Marco Ercolani ha una capacità tutta sua nel disegnare con le parole, e solo in modo apparentemente sbrigativo, certi ritratti di letterati e artisti. Alcuni volumi lo testimoniano, al punto che verrebbe da pensare a mene specialistiche quando in realtà si tratta (al limite della compulsione) di vocazione narrativa. Il ritratto di Velimir Chlebnikov che segue sarebbe dovuto apparire – è dunque un inedito - su un numero dell’”Arca” (una rivista “ai margini” della quale abbiamo pubblicato gli indici nella sezione “archivio” del 2008) accompagnato da alcune poesie ritradotte da Alessandra Pino, una brava slavista per passione (e cimentarsi con Chlebnikov non è da tutti).
Velimir Vladimirovic
Chlebnikov
nasce nel 1885 nei pressi di Astrachan’. Il padre è agricoltore e ornitologo.
Viaggia a lungo tra la Russia e l’Oriente e studia matematica all’università di
Kazan’. Nel 1908, a Pietroburgo, frequenta l’ambiente letterario e conosce
Ivanov, Gorodeckij, Kuzmin. Nel 1912 pubblica Gioco all’inferno, scritto a quattro mani con il poeta transmentale
Alexej Krucenych. Nel 1913 pubblica I tre,
in memoria di Elena Guro, con testi dello stesso Krucenych e della Guro. Nel
settembre dello stesso anno, ancora in coppia con Krucenych, pubblica La parola come tale, delle note di
poetica in cui sostiene che «la lingua,
se deve somigliare a qualcosa, più di tutto deve assomigliare alla freccia
avvelenata del selvaggio». Nel 1916 è arruolato nell’esercito zarista nel 1919.
Durante la guerra civile è in Ucraina. Arrestato, è rinchiuso in un ospedale
psichiatrico di Char’kov. Gli anni 1918-1922 sono i più fecondi e felici per il
poeta. Vagabonda per il paese, messo sottosopra dalla rivoluzione. Assorbe gli
umori delle masse e della rivoluzione. Vaga vestito di cenci per le steppe del
Caspio. Bighellona nella calca dei bazar di Char’kov. E’ ricoverato per scabbia
a Tsaritsyn. Ascolta interminabili discussioni letterarie nella stanza di
Maiakovskij a Mosca. Lavora incessantemente ai suoi «prodotti semicompiuti»,
alle sue «poesie per poeti». Si porta con sé – unica ricchezza – la bisaccia
con i fogli, a volte solo i frammenti, dei suoi manoscritti, che regolarmente
smarrisce nelle case degli amici o nei luoghi dove si trova fortunosamente a
dormire, a volte in stalle o vagoni ferroviari, a volte sul duro pavimento o
nel muschio dei boschi. In quegli anni scrive la maggior parte delle sue opere,
fra cui almeno tredici lunghi poemi (Notte
in trincea, Ladomir, Razin, La notte prima dei Soviet, Perquisizione notturna,
Zangezi, etc..) e decine di poesie, articoli, note. Quasi nessuno dei suoi
scritti viene pubblicato. Chlebnikov esiste come leggenda per i poeti.
Majakovskij lo chiama «Colombo dei continenti poetici» e scrive: «Chlebnikov ha
creato un intero sistema periodico delle parole: prendendo una parola con forme
non sviluppate, non note, e confrontandola con una parola sviluppata, dimostra
l’ineluttabile necessità della comparsa di parole nuove». Definito il Lomonosov
della poesia moderna russa e «l’unico poeta epico del XX secolo», espone agli
occhi dei contemporanei una personalità suggestiva, bislacca, innocente e
folle, che attrae ancora di più dei suoi versi. Visionario monomane, medita sui
destini della poesia e dell’universo. Le sue fantasie poetiche si intrecciano a
ragionamenti mistico-matematici che mescolano la Cabala, la ricerca di un
linguaggio «stellare» universale, l’utopia dell’Eterno Femminino, il mito della
«parola autonoma». Per lui non esistono limiti alla forza plasmante delle
parole. Nei suoi Decreti sui pianeti
scrive che «il sole obbedisce alla sua sintassi». Chlebnikov appare sempre più
come un santo e un veggente, esempio del più alto «disinteresse» verso la
propria esistenza quotidiana. In anni in cui la vita di ogni giorno acuisce in
tutti l’istinto di conservazione, il poeta traversa l’orlo della miseria e del
disastro con la naturalezza di un fanciullo, leskoviano «viaggiatore
incantato». In una lettera che risale agli anni ‘20 scrive: «Sono un dervis, un
joga, un marziano, tutto, ma non un fante di un reggimento di complemento».
Benché Chlebnikov venga considerato un poeta
epico, il suo epos è fantastico e non trova echi profondi e riconoscibili nel
movimento storico dei suoi anni. L’unico elemento epico è l’ansia di
trasformazione della parola in quanto tale, la metamorfosi dei segni e delle
lettere. La sua creazione, in un certo senso, è un poema discontinuo e ininterrotto
- materiale inesauribile per l’immaginazione dei poeti. La sua protesta contro
le vecchie forme, nella letteratura come nella vita, si esprime da un lato nei
neologismi verbali, nella «fusione» delle parole, nella «foresta arcaica» della
lingua, e dall’altro negli intriganti sogni utopici (le «città di vetro», i
paradisi agricoli, la fratellanza tra i popoli). La sua poesia guarda a un
futuro che affonda le sue radici nel passato, come spesso si augurerà
Mandel’stam parlando della poesia russa contemporanea. L’autore dei Quaderni di Voronez scrive di lui: «Chlebnikov è cittadino di
tutta la storia, di tutto il sistema del linguaggio e della poesia. Una specie
di Einstein idiota, il quale non sappia distinguere se sia più vicino un ponte
ferroviario o il Canto della schiera di
Igor’. La poesia di Chlebnikov è idiota
nel senso autentico, greco, non offensivo della parola». Ripellino commenta a
sua volta: «L’arte di Chlebnikov oscilla tra gli accorgimenti di un
primitivismo allusivo e le macchinose visioni dell’avvenire, quasi sempre
enunciate al passato. Già la sua posa di mago e profeta e astrologo è connessa
con questo sentimento del primordiale. In versi che hanno una gaia pastoralità
da balletto egli inventa una Russia pagana, un’arcadia slava». Racconta di lui
Kornelij Zelinskij: «Una volta (si era nel 1920) incontrai Velimir Chlebnikov a
una serata di poesia che era stata organizzata con lui da Esenin e Mariengof,
giunti a Charkov. Quella sera Velimir, con la barba e i capelli incolti,
vestito da una goffa palandrana, lento nei movimenti come una sonnambula, fu
consacrato Presidente del Globo terrestre».
Nei primi anni ’20
Chlebnikov è nel Caucaso. Lavora a Baku, presso un’Agenzia Telegrafica. Nel
1921 è in Persia per tenere corsi di cultura politica. Tornato in patria,
lavora come guardiano notturno a Pjatigorsk. Quindi si trasferisce a Mosca,
dove vive in estrema miseria. Per abitudine, infila i suoi versi nelle federe
dei guanciali dei letti dove si trova avventurosamente a dormire, e come un sonnambulo,
nel suo vagare nomadico, spesso li dimentica. Durante uno dei suoi viaggi da
vagabondo in un vagone ferroviario, è colpito da setticemia e muore, nel 1922.
Se è vero, come suggerisce un suo verso, che «vi sono scritture-vendetta», la
scrittura poetica di Chlebnikov è, ai giorni nostri, un inesausto atto di
vendetta contro l’arcadia delle forme e l’annuncio di un poema discontinuo e
interminabile, tuttora da scrivere per ogni poeta.
Io solitario sciamano
traduzione di Alessandra Pino
Dal
sacco rovinarono
al suolo le cose. E io
penso che il mondo è solo
un sogghigno che
balena fioco sulla
bocca di un impiccato. (1908) Mentre
muoiono, i cavalli respirano, mentre
muoiono, le erbe intristiscono, mentre
muoiono, i soli si spengono, mentre
muoiono, gli uomini cantano. (1913) |
Gli
anni, gli uomini e i popoli fuggono
via sempre, come
l’acqua che fluisce. Nel
mobile specchio della natura le
stelle sono la rete, noi i pesci. I numi -
spettri dentro il buio. *** Io
vedevo: una tigre, seduta accanto a un boschetto, soffiava
ridendo nel tronco di una zampogna. Andavano
come onde resti di
belve gli
sguardi sprizzavano fiamme schernitrici. E con
gentile flessione del capo le
diceva una vergine elegante. Le
diceva: o tigri o leoni! Vi manca
l’arte melodica. *** E le
colonne vertebrali degli alti castelli-libri come
pagine abitate fogli di
villaggi di vetro qui le
città - vivi libri - digrignarono come un libro i fogli
di castelli-superfici. Stavano
i libri addossati con le còstole dove
cavalli da tiro nell’uragano sbattevano
nembi di lampi azzurri. Diritti
tumultuosi e parità di usanze! E gli
uomini ficcati in pagliai d’uomini si
pigiavano col fieno morto. Verso i
vìtrei dirupi dei vìcoli invitavano
a giuochi funambolici. La città
senza lentiggini di muri. Forse
abitabili da uomini, vìtrei
gomitoli di case. Perché
gli uomini non si corrughino. Per le
tenaglie delle folle i ferri da stiro dell’ordine. O
scaffali di libri, dove il nome dello scrittore è suono e un
comune cadavere il
lettore di questo libro. *** Non come
un clown carnevalesco mi
gonfio in ridicolo pigolìo e in
ceffo lamentoso di poppante. No, io
vengo su da un fèretro comune. Campana
di Libertà. Alzo il
mio braccio per
annunciare il pericolo. Lontano
e pallido vi
indico il cammino, e non
dai grandi falò dove cuoce il toro sulla
coperta dei vostri conoscenti e vicini. Sì, mi
scatenavo e cadevo. Le
nuvole mi nascondevano e mi
nascondono ancora. Cadevano
soltanto più tardi. Ma non
foste voi, ruotandomi sopra le pietre, a
modellare la mia ombra terrena? Perché
riporti alla memoria le stelle e sia
corrente d’aria dell’aria di queste insegne. Spesso
mi lasciavate solo portando
via il mio vestito, mentre
traversavo le strettoie del canto sghignazzavate
che ero nudo. Eppure
dopo qualche anno anche voi vi spogliaste senza
scorgere in me, dietro i progetti dello scrittore, la penna
della mano dei tempi. Io
solitario sciamano in una casa di matti portavo
con me i miei canti-dottori. Maggio-giugno 1922 |
A tutti Ci sono
scritture-vendetta. E’ pronto
il mio pianto, la
tormenta turbina a fiocchi, e
corrono silenziosi gli spiriti. Sono
crivellato dalle lance di una
voracità spirituale, forato
da lance di bocche fameliche. La
vostra fame chiede di mangiare e nel
paiuolo di pesti squisite la
vostra fame chiede cibo: ecco il
petto di uno scroccone! sotto le
lance di Ermàk. La fame
delle lance arriva a
infilzare, sarchiare il manoscritto. Ah,
riconoscere nel carretto ambulante le perle
di persone da me amate! Perché
ho fatto cascare questo fascio di pagine? Perché
sono bislacco e maldestro? Non è
una burla di mandriani infreddoliti l’incendio
- boia dei manoscritti: ovunque
la scure intaccata e
faccine di versi sgozzati. Tutto
ciò che un triennio ci ha offerto, fascio di
canti da arrotondare di cento, e un
cerchio di persone a tutti note, ovunque,
ovunque corpi di zarèvici sgozzati, ovunque,
ovunque la maledetta Úglic! Maggio-giugno 1922 *** Ancora
una volta, ancora una volta sono una
stella per voi. Guai al
marinaio che ha orientato un
angolo falso della sua barca e della sua stella: si
fracasserà sugli scogli sui
sabbiosi banchi subacquei. Guai
anche a voi che avete diretto un
angolo falso del cuore verso di me: vi
sfascerete sugli scogli e gli
scogli rideranno di voi, come voi
rideste di me. |