessi
noi a non accorgercene) dell'ottimismo seventies,
una volta esaurita la spinta ribellistica fornita dai funghi messicani, grazie
all' effervescenza di Autonomia Operaia (per tacere delle B.R.).
La fretta di vedere svolte ed
alternative ad un malato status quo, spesso spinge Fisher ad ingigantire
piccoli buchi nella trama soffocante del realismo capitalista o irrilevanti
pratiche disobbedienti al divieto di immaginare un futuro, diagnosticando
svolte e rotture o investendo speranze in nomi (vedi un triste figuro come Corbyn, supposto nome nuovo della sinistra post-blairiana)
che, da una prospettiva meno scintillante e cosmopolita di quella londinese, si
segnalano per la loro consistente mediocrità, compagna di una patente cupezza.
E se per noi suonano ormai sorde
tante pagine, in cui la critica notturna in atto nei clubs,
eccitando i furori critici di Fisher, lo portava a puntare generosamente su
pedine sbagliate (qualcuno vede ancora nei momenti carnevaleschi di un rave gli
individualisti repressi/depressi del realismo capitalista iniziare a disegnare
lo “spettro di un mondo” che potrebbe essere libero ?) altri passi si leggono
ancora con qualche profitto (James Ballard e le serie tv per esempio) tenute
ferme le acquisizioni e le magnifiche sorti del nuovo mondo digitale in cui i
social media, in quanto portatori e diffusori malati di ansietà, connettono
solitudini, distraendo gli annoiati e certificando l'agitazione come un'altra
faccia dell'autopromozione.
“Fogli di
Via”, luglio 2019 (anticipazione)