Wof
Bruno
An american in Paris
Matthew Josephson: SURREALISTI ED ESPATRIATI. La Parigi letteraria
degli anni Venti. Minimun Fax, 2024
Lo ricordavo in quella
straordinaria collana di tascabili (con qualche reticenza li direi anche
“economici”) che fu “I Gabbiani” del Saggiatore, nata sei anni dopo la
fondazione della Casa editrice di Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo. La
grafica delle copertine a lungo, prima dell’introduzione di un’immagine, divisa
in fasce di testo da alcuni filetti, era di Anita Klinz, un’istriana che contribuì a
caratterizzare (coi Noorda, Steiner, Castellano,
Munari e pochi altri) il design grafico editoriale italiano a partire dagli
anni ’50 (chiamò per altro abili e suggestivi disegnatori come Karel Thole e Ferenc Pinter a lavorare
per Mondadori).
Il
titolo originale del libro di Josephson era Life Among the Surrealist. L’editore italiano, nel 1965, lo cambiò in Storia di un’Avanguardia. Il titolo
attribuitogli dalla Minimun Fax è parimenti improprio
ma col richiamo agli “espatriati” precisa meglio il contenuto. Come nei libri
di Malcom Cowley o di Hemingway, ben presenti anche
loro, l’emigrazione letteraria americana a Parigi – coi Cummings,
Dos Passos, Gertrude Stein
ecc. – è affrontata di petto senza troppi psicologismi ma con verosimiglianza
psicologica. Josephson,
prima della traversata atlantica, si sofferma sulle esperienze al Greenwich Village, dove incontrò (e reincontrò
poi a Parigi) Djuna Barnes,
Mabel Dodge, militanti dell’IWW, Robert Mc Almon, che
poi a Parigi avrebbe fondato la casa editrice Contact,
e soprattutto quel grande eccentrico senza fissa dimora che fu Joe Gould (in vecchiaia si sarebbe preso gioco dei “beatniks”) che fu l’autore del presunto libro più lungo mai
scritto (Storia orale contemporanea) preso
sul serio da Marianne Moore, protagonista in alcuni versi di EE Cummings e del libro del giornalista Joseph Mitchell Il segreto di Joe
Gould (tradotto in italiano nel 1994 presso Adelphi).
Il
resto del libro è dedicato a Dada e al Surrealismo, coi caffè di Montparnasse, Tzara, Breton, Soupault, Aragon (antiletterario
ma, dice Josephson, “non poteva fare a meno di
scrivere come gli uccelli non possono fare a meno di cantare”). Una parte è
appuntata su Berlino, con Benn, Döblin,
Carl Einstein e “il distinto scultore russo” Oleksandr Archypenko nella Kaffèehaus frequentata da George Grosz,
dove vi compariva talvolta vestito da vaccaro americano.
Dopo questa stagione, che
compendiò molto più tardi, nel 1962 col libro in esame e con Infidel in the Temple nel
1967, Matthew Josephson
si dedicò agli studi storici, influenzato da Charles Austin Beard
- lo specialista di impostazione economicista che, per quanto non
marxista, applicò la lotta di classe ai Padri Fondatori della Repubblica
americana – pubblicò nel 1934 The Robber Barons (portato
in Italia da Longanesi nel 1947) nel quale seguiva le carriere dei grandi
protagonisti economici della “gilded age” (Morgan, Rockfeller,
Carnegie, Vanderbilt ecc.). A questo seguirono (inframmezzati da rari
ritorni alla letteratura: Stendhal, Hugo, Rousseau) altri studi che fecero
dell’autore una sorta di portavoce, lui figlio d’un banchiere, degli
intellettuali scontenti dagli anni della depressione in poi.