Carlo Romano
Escoffier neuroscienziato
Era il 1903. Non si erano ancora smorzati i languori dell’ultima parte dell’altro
secolo e forte rimaneva il sentimento della decadenza quando il grande cuoco Georges Auguste Escoffier (1846-1935) pubblicava
la sua “Guide culinaire” che, con
qualche anticipo, si poneva nei confronti dell’alta cucina francese con una
vena non dissimile da quella degli architetti che osteggiavano l’ornamento
negli edifici. Le ambizioni enciclopediche erano evidenti e il grande cuoco
ammetteva la sua guida sotto la tutela della “moderna scienza della
gastronomia”. Ciò nondimeno Escoffier più che agli orientamenti scientifici a
lui contemporanei, che non conosceva, pareva volgere il pensiero a quello
scientismo “positivista” che aveva caratterizzato gran parte del secolo da poco
terminato. Ma "la scoperta d'un nuovo manicaretto giova all'umanità più
che la scoperta d'una nuova stella" aveva sentenziato il letterato Brillat-Savarin
ottant’anni prima. Escoffier, sulla scorta di questo influente “fisiologo del gusto”, non aveva
quindi esitazioni a chiamare “illuminato alchimista” il saucier (specialista in salse) e ad esortare i commensali a
lasciarsi guidare dal piacere. Arte e scienza formavano dunque un tutt’uno,
cosa che invece fra gli artisti e gli scienziati non sembrava essere così
chiara, non lo sarebbe stata a lungo e chissà mai se lo sarà, a parte certi
temporanei accomodamenti.
Una cinquantina di anni fa, in conseguenza di
due interventi del romanziere e scienziato inglese Charles Percy Snow, esplose
in tutto il mondo un poderoso dibattito
sulla compatibilità delle “due culture”, quella scientifica e quella
umanistica. Ciò che prima di allora era stato in linea generale la faccenda di due
mondi separati cominciò da quel momento a sviluppare nuove forme di attenzione.
Un’idea ricorrente è che arte e scienza si occupino in realtà delle stesse
cose, ma da punti di vista differenti, cosicché ciò che sfugge all’una è
soddisfatto dall’altra. Johan Lehrer in “Proust
era un neuro scienziato” (Codice edizioni, € 22) risolve questa idea nell’analisi
di alcune significative coincidenze. In otto brillanti saggi biografici
dedicati ad altrettanti scrittori e artisti (e a un gastronomo, va da sé)
rileva come la visione estetica di costoro si accordi coi principi del pensiero
scientifico e alla logica di talune scoperte, non senza attraversare momenti di
storia della filosofia. Le visioni di Whitman, di George Eliot e di Proust sono
poste a precorrere la genetica della mente, quella di Cezanne è messa in rapporto alle ricerche sul bulbo oculare,
quella di Gertrude Stein alla linguistica generativa e così via. Walt Whitman,
George Eliot, Auguste Escoffier, Marcel Proust, Paul Cezanne, Igor Stawinskij,
Gertrude Stein e Virginia Woolf sono sottoposti a un tipo di indagine forse non
così sorprendente come vorrebbe essere ma certamente capace di deliziare, provvedendo per giunta a concedere attimi di
vero e proprio divertimento intellettuale. Ogni volta si attraversano tanto i
campi delle esperienze sensibili che di quelle culturali – così, ad esempio, di
Whitman, insieme al rapporto col “Trascendentalismo” americano, è messa in luce
l’importanza che per lui ebbe l’osservazione della diffusa impressione di un
”arto fantasma” fra gli amputati della Guerra Civile americana (una sindrome
formalizzata proprio allora, anche se con qualche anticipo l’aveva
“letterariamente” adombrata Hermann Melville nel capitano Achab di “Moby Dick”). Dove il rapporto
arte-scienza sembra avere una maggiore evidenza didascalica è tuttavia nel
capitolo su Escoffier.
L’haute cuisine francese era stata influenzata dalle elaborate e imponenti
composizioni del cuoco di Talleyrand, Marie-Antoine Carême. Escoffier riportò
l’alta cucina a dimensioni più domestiche, senza orpelli e ambizioni scultoree.
Codificò l’ordine delle portate e, soprattutto, inserì fra gli elementi capaci
di conferire gusto, come già era nella tradizione popolare, l’uso del brodo,
esaltando in particolare la funzione
delle ossa bollite. Contemporaneamente alla pubblicazione della “Guide culinaire” di Escoffier, il
chimico giapponese Kikunae Ikeda cominciò a interrogarsi sul perché un certo
brodo giapponese a base di alghe preparato da sua moglie fosse così gradevole
al palato. I gusti comunemente accettati erano il dolce, il salato, l’amaro e
l’aspro. Ikeda pensò di riscontrare nel brodo preparato dalla moglie un sapore
ulteriore e si mise ostinatamente a cercare di isolarlo. “C’è un sapore”,
dichiarò, “che è comune all’asparago, ai pomodori, al formaggio e alla carne ma
che non è uno dei quattro gusti noti”. Dopo anni di ricerche solitarie, alla
fine, nel 1907, trovò la sua molecola. Era l’acido glutammico. Ci vollero
tuttavia novant’anni affinché i biologi molecolari dessero ragione a Ikeda,
scoprendo sulla lingua dei recettori in grado di percepire il gusto del
glutammato. Ormai da tempo, ad ogni
modo, l’industria alimentare lo usava come additivo per la preparazione di dadi
da brodo, vario scatolame, salse, salumi ecc. ecc. Come Escoffier e Ikeda, arte
e scienza, dice Jonah Lehrer, sono entrambe utili “ed entrambe possono aver
ragione”. D’altra parte, con le parole di Karl Popper, “dovremmo rifiutare
l’idea delle fonti primarie della conoscenza e ammettere che esse sono
coinvolte nei nostri errori”.
“Il Secolo XIX”, 19 agosto
2008