Questa relazione è stata letta dagli autori a Parigi, il 28 ottobre 2012, , nel corso della mostra Banditi dell’arte, curata da Gustavo Giacosa e Martine Lusardy al museo Halle Saint Pierre.

 

Marco Ercolani e Lucetta Frisa

Scrivere. Disegnare. Percorrersi

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Nella sua prefazione a Banditi dell’arte, la mostra fino ad oggi più completa di artisti outsider italiani, Gustavo Giacosa osserva: «Le loro opere si situano negli interstizi simbolici». E proprio da “interstizi simbolici” queste opere di artisti sconosciuti e “ritrovati” -  come Ernesto Cacciamani, Giuseppe Fornaciari, Marco Raugei - ci parlano della volontà, mai soppressa neppure dalla violenza istituzionale, di costruire un Mondo Nuovo che scardini quello esistente, un Mondo da cercare e trovare in totem, sculture, pitture, pagine sparse, universi babelici: sogno sovversivo di un universo parallelo e incompiuto opposto alla crudele compiutezza di questo. «Cosa c’è di peggio dell’essere compiuto?» – osserva Henri Michaux – «Adulto – compiuto – morto. Sfumature di una stessa condizione».

Robert  Walser, il celebre scrittore svizzero autore de La passeggiata e Jacob von Gunten, internato per 20 anni nella clinica per malattie nervose di Herisau, inventò il microgramma, una scrittura minuscola, quasi indecifrabile, comprensibile solo a se stesso, perfettamente immune dal mondo. Ebbene, gli studiosi della sua opera si sono accaniti contro questa oscurità: da quella scrittura semivisibile hanno decifrato romanzi e racconti, hanno reso percettibile il suo “diventare-impercettibile”. Ed è venuto alla luce, in 520 foglietti, il suo romanzo più significativo e stravagante, Il Brigante, dove la figura del bandito folle, alter ego dell’autore, dilaga dentro una scrittura radicale e spiazzante - preludio al futuro silenzio dell’autore.

È ancora Michaux, con la sua spavalda indipendenza di pensiero, ad avvicinarci alla molteplice verità della follia e dell’arte: «Uno scrittore è un uomo che sa mantenere il contatto, che sa restare unito al proprio turbamento, alla zona viziata e mai placata di se stesso. È lei a portarlo». E quando Michaux dice “scrittore” si riferisce all’artista tout court che lui stesso è stato – poeta, incisore, pittore, che ha usato scrittura e pittura come nervoso journal interiore, inarrestabile navigazione all’interno di sé a stento contenuta nella forma di libro o nei disegni di una mostra. «Scrivo per percorrermi. Dipingere, comporre, scrivere: percorrermi. In ciò sta l’avventura dell’essere vivi».

Per Gilles Deleuze scrivere è un “divenire” sempre incompiuto, un vero work in progress, dove lo scrittore, scrivendo, diventa altro da sé. Forse è proprio questo divenire la necessità profonda di una certa arte outsider, questo “devenir-imperceptible”, che appartiene alla parola come al segno.

I grafismi di Cacciamani e di Fornaciari, i pittogrammi di Raugei, pur nella loro evidente diversità, appartengono a questo regno instabile, dove le pulsioni non si scatenano, come accade nelle cascate verbali e pittoriche di altri artisti outsider, ma sono strategicamente cancellate, rese quasi invisibili. Un po’ come se il patto col mondo “normale” fosse quello non di esibire la violenza della ferita attraverso il delirio megalomanico ma di attenuarne il dolore attraverso ossessive forme di controllo.

La vicinanza all’abisso della non-ragione è sempre fondamentale per l’artista. Ma fondamentale è la capacità di navigare dentro quell’abisso ognuno con la propria nave, ognuno traversando le proprie rotte straordinarie. Qui, per l’escluso e per il folle, emerge la possibilità di lasciare i sintomi e di trovare, almeno per un attimo, “salutari” rappresentazioni.

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Ernesto Cacciamani nasce nei dintorni di Reggio Emilia nel 1879. Analfabeta, solitario, stravagante, a 21 anni viene internato nell’ospedale psichiatrico della sua città natale. Soffre di deliri persecutori, che l’isolamento può solo alimentare. Confessa di essere tormentato da sensazioni insopportabili “in punti diversi della testa”. Piomba spesso in stati malinconici, cerca più volte di togliersi la vita, ma viene salvato. Dopo lunghi anni di internamento decide di riprendere gli studi scolastici e lavorare all’interno dell’istituzione. Muore nel 1959.

Cacciamani si esprime con figure (ruote, missili, uccelli, scope, sciabole, esseri allungati e minacciosi con degli schermi al posto delle teste) e parole gettate sulla carta come un flusso che intende arginare il vuoto. L’intensità espressiva è caparbia. C’è una volontà potente, ma cupa, di comunicare un messaggio. Cacciamani naviga, dilagando nei suoi fogli: il bisogno assoluto è quello di esprimersi, di “spremere” se stesso sulla carta. Ne scaturisce qualcosa che non appartiene, in senso specifico, né alla scrittura né alla pittura. È uno zibaldone di segni e di appunti, dove i grafismi delle immagini e delle parole si compenetrano in un perturbante e spesso indecifrabile continuum. La sua opera è “scrizione”, “scriptions”, come la definiva Roland Barthes («l’écriture en train de se faire et non l’écriture faite - c’est cette écriture-là qui on appelle scriptions»). Un messaggio criptico e privato diventa un ponte che la follia getta verso i suoi possibili decifratori.

 

Giuseppe Fornaciari nasce a Reggio Emilia nel 1907. A 39 anni è ricoverato nell’ospedale psichiatrico della sua città, dove resterà per trent’anni. Nello spazio del manicomio vive isolato, ma il suo tempo è assorbito dalla cura di un orto e dalla stesura di un diario che  riempie di figure e scritture. Morirà tragicamente nel 1976, travolto da un treno.

Il senso, impulsivo e irrimediabile, dell’opera di Fornaciari, è quello di lasciare delle tracce. E’ “segnare”, sulla carta anonima delle istituzioni manicomiali, il suo diario di bordo, la propria personale navigazione, il tempo privato delle emozioni e dei pensieri che gli vengono sottratti dalla segregazione. Gli archivi ospedalieri hanno conservato le sue carte, come nel caso di Cacciamani, e quella che voleva essere la testimonianza di una patologia a distanza di anni è diventata una misteriosa rete di  scritture, costellate da disegni, dove un essere umano annota e personalizza il vuoto di un foglio anonimo, timbrato dall’istituzione. Michel Foucault, nel suo La vita degli uomini infami, sottolinea il carattere sovversivo e liberatorio, nell’uomo più emarginato, di confessare le azioni più oscure. Un oppresso non può permettere che la propria voce sia sepolta nel caos delle altre voci ma la “protegge” facendola esistere in qualsiasi modo, lecito e illecito. Senza e con gli strumenti dell’arte. In modo analogo Fernando Nanetti usava il cortile del manicomio di Volterra come supporto alle scritture/figure che tracciava sui muri con la fibbia del gilet, inventando un diario allucinato di parole e di segni.

Il materiale può cambiare: ora è foglio e ora è detrito, ora scheggia e ora muro. L’esigenza è ex-istere, lasciare il segno, la “firma” di sé. Dalla pietra al foglio tutto è pagina non da “riempire”, nell’angoscia dell’horror vacui, ma da “segnare”, nella volontà dell’amor pleni. L’impulso a essere libero non si attenua. Chi parla, parla anche quando l’altro vorrebbe metterlo a tacere. E, per dire di sé, usa ogni mezzo: scava un senso, il suo speciale, specifico non-senso, su qualsiasi materiale trovi, “tracciando” se stesso per comporre un autoritratto immaginario. Sia per riordinare i propri conflitti in forme, sia per scaricare fuori di sé il caos delle pulsioni. La sua opera, anche casuale, è comunque un volontario esorcismo del dolore, un incontenibile desiderio di esistere.

 

Marco Raugei (1958-2006) nasce a Firenze, ultimo nato di una famiglia operaia molto povera. Vive in condizioni di miseria e, dopo cinque anni scolastici, manifesta i primi sintomi di autismo e viene rinchiuso in diverse istituzioni medico-.psichiatriche. Nel 1986 è ospite dell’atelier La Tinaia, ma sembra indifferente alle attività artistiche del laboratorio e passa il suo tempo a misurare lo spazio delle stanze, intonando lunghi monologhi con se stesso. Dopo due anni infruttuosi, quasi per caso comincia a riempire fogli su fogli di pittogrammi di personaggi, animali, oggetti. Mentre lavora, lo si sente canticchiare litanie e salmodie, alternando voci differenti. Da allora, fino ai suoi ultimi giorni di vita, non smetterà di disegnare.

Raugei non ha vissuto la violenza senza appello delle istituzioni manicomiali. È un uomo sofferente che al linguaggio violento del delirio ha preferito un suo confuso “non-dire”, un tenere sigillata la ferita. Si è murato nel rifiuto, come la figura melvilliana di Bartleby lo scrivano, che con il suo “Preferisco di no” si oppone con mite violenza al volere dell’altro.

Poi, un giorno, ha cominciato a tracciare dei segni su un foglio, dal basso, a destra, in modo  stravagante e improvviso: forse ha iniziato a “scrivere” i suoi segni proprio per liberarsi, per trovare la sua “frase”, dal basso verso l’alto, perché il suo gesto è proprio un dissotterrare se stesso dal foglio bianco e vuoto, che sigilla la condizione autistica: un venire alla luce, un partorirsi, un farsi ponte verso l’alto ma a partire dal basso del “silenzio”.

Da allora Raugei non ha più smesso di disegnare i suoi modelli delle cose, i suoi minuscoli talismani . Ecco alcuni dei titoli che trova per le sue opere: “Queste sono le tartarughe”, “Questi sono i cani”, “Angioletto cupido”, Queste sono le tigri con le ruote”; “Questi sono i funghi bellissimi”, “Questi sono scooter, donne e uomini”; Queste sono vetture molto belle”; “Queste sono scale e botti”. Per ogni  opera usa fogli di 35x50, un pennarello nero e, come in un diario, riporta la data del giorno di composizione. Tartarughe, cani, scooter, scale, funghi, vengono ripetuti nel foglio senza apparenti differenze, fino a colmarlo tutto.

Raugei certifica l’esistenza delle cose viste, come se compilasse un suo sillabario per immagini, perché la cosa non solo esista ma ne venga reiterata l’esistenza, perché se così non fosse il vuoto potrebbe inghiottirla.

In tale modo l’artista cura la sua ferita malinconica. Riempie la pagina dei piccoli segni di un mondo in bianco e nero, da cui il colore, emotivo ed espressivo, è necessariamente assente. Il cartografo ripete la superficie del mondo, ma gli è impossibile sondarne le profondità. Il mondo di Raugei, specchio ordinato e rovesciato del proprio disordine interno, è lo scrupoloso esorcismo di un’emozione scongiurata attraverso una tranquillizzante modellizzazione del mondo. La sua opera è agli antipodi del giornale di bordo artaudiano, dove schizzi verbali e grafici sono spia degli urli di un inferno interiore. Raugei controlla il mondo delle immagini dentro un silenzio elegante. Evita che cane, fungo, tartaruga, spariscano, perché la loro sparizione farebbe nascere una malinconia da “fine del mondo”, e disegna ad libitum i suoi pittogrammi come una sequenza ritmica identica, ordinatoria. Il disegnarli/ripeterli è pronunciare la litania che li tiene in vita, che ferma il loro dissolversi. Il tema della “ripetizione differente” rivela, nella sua molteplicità organizzata, un aspetto materico e turbolento, come un oscuro rumore di fondo che evoca il caos, l’imprevedibile.

Raugei, mentre disegna i suoi modellini, mentre ferma il caos del tempo dentro un rito incantatorio, intona litanie. Come un bambino colto dalla paura in un luogo ignoto si rassicura canticchiando. Ripete le ninnananne sentite o sognate quando era bambino. Abbozza, nel caos, il sogno di un centro stabile e calmo. Così l’autore-bambino cerca di salvarsi la vita. L’arte, ancora una volta, diventa il felice esorcismo dall’incubo della “cattiva realtà” e il sintomo doloroso si trasforma, anche se per un tempo breve, in immagine simbolica della sofferenza.

 

Libri consultati

AA.VV. Figure dell’anima. Arte irregolare in Europa, Mazzotta, Pavia 1998.

AA.VV. Outsider art in Italia, Skira, Milano 2003.

AA.VV., Due ma non due - aperture ed incontri nell’arte degli anni post Basaglia, a cura di G. Giacosa, catalogo della mostra, Joker, Novi Ligure 2008.

AA.VV., Noi, quelli della parola che sempre cammina, a cura di G. Giacosa, catalogo della mostra, Contemporart Edizioni, Genova 2010.

AA.VV. Banditi dall’arte, a cura di G. Giacosa e M. Lusardy, catalogo dell’esposizione, Halle de Saint Pierre, Paris  2012.

G. Deleuze, Critica e clinica, Cortina, Milano 1997.

G. Deleuze, Deux régimes de fous. Textes et entretiens 1975-1995. Les Editions de Minuit, Paris 2003.

G. Deleuze, P. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2010.

M. Foucault, La vita degli uomini infami, Il Mulino, Milano 2009.

H. Michaux, Oeuvres complètes , II, La Pléiade, Gallimard 2001.

H. Michaux, Passaggi, Adelphi, Milano 2012.

P. Vignola, La lingua animale. Deleuze attraverso la letteratura, Quodlibet Studio, Macerata, 2011.

R. Walser, Il Brigante, Adelphi, Milano 2008.