Marco Ercolani

il muro dove volano gli uccelli. Su de Staël

«Più voi capirete che l’esplosione è tutto, in me, come si apre una finestra, più capirete che non posso fermarla rifinendo di più le cose, e più capirete questo più avrete veri argomenti per difendere ciò che faccio (1955)». Nicolas de Staël afferma che l’esplodere infinito dell’atto artistico non si concilia mai con la necessità di rifinire i contorni del quadro. «Io credo all’azzardo, esattamente come voi, con ostinazione costante (1954)». L parole con cui Maria Zambrano descrive Don Chisciotte: «…ha inventato se stesso. Ha condotto il proprio sogno di libertà tra le realtà. Ma, siccome la realtà non lo ospitava, ha dovuto trasformare la realtà nell’unico modo a lui possibile, sognandola», ci fanno pensare a un de Staël che trasforma la realtà nel sogno appassionato di rappresentarla. «Troppo vicino e troppo lontano dal soggetto, non voglio essere sistematicamente né l’uno né l’altro, e con questo all’ossessione ci tengo, perché senza ossessione non farei nulla, ma l’ossessione del sogno o l’ossessione diretta, non so quale sia la migliore, e poi d fatto me ne frego, visto che questo si equilibra come può, di preferenza senza equilibrio. Il contatto con la tela lo perdo all’istante, lo ritrovo e lo perdo. Bisogna pure che io creda all’accidente, non posso che avanzare di accidente in accidente, fin da quando la sento troppo logica la logica mi snerva e va naturalmente verso l’illogico (1955)». Il pittore russo esita a distinguere tra «ossessione diretta» e «ossessione del sogno». L’ossessione diretta sembra la realtà che i suoi occhi vedono e non possono rimuovere, e l’ossessione del sogno l’interpretazione di questa realtà nei modi luminosi e deformanti della ri-creazione. De Staël non vuole né essere vicino al soggetto del quadro né esserne lontano. Lavorando nel crinale tra forma e non-forma, disobbedisce al rigore dell’informale e alla prevedibilità della figurazione. Ha fiducia in una logica totale che, nella sua assolutezza, tende all’illogico. Non avanza per teorie sistematiche ma per piccoli accidenti e minime catastrofi, inseguendo i dettagli della sua ossessione nel presente del quadro a cui lavora.

«Sordo, muto, gli occhi che si abbassano ogni giorno a forza di guardare, farò dei quadri come potrò per i dieci anni che vi aspetterete dalle mie mani di pittore (1954)». «Ho bisogno di elevare i miei conflitti a un’altezza unica, non fosse che per presentarli in tutta umiltà, e ciò indica molta familiarità con tutto ciò che traversa il cielo, va e vieni di ombre, luci, composizione fantastica, molto semplice, di elementi (1952)». «Dipingo come posso, e cerco ogni volta di aggiungere qualcosa elevandomi su ciò che mi soffoca. Non sono Jean-Baptiste Corot, non vedo che da lontano, avere il naso sul quadro mi è impossibile, talvolta c’è troppo schizzo senza schizzo, soprattutto da vicino non c’è nulla, bisogna abituarsi di più a finire senza finire, non è facile…(1954)».

L’occhio del pittore, pur volendo familiarizzare con le nuvole, è costretto ad abbassarsi per rifinirne il contorno. L’architettura instabile del mondo, dissolta da un eccesso di luce, è rappresentata solo attraverso le cose dipinte, simultaneamente ostacoli e strumenti per quella luce: «Si finisce per avere una sensibilità molto prossima alla follia quando si è vicini a quegli invisibili ostacoli che si scelgono sempre quando lo scacco è imminente».

Lo psicoanalista André Green parla di una psicosi rossa, cruenta, appassionata, che percepisce il dolore della distruzione, e di una psicosi bianca, atonica, indifferente, che va oltre il dolore di quella distruzione. De Staël sperimenta entrambi gli stati, spesso contemporaneamente, a volte prima uno e poi l’altro. Spalanca gli occhi per fissare la luce che cancella i confini delle cose illuminate. Realista fino alla veggenza, scruta il suo desiderio, eccessivo, di una forma che racchiuda, scorticata, tutte le vibrazioni, tutto il farsi e disfarsi della materia nella luce. «In de Staël la tragedia non si svolge in profondità, ma in una struttura complessa e vertiginosa e complessa, come le Carceri piranesiane. Se in van Gogh c’è sprofondamento, e poi dal basso un riaffiorare del colore, in de Staël c’è il crollo, lo scorticarsi sottile della materia come pelle esposta, sfogliata, L’andare al fondo di se stessi è per de Staël toccare una terra – inaccettabile per van Gogh – in cui suicidio e assassinio si equivalgono» (Antonella Anedda).

Il pittore muore, gettandosi in volo dal suo atelier di Antibes il 16 marzo 1955, perché la sua opera è imperfetta. Perché lui, come pittore, non realizza il quadro che vorrebbe. Muore per mancanza di equilibrio ed eccesso di desiderio, folgorato da quello che vede e che le sue mani traducono con troppa fatica in forme, nella tela bianca. Qualcosa lo spinge sempre oltre, come se dovesse scalare una montagna: «Più si sale, più tutto si complica ed è impossibile, non ho mai abbastanza cielo in montagna». Quanto cielo vorrebbe de Stäel? Quanta luce? Non c’è mai abbastanza luce o abbastanza cielo. L’opera si annunzia sempre, ma non è mai definita. Il pittore fa quello che può, con la luce delle sue forme cancella le forme del mondo visibile, ma non vuole un mondo percettivamente altro da quello che sente e che vede dentro e davanti a sé: «Probabilmente, mi preme affermare che ci sono due cose valide in arte: la folgorazione dell’autorità e la folgorazione dell’esitazione».

Lo scacco di de Staël è in questa luminosa  autorità, che lo spinge verso un’opera fedele alla luce che la assorbe e la pervade, e in questa oscura esitazione che gli fa sentire quella stessa opera come infedele, imperfetta, inadeguata. Non c’è corrispondenza fra il possibile, che si realizza, e l’impossibile, che si cerca. I risultati sono deludenti, parziali. Braque, venerato da de Staël, scrive: «Se dovessi cercare di vedere qual è il cammino dei miei quadri, direi che dapprima c’è un lasciarsi impregnare: poi – la parola non mi piace ma si accosta alla verità – ne segue un’allucinazione, che a sua volta diventa ossessione e per liberarsi dall’ossessione bisogna fare il quadro o si muore». De Staël, secondo il proprio giudizio, non ha saputo fare quel quadro e ha preferito morire. «Lo spazio pittorico» – scrive – «è un muro ma tutti gli uccelli vi volano liberamente». Da qui la sua conclusiva, terribile saggezza. Il pittore preferisce morire dentro quel «muro» ben sapendo che non potrà mai vibrare, in tutte le pietre e in tutti i mattoni, della sua folle utopia: del volo libero di tutti gli uccelli che lo hanno attraversato. Si potrebbe dire di de Staël ciò che Bernard Noël afferma di Artaud: «Artaud non scrive e non disegna come si scrive e si disegna: lo fa così eccessivamente e così costantemente che ne consegue un espandersi della vita fisiologica nella grafia che la raccoglie e la registra. È come un getto verbale. Un getto dove si distinguono serie di assonanze che si chiamano, si succedono, si completano».

A Pierre Courthion il pittore scrive: «È troppo facile definire assurdo ciò che essenzialmente è organico, vitale, ciò senza cui non si può vivere, e che forse sarà l’equilibrio di base per tutto ciò che verrà. No, è grave pronunciare una parola come questa, quando il punto più acuito di tutta questa bella storia è un’illuminazione senza precedenti». La «malattia» del pittore è la ricerca, implacabile, di questa «illuminazione», che naturalmente non può che sfuggirgli. La verità della pittura contemporanea è mostrare il cuore organico delle cose investite dall’aria e dalla luce. Addirittura, de Staël afferma che quell’«assurdo» e quella verità saranno in futuro l’equilibrio dell’arte e del mondo. Matisse, negli ultimi anni della sua esistenza, dipingeva con gli occhi bendati, benché non fosse cieco; voleva che la mano scorresse fluida sul foglio, guidata dalla matita o dal carboncino, perché lo tormentava essere schiavo del mondo che non avrebbe più visto. De Staël, invece, vive la sfida tra vedere e non vedere, rifiutando il fallimento dei suoi quadri sempre inadeguati all’oltre luminoso di cui devono essere segno.

L’atto finale è il volo in cui il suo corpo si solleva, si innalza, finalmente vede, ma subito dopo ineluttabilmente si schianta. L’opera artistica, quella autentica, è lì, nella trasparente folgorazione del sollevarsi e nell’opaca tristezza della caduta. Poiché questi due elementi non possono corrispondere, l’opera fallisce e lo scacco irreparabile conduce alla morte. Non ci sono alternative, perché non ce ne sono state, fin dall’inizio. Se Giacometti avesse perseguìto con minore ossessione l’ininterrotta scultura di una testa somigliante alla testa umana, pur lamentandosi del suo fallimento, forse avrebbe scelto la via risoluta di de Staël, demiurgo sempre deluso da un’opera che non è mai riuscito a plasmare come voleva, oggetto illuminato e fedele alla luce che lo cancellerà. Per Giacometti, al contrario di quanto pensava il pittore russo, il progetto non era mai finito e l’impossibile fedeltà alla percezione sarà solo un’interminabile, straziante spinta creativa. «Domani sarà meglio – diceva – Domani si comincia sul serio».

Bibliografia

Antonella Anedda, Una terra minima («Ipsofacto», 10, agosto 2001, ora in La vita dei dettagli, Donzelli, Roma 2009).

André Chastel, Nicolas de Staël - la vertigine del visibile, Ananke, Torino 2005.

Nicolas de Staël, Lettres, Éditions Ides et Calendes, Neuchâtel 1998.

Nicolas de Staël, Cieli immensi - Lettere 1953-1955, Edizioni  Le Lettere, Firenze 1999.

Marie du Bouchet, Nicolas de Staël. Une illumination sans précédent, Découvertes Gallimard Arts, Paris 2003.

Bernard Noël, Artaud et Paule, Éditions Lignes & Manifestes, Paris 2003 (ed. ital. Artaud e Paule, a cura di L. Frisa e M. Dotti, Joker, Novi Ligure 2005.)