Jean Montalbano

Fejos, un antropologo ad Hollywood

Riscoperto e restaurato negli anni ottanta, Lonesome (1928) fu il secondo film americano dell'ungherese Fejos Pal (più noto come Paul Fejos) fresco d'arruolamento   nella scuderia Universal di Laemmle. Nonostante la buona accoglienza scontò in parte la sorte infelice riservata a molte opere prodotte in quella terra di mezzo situata fra l'estrema fioritura del muto e i primi balbettii del sonoro (Adriano Aprà una volta lo definì aberrante rispetto alla linea classica convenzionalmente tramandata). Si dovette solo ad una copia della cinemateca di Langlois, consegnata poi alla George Eastman House, la sua avventurosa visibilità per un buon mezzo secolo e dunque la nuova edizione Criterion per uso domestico, a partire dal ripristino filologico delle sequenze colorate e degli inserti sonori fin qui sacrificati (e tutto sommato ininfluenti per la grandezza dell'opera) gli confermerà il meritato posto, accanto ai capolavori coevi di Murnau, Vidor, Lubitsch o Sternberg, sempre restando oltreatlantico. L'uso virtuosistico della cinepresa lodato dai contemporanei nell'esordio, considerato perduto, di The Last Moment, traspare anche in questa pellicola i cui i tratti artistici, tanto sospetti negli immigrati europei, non ne oscurarono gli spunti per uno sfruttamento commerciale, vedi il finale alla O.Henry dopo la forzata separazione dei due protagonisti. In questo caso, se l'inizio (il risveglio dei due protagonisti e della città) segnala il desiderio di un cominciamento assoluto marcato da un vertoviano ed imperativo girare delle lancette di sveglie casalinghe e marcatempi da officina, l'effervescenza di una festa concessa (il 4 luglio) viene osservata con l'umanesimo estraneo all'automatismo della “camera” sovietica sicché, al di là dei momenti di bravura, è ancora la vicinanza alla singolarità, annoiata nella propria stanza o stordita nella folla, che continua a commuovere (“nel vortice della vita moderna, la cosa più difficile è vivere da solo” ci ricorda un altra didascalia).

“Due sono una coppia. Tre una folla” ricorda un altro cartiglio. L'uno, il lonesome, il singolo di Fejos, è il vibrare che le rende instabili: proprio come Lonesome, il film, mette in dubbio certe periodizzazioni critiche, la pressione della folla e il ritmo della vita new-yorkese impediscono di quietarsi nella scontata scoperta del singolo solo nelle moltitudini o, addirittura, della folla solitaria. Finché il cronometro scandisce il tempo dell'operaio e della centralinista la solitudine è solo una parola. È nelle ore di svago a Coney Island che gioia e noia assumono un senso pieno e la pressione della folla, separandoli, dà forma alle solitudini, mettendo a rischio il fresco statuto di coppia. Qui Fejos eccelle nelle peculiari notazioni antropologiche che, per successive sottrazioni, via via determinarono il suo rigetto dell'immaginario industriale a favore di un interesse etnografico che l'avrebbe portato in giro per il mondo. L'amareggiato collega Sternberg, ricordandolo nell' autobiografia, gli avrebbe  riconosciuto la “saggezza di abbandonare quel curioso campo della conoscenza (il cinema)” per diventare direttore di una fondazione per la ricerca antropologica e lodandone quindi la scelta di rivolgersi ad un pubblico più distinto di quello offertogli da Hollywood.

Infatti, tornato in Europa a proseguire di rimbalzo una carriera in minore, Fejos vi girò in Francia una variazione sul tema di Fantomas (1932) ed in Austria un bel ritratto di una Vienna, non più rossa ma depressa con, al centro, un'altra coppia di mancati suicidi, fino alla svolta della stagione scandinava con cui iniziò quegli studi etnografici che l'occuparono negli ultimi venti anni di vita portandolo in Sudamerica, Asia ed Africa.

“Fogli di Via”, marzo-luglio 2013