Genesio Tubino
Dannato Fanon
Adam Shatz The Rebel’s Clinic: Revolutionary Lives of Frantz Fanon ((Farrar, Straus and Giroux 2024)
Persisteva un alone romantico nell’immagine di Fanon che dal letto di morte dettava alla segretaria Manuellan le pagine de I dannati della terra; ancora
di più in quell’ appello anti-europeista al disordine totale, distante da certo
universalismo proletario, che faceva franare le certezze razionali dei
colonizzatori spaventando molta sinistra colta. A ciò si univa l’ammirata
sorpresa per il suo voltare le spalle alla speranza accogliente del mondo nero,
dei misconosciuti valori “negres”, della négritude di un Senghor
o di un Césaire (suo professore di liceo) e della
retorica “blackness” d’oltreoceano.
Quel testo postumo concludeva un’ intensa attività
di dottore e psichiatra, passata per la direzione di un ospedale psichiatrico
nell’Algeria degli anni cinquanta e l’impegno da militante-medico dei ribelli,
preceduta dalla decorazione a 20 anni come soldato martinicano dell’esercito
della Francia libera (decorato dallo stesso generale che avrebbe poi ritrovato
dalla parte avversa durante la guerra algerina) e conclusa da
propagandista-ambasciatore del FLN algerino presso diversi stati africani.
Vita tormentata, straziante per certi lati, miele
per i biografi che non si sono fatti pregare. Schatz
ricorda di aver trovato un testo di Fanon nella
biblioteca paterna, tra un Malcom X e un Isaac Deutscher,
ma sa che oggi, per le sventurate letture accademiche anglo-americane, tra
studi sulla razza, neo-colonialismo e afro-pessimismo, la tentazione d’irritare
quel nervo scoperto si è fatta tanto più pressante. Più che la piega
agiografica, Schatz nota nei precedenti racconti
biografici l’assenza di quella passione contraddittoria, ben radicata nella
cura giornaliera, che accompagnò le diverse tappe di una vita interrotta a 36
anni dalla leucemia. Sappiamo che la parte svolta dalla religione musulmana nel
discorso anti-colonialista di Fanon lascia
interrogativi rimasti aperti, ma che dire della sua vicinanza alla rivista Esprit
(prima nella capitale francese, poi in nordafrica)
che fu un tramite per i suoi primi contatti con il FLN algerino? Vero è che
quell’eredità umanistica e universalistica con gli anni venne sempre più messa
in questione nei ripiegamenti tattici che gli imponevano il silenzio
sull’eliminazione di qualche compagno sospettato di tradimento o di avvicinare
un Lumumba già periclitante. Ma per Schatz resta la grandezza del suo impegno teorico e pratico
nel servizio psichiatrico, a cominciare dagli stessi traumatizzati militanti
pro-Algeria. Diversamente si rischierebbe di perdere Fanon,
“intellectual celebrity”,
nella nebbia dialogica con i tanti Gramsci, Sartre, Baldwin, C.L.R. James,
Ellison. Laing, Le Roi
Jones e Naipaul, smarrendo nella visceralità di un
estremismo retorico la voce del terapeuta emotivamente e quotidianamente
coinvolto.
Finita la guerra, da internista nel sud della
Francia, Fanon aveva lavorato con il medico
antifascista franco-catalano F. Tosquelles, impegnato
nel POUM durante la guerra civile spagnola, già rivoluzionario di suo (“curare
l’ospedale prima ancora di cominciare a curare i pazienti”) il quale ne
apprezzava la poca pazienza. Se all’animosità di una testa calda si debbano
pure certi tratti teorici sul valore disintossicante della violenza, il cui
utilizzo sottrae il militante alla paura paralizzante del colonizzatore, è
materia ancora discussa. Certo i richiami alla generosità del “sangue
magrebino” non erano lontani da un messianismo da eroe manicheo della
decolonizzazione. Da qui a proclamare che “Nessun francese è innocente”
benedicendo le bombe lasciate in luoghi pubblici il passo era breve. (Stando
nell’attualità sanguinosa, v’è chi ha suggerito la persistenza di echi fanoniani nell’attacco di Hamas
ai kibbutz del 7 ottobre 2023). Eppure nei toni annuncianti una giustizia
barbarica, sopravviveva il miraggio di una rottura netta e di una tabula rasa,
marcando un debito persistente verso l’illuminato universalismo francese di
partenza. Solo sottovalutando quanto i nazionalismi degli ex-colonizzati
fossero radicati in particolari culture e linguaggi si poteva rilanciare
l’obbiettivo di una decolonizzazione come nuova totalità, corpo integro di
un’Africa senza mutilazioni, oltre il respiro corto di nuove élites ansiose di prendere
il posto dei vecchi oppressori.
Altrettante questioni sollevate già mezzo secolo fa
da Albert Memmi nel suo ricordo La vie impossible de F. Fanon, ben
distante dalla santificazione, cui tendono ad avvicinarsi quanti lo hanno reso
una figura mitica nel discorso antirazzista e anticolonialista, compilatore
apocrifo di un manuale teorico su razza e colonialismo, dimenticandone gli
avvisi sui rischi delle società postcoloniali e sulla tentazione della
borghesia colonizzata di sostituire con un trasferimento di privilegi il
precedente colonizzatore.