Jean Montalbano

corde rispolverate: Fahey,Taussig e gli altri

  C’è un primitivismo che trascura le maschere nere lasciandosi incantare da voci reputate, nell’aleatorio ritrovamento di matrici crepitanti, altrettanto originarie. Quelle voci disperse convergono a raccolta nel gesto tutto mentale (al di là di filologiche traduzioni) di un John Fahey che nel giro di pochi anni delimiterà l’area di una ricerca da cui trarrà meno soddisfazioni di quanto l’impegno profuso facesse sperare. A partire dall’ultimo scorcio degli anni cinquanta, è sulla sua chitarra che si elabora ed inventa, senza la preoccupazione totalizzante di un Harry Smith, una sorta di memoria fuori dal tempo in grado di operare come dispositivo poetico per costruire il canone flessibile di una tradizione senza padri fondatori. Un circolo in cui si entrava per la capacità di essere posseduti prima che per eccellenza virtuosistica.

Recita la microstoria che, stampato in poche centinaia di copie, l’ellepì Fate is only once contenente dodici strumentali assortiti tra blues, ragtime e cripto-tradizionali per chitarra fingerpicking fosse diventato altamente appetibile tra i collezionisti di un settore che, dopo la dipartita di Basho, Bull e Fahey e la scontata ripetitività dei pochi sopravvissuti, è costretto a setacciare una mitica età aurea in cerca di pepite trascurate. Harry Taussig se lo stampò nel 1965 e naturalmente fu notato da Fahey che lo incluse, insieme ai “soliti” nomi, in un’antologia chitarristica di due anni dopo per la sua label Takoma: comuni le memorie da riattivare, blues rurale, country e gospel (cui si aggiungeva, a scardinare la chiusa canzone, la fresca scoperta di Ravi Shankar) pur se Taussig indossava gli abiti del diacono diligente, inquadrato e didattico, desideroso di farsi accettare e di comunicare, alquanto lontano dal fluire torrenziale, da predicatore folle, di un Fahey ricco sino all’afasia.

Gli difettava certo l’abilità tutta faheyana di immaginare mondi in cui la bella frase è a rischio di cancellazione, una volta fatto da scintilla, il melodizzare bruciato nell’impellente ricreazione di visioni scomposte; Taussig appariva, già nelle foto, misurato e pulito, parco nella scelta di note che, scriveva, sono come uccelli posati sui fili delle recinzioni (e “quelle non suonate sono spesso le più significative”). È un tracciato esile rispetto agli spazi mitologizzati spalancati dal maestro perché, se pure Fahey era partito raccogliendo l’aureola ammaccata e sepolta dei bluesmen neri, imitandone e clonandone per Joe Bussard i 78 giri, a metà anni sessanta, trasferite le operazioni dal Maryland alla California, quell’aura di originarietà del blues era compiutamente dissolta nel crogiolo dei mille stimoli, anche chimici, cui venne esposta (né si pensi ad un invasato tutto trip e vibrazioni, perché, fedele ad un’idea di america profonda e soggiacente agli infortuni storici, il nostro trovò modo di mandare a quel paese il regista italiano che lo chiamò per collaborare ai suoni di “Zabriskie Point”).

La recente antologia di chitarristi Imaginational Anthem vol.I aveva trovato spazio per un pezzo di Taussig, Dorian Sonata, che comunque mostrava di allontanarsi per sei minuti dalle ombre affollate di Elisabeth Cotten o del Rev. Gary Davis, accennando sentieri visionari oltre i risaputi tracciati della frontiera: se non verso l’oriente dichiarato di Robbie Basho e Sandy Bull (di cui è stata appena stampato un concerto al Matrix del 1969 col titolo Still Valentine’s Day ) o di un “minore” come Peter Walker, il piede osava inoltrarsi, trasceso l’hillbilly, su scale almeno inusitate.

Quattro decenni dopo, chi non c’era o forse era distratto da corde smaniose di elettrificarsi, potrà recuperare l’esordio dello scrupoloso Taussig nella riedizione in compact curata dalla Tompkins Square, che nel vantare pure la riproposta di un pezzo trascurato come Venus in Cancer (1969) di un Basho transfuga dalla storica Takoma, appronta il ritorno dell’altro east-coastiano appartato, Walker, già autore di raga per giorni piovosi (su etichetta Vanguard) e mente musicale del circo acido del dottor Leary (per parte sua la Table of the Elements, non certo sospetta di nostalgie, offre ai neofiti curiosi una “young person’s guide” al divagare di Fahey).

Altrettante esperienze per diversi anni dimenticate in faldoni riservati agli happy few e poi equivocate e svendute negli idilli zuccherosi new age cui, pure, alcuni di questi nomi sono stati maldestramente associati (soprattutto il Basho “pellerossa” proposto come esempio di “rilassamento”). Sbadataggine emendata dalla recente riscoperta di tutto quanto fa folk e blues anteguerra da parte della “new weird America”: e se prima se ne trascelsero le belle pagine per i libri patinati di Ackermann e soci, adesso i nuovi e ferventi entusiasti chitarrocentrici come Jack Rose, Harris Newman o James Blackshaw  in un’ansia essenzialistica, ne squadernano e sottolineano i paragrafi derelitti e scalcinati.

Tra tanto poverismo che rischia di considerare sospettosamente ogni immotivata fioritura, sia essa di rosa o di loto, sostituita la diligente riproposta all’invenzione sghemba, non v’è chi non si domandi se, nei rimandi ad un passato rustico, si nasconda un puntiglioso recalcitrare alla smaterializzazione dei suoni digitali, o l’ennesima febbre passeggera dovuta al rimescolamento di vinili da mercatino dell’usato globale.

(ottobre 2006)