Jean
Montalbano
taccuini di un'indigena
hollywoodiana
Eve Babitz:
SLOW DAYS, FAST COMPANY. Bompiani,
2017
Si può dar
conto di questa edizione dello stagionato (1974) Slow Days,
Fast Company riportando tutto alla “macchina glamour” dell'autrice
(inghiottita nella Los Angeles sostanziata di feste, droga, sesso) sgranando e
rispolverando il rosario scontato di schizzi e quadretti tracciati, a mo' di
esposizione di una città e di un'esistenza, da una signorina proveniente da un
milieu arty in vena di mischiarsi con il meglio e il
peggio della scena losangelina. Test d'appartenenza
di una groupie d'annata: è andata a letto con Jim
Morrison? sì. Ha frequentato il noto artista? sì, Ruscha
(per tacere di Duchamp). Una Edie Sedgwick
col cervello, insomma.
Oppure
se ne possono apprezzare le pagine sottolineandone quei passi meno
folkloristici che le sue doti di scrittrice vi avevano disseminato all'ombra
appunto dei richiami e strilli mondani. Ad esempio:
Nel
progettare i loro magnifici palazzi romani gli italiani sapevano tutto della
speranza e della morte “ma ci hanno messo tanta grazia da farla sembrare una
cosa facile”(p120). E ancora:“... quando gli italiani fanno qualcosa è umano e
okay, gli italiani non vivrebbero mai uno 'spazio' perché gli 'spazi', essendo
troppo bianchi, tendono a proiettare strani bagliori durante le cene. Nessun
italiano sopporterebbe un'assurdità del genere a cena” (p.115) annota poche
righe dopo averci fatto sapere che al tempo Los Angeles era zeppa di designer,
art directors e rappresentanti di mobilifici milanesi
che vivevano, invece che in appartamenti, in 'spazi' bianchi-cromo-vetro.
“Mi
è diventato chiaro che la bellezza non c'entra niente con la moda, che l'amore
può conquistare tutto, che il sesso è arte, e cos'altro...la speranza è
l'ultima a morire. Io amo la pioggia” e soprattutto la semplice pioggia,
rarissima, a L.A. (A L.A.
la pioggia è libertà dallo smog e dalla monotonia, possibilità di starsene
comodi a casa e, guardando fuori dalla finestra, pensare ad altre città,
persino a San Francisco, e a tutti quelli che sputano giudizi sulla squallida
“città degli angeli”).
“Ho
passato sei mesi in Italia, e per cinque mesi è piovuto, ed è stato un vero
paradiso” (p.102).
La
passione di questa californiana per l'Italia è semplicissima e amorale; non ne
è rimasta stregata e, senza ripudiare quel prediletto osservatorio che resta
per sempre L.A., ne ammira i palazzi, le scarpe, quei
“sonetti di miracoloso design” che sono le stazioni di servizio.
Si
sarà intuito quanti decenni siano trascorsi dalla stesura di queste righe.
Chissà se, oggi che la scrupolosa conservazione è l'altra faccia dello
splendore devastato, Babitz ne manterrebbe inalterati
i giudizi, ma non importa, quella era la Storia, il retroterra che ogni brava
ragazza sofisticata e riflessiva (tirata su da genitori aperti e liberali a
dosi massicce di arte e musica: all'epoca del giovanile soggiorno europeo
addirittura, rovesciando lo schema di Henry James, l'Europa le pareva innocente
e l'America corrotta) svolgeva in giudizi inappellabili ed osservazioni
ironiche, questo invece è il romanzo, asistematico
e divagante, della luce di Los Angeles, il solo posto (con N.Y. e Londra) dove
la Babitz pensasse di poter vivere: tutto il resto
era campagna. Qui, a Hollywood soprattutto (di cui l'immenso resto di L.A. pare un'appendice) dove il paesaggio sembra anonimo e
neutro, precario e travolto nell'avvicendarsi di edificazioni e distruzioni,
brutto in una parola, il dono di Babitz per le
connessioni e le analogie insegna a leggere tracce di quanto, non più
esistente, minaccia e sussurra un solo insegnamento: le cose materiali,
cominciando dalle ville di magnati e divi, ciclicamente divorate dal fuoco
alimentato dai venti secchi o azzerate nelle speculazioni immobiliari, sono
irrilevanti e non c'è niente che valga la pena di salvare. Ciò non significa
che L.A. sia un deserto culturale, come sostenuto da
forestieri impazienti di tornarsene al nord o all'est.
Certo,
aveva scritto nel libro d'esordio Eve’s
Hollywood, durante la Depressione persone belle e temerarie
lasciarono le case e terre per dare altra sostanza ai propri sogni: la gente
con il cervello andò a New York e la gente con la faccia giusta raggiunse
l'ovest fidando nella bellezza come “fatto di potere”. I coetanei di Babitz erano i loro figli, rampolli già pronti, a 15 anni,
a dilapidarne la recente agiatezza in droghe, feste e ambiziose scalate.
Eppure
passa oltre gli stereotipi su Hollywood, la patria dei “narcisi convinti” e
innamorati del proprio sogno, il narcisismo parendole l'altra faccia della
costante paura della catastrofe (incendio, terremoto, assassinio immotivato).
La rabdomantica Babitz si prende tutto il tempo per
annotare i segni d'incrinatura e corruzione di quei residenti e la conseguente
ossessiva fatica per battere le devastazioni connesse con l'essere e parere
umani. Lifting, liposuzioni, protesi e dentiere sono la china inarrestabile su
cui ci si avvia dove la luce spietata di L.A. e del
suo braccio armato, la televisione, organizzano l'apparire: “Pare che di questi
tempi le uniche persone che appaiono in tivù senza tingersi i capelli siano gli
ostaggi appena rilasciati” noterà qualche anno dopo. Ma sarà allora (Cigni
neri, 1993) già tempo di bilanci (“quand'è che abbiamo perso ”, se
proprio negli anni settanta, cacciato Nixon e chiusa la guerra in Vietnam, la
vittoria pareva scontata ?) ed anche le sue meditate corrispondenze, messaggi
salvati da un naufragio generazionale e prima ancora personale, si leggeranno
come archivi di vite scomparse consumate in alberghi o residence spesso
tutt'altro che glamour. Il talento di Babitz per la
scrittura, che la strappava allo scontato destino di chi si limitò ad
accompagnare i “famosi”, nella sua imprevidente saggezza, incentrata
sull'egoismo delle piccole cose e scolpita in “acutezze” ombelicali (“Jim
Morrison somigliava a Manson nella foto del necrologio sul L.A.Times”)
le impediva negli anni settanta (da cui questo secondo libro discende) di
rallentare il giro delle conoscenze per porsi le “grandi domande”. Lo stesso
spirito che le faceva evocare furie e fantasmi in perenne trasmigrazione,
talvolta solo voci intercettate nei corridoi, non si spingeva volentieri oltre
la pur dilatata dimensione hollywoodiana come a rispettare il territorio di una
scrittrice, Joan Didion, spesso richiamata per
affinità. Corazzata d'innocenza e scetticismo, come sapesse di poter solo
dirimere tra la vera e la falsa illusione (“Sogni, bicchieri e cuori si possono
rompere, i miei assemblage stile Joseph
Cornell, no!”) Babitz
incrociò spesso i tragitti di Didion (che pure,
risolvendo l'impasse della principiante, la raccomandò a “Rolling
Stone”). Meno pensosa e problematica (“troppo” brillante e macilenta: con i suoi
scritti spaventava gli uomini, disse della Didion) Babitz sensuale e distaccata assaporava ogni strada,
ristorante e bar della metropoli californiana fornendone nelle righe di una
svelta conversazione una guida sui generis per niente superficiale.
Schierata
a favore della minigonna, si ripromise (una volta decisasi per la macchina da
scrivere lasciando stare i tentativi di imporsi nelle arti visive) che mai la
sua scrittura sarebbe stata un modo per compensare una presenza sciatta o una
rinuncia a farsi guardare dagli uomini. Con questo Babitz
non alludeva a Didion, anzi, ma ad altre punitive
scrittrici della costa est. Certo se Didion
considerava gli anni di Charles Manson e del delitto Tate la pietra tombale
sulla stagione libertaria ed alternativa, Babitz non
fu altrettanto veggente (o tempestiva) nel trarre pronostici nefasti da quegli
eventi sanguinari. Viaggiava lontano dalla mitologia del Laurel
Canyon, tenendosi stretta al programma di partito minimalista: feste,
inaugurazioni, spiagge e mondanità assortita fornivano già bastante materia per
il suo e nostro intrattenimento.
Località
bucolica e residenza di vite al limite di molti creativi o aspiranti tali, Laurel Canyon era un set già pronto per rivaleggiare con
quelli costosi costruiti nella vicina Hollywood: punto di intersezione di
biografie erratiche e traiettorie accidentate che poi in molti casi si sono
segnalate per ben altri meriti (un nome per tutti: Frank Zappa) Laurel Canyon sfugge alla messa a fuoco di Babitz; allo stesso modo una rara puntata nella Death
Valley (cui si spinse perfino Foucault in un suo trip psichedelico) l'avverte
di quanto sia L.A. ad alimentare il suo fuoco. Sono
le presenze dello Chateau Marmont,
dove transitava o stanziava il mondo cool una volta
buttato giù il rinomato Garden of Allah (preferito da
Greta Garbo, F. Scott Fitzgerald o Orson Welles) che attirano Babitz e dunque mancano nelle sue pagine quei ritratti
venuti successivamente di gran moda dopo l'affare “famiglia Manson”. Tutto un
capitolo in base al quale fu Manson, hyppie "di
destra", il primo responsabile della fine degli anni sessanta, con cui
morte e paranoia sommersero amore e pace, è assente e con esso il fascino degli
incontri tra il luccichio spesso appannato del successo, magari hollywodiano, e le schegge degradate che ne rodono i
margini (estreme propaggini le recenti vicende biografiche di Phil Spector). Babitz si tiene lontano
da quello strano libro di celebrities e freaks, nei cui capitoli più o meno aberranti rientrano il
rapimento del figlio di Sinatra o le frequentazioni rischiose del figlio di
Doris Day e dei Beach Boys.
Nulla di aberrante, allora, nel suo soffermarsi, allo spirare dei settanta,
sugli annunci del futuro, innocentemente folli, sepolti tra le merci chiassose
degli stores Fiorucci piuttosto che arrendersi
all'invadente sistema arte/moda esemplificato nel monocromo punitivo delle
boutique Armani o Prada. “Fogli di Via”, luglio 2018