Questo testo è stato letto lo scorso giugno
nell’ambito del convegno Un oceano di suoni (Università di Genova) al quale il nostro collaboratore ha pure partecipato
in veste di curatore.
Pierangelo Castagneto
how Elvis become white
C’è una credenza
largamente diffusa tra le popolazioni dell’Africa equatoriale, specialmente tra
gli Yoruba e i Mandingo stanziati nella
valle del Niger. Si dice che quando dopo un parto gemellare uno dei due nati
muore, l’altro, il sopravvissuto ne acquista tutte le forze vitali, le qualità,
e in un certo senso ha vita nell’altro gemello, rendendolo più forte, speciale.
Gli schiavi giunti dall’Africa nelle Americhe hanno portato con sé questa come
molte altre simili credenze. Nel Sud degli Stati Uniti in particolare, tra la
comunità degli schiavi tali superstizioni si sono perpetuate, spesso
amalgamandosi con le diverse pratiche cristiane dando vita a forme sincretiche
di religione. Tra i bianchi del Sud, malgrado che tali credenze siano state
inevitabilmente considerate espressioni primitive di paganesimo, e quindi
d’inferiorità, quest’apparato
rappresentativo magico-simbolico di matrice africana della realtà ha assunto un certo significato, fino a
diventare un elemento –o una sorta di frame of reference- del Sud stesso.
E’ probabile che l’8
gennaio del 1935 –più precisamente alle quattro del mattino– quando Elvis Aron
Presley nacque dopo che –trentacinque minuti dopo, per continuare nella
mitologia elvisiana- la madre, Gladys Presley, aveva dato alla luce un altro
bambino nato morto, Jesse Presley, gemello di Elvis, qualcuno in famiglia abbia
pensato a quella vecchia diceria africana. Quel che è certo, è che lo stesso
Presley, nel corso della sua esistenza, farà molte volte riferimento al fatto,
essendo fermamente convinto, come ebbe a dire in un’intervista del settembre
del 1956, che “quando uno dei gemelli moriva, l’altro ereditava la forza di
entrambi”.
La famiglia Presley,
Gladys e Vernon, in quegli anni vivono a East Tupelo, Mississippi, cittadina
reclamizzata nella WPA Guide to the
Magnolia State come “forse il migliore esempio nel Mississippi di ciò che i
commentatori contemporanei chiamano il Nuovo Sud”. In buona sostanza però,
Tupelo era la casa di molti di quegli operai ‘poveri e bianchi’ e di quei
mezzadri che potevano alimentare una visione di un’industria che sorgeva nel
mezzo di un ambiente di tradizione agricola. Una società dai vincoli razziali
ben definiti, dove bianchi e neri dividevano uno spazio definito secondo le
regole che Jim Crow imponeva, ma dove, come in una descrizione faulkneriana
–Tupelo dista poche miglia da Oxford-, bianchi e neri erano indissolubilmente
legati allo stesso, speso tragico destino.
Nell’estate del 1946,
la famiglia Presley lascia East Tupelo per trasferirsi in città. North Green
Street è situata in un quartiere abbastanza rispettabile, ma abitato da gente
di colore rispettabile. “Sebbene” ricorda Guralnick, “la casa affittata dai
Presley fosse stata concepita come una delle due o tre case “bianche” della
zona, essi si trovavano circondati da famiglie di colore, chiese frequentate da
gente di colore, club sociali frequentati da gente di colore e scuole per
alunni di colore”. Fu in questo contesto che Elvis, frequentava la settima
classe, aveva iniziato a suonare la chitarra. La musica intorno al giovane
Elvis era quanto di più vario si possa immaginare in virtù della racially mixed
community di Tupelo. Se il gospel ascoltato durante i servizi religiosi della
First Assembly of God Church costituirà una delle componenti irrinunciabili del
futuro linguaggio musicale di Elvis –soprattutto in termini di voice
addressing: non a caso Presley riconoscerà per tutta la sua carriera l’enorme
debito musicale verso i Blackwood Brothers, un quartetto bianco di gospel assai
popolari all’epoca nell’area-, il country, lo swing, il bluegrass,
l’hillibilly, di artisti quali Ernst Tubb, Bill Monroe, Hank Snow, Jimmie
Rodgers, Hank Williams, Red Foley, Bob Willis, trasmessi dalla stazione radio
locale WELO, rappresenterà un elemento essenziale nell’alchimia di quello che
sarà il rock’n’roll. C’era poi ovviamente la musica degli afroamericani, quella
trasmessa dalle radio e quella che usciva dai locali per la gente di colore di
Tupelo, come l’Elks Club, “dove magari un piccolo gruppo che aveva preso come
modello Louis Jordan poteva suonare Ain’t
Nobody Here But Us Chickens, o dove Jimmy Lunceford o Earl “Fatha” Hines
potevano fermarsi a bere qualcosa dopo aver suonato a un ballo tenuto all’Armory,
ai Fairgrounds, giù in centro”.
Per ragioni legate
alla non cristallina condotta paterna – già nel 1937, Vernon era stato
arrestato per emissioni di assegni falsi, nel 1948 era nuovamente incappato
nella rete della legge questa volta per traffico illegale di alcolici- la
famiglia Presley nel novembre del 1948 si trasferì a Memphis.
La città del
Tennessee, importante nodo stradale e ferroviario, nel corso del Novecento è
stata la capitale commerciale, economica e culturale del Midsouth,
rappresentando un formidabile polo di attrazione per la gente di colore di una
vasta aerea e tappa fondamentale negli spostamenti migratori verso le città
industriali del Nord. In particolare, dagli anni Venti fino alla Depressione,
ma anche successivamente nei primi anni Cinquanta, la celeberrima Beale Street
costituiva il maggior punto di riferimento non solo del Delta ma della Black
America, eclissando persino Harlem. Da
un punto di vista strettamente musicale, Memphis, punto di riferimento urbano
per il vicinissimo Delta, svolse pertanto un ruolo particolarmente
significativo nell’evoluzione del blues. Quando Elvis giunse in città, la scena
quanto mai stimolante era dominata da artisti del calibro di Howlin’ Wolf, BB
King, Bobby Bland, Sonny Boy Williamson, solo per citarne alcuni.
“Cucinano, mangiano e
dormono in un’unica stanza. Bagno in comune. Niente privacy. Hanno bisogno di
una sistemazione migliore. Le persone da me intervistate sono la Signora
Presley e il figlio. Un bravo ragazzo. Sembrano persone davvero a posto e
meritevoli di essere aiutate. Si consiglia un alloggio in Lauerdale, se
possibile, vicino al luogo di lavoro del marito”. Questo è il rapporto di un
incaricato della Memphis Housing Authority in seguito alla richiesta di Vernon
Presley al fine di ottenere un alloggio dalla pubblica amministrazione. Cosa
che accadde: Elvis con la famiglia si sistemarono infatti nelle Lauerdale
Courts, un complesso di case popolari nel pieno centro della città.
E’ a Memphis che la
formazione dello stile elvisiano prende forma. Da un punto di vista musicale
l’insieme delle radio della città formavano una specie di lampada di Aladino di
stili e prospettive diverse. L’emittente WHBQ di Dewey Philips trasmetteva
regolarmente gli hit degli artisiti neri più in voga al momento: da Booted di
Rosco Gordon, a She Moves Me di Muddy Waters, da Lonesome Christmas di Lowell
Fulson alla nuovissima Dust My Broom di Elmore James. Bastava cambiare
stazione, passando alla WDIA, una radio definita “La Stazione Madre deu Negri”,
per poter ascoltare BB King, Howling Wolf, Sonny Boy Williamson ed altri
maestri del blues. Ogni sabato sera c’erano poi le trasmissioni del Grand Ole
Opry. Ma è a Memphis che Elvis, vagabondando per Beale Street con la sua
compagnia di amici, darà inizio a quella spettacolare operazione di racial
crossing che lo renderà celebre. Innanzi tutto assumerà un look del tutto
eterodosso: capelli scuriti, acconciati alla maniera degli afroamericani con
abbondante uso di brillantina, basette tipiche dei camionisti, abiti dai colori
elettrici acquistati in negozi come quello dei fratelli Lansky, in Beale
Street, che rifornivano i più famosi cantanti artisti neri di blues e rhythm
and blues. Questa graduale adozione di un “black style” avrebbe lasciato a dir
poco interdetti molti. Come ricorderà James Blackwood, uno dei membri del
celebre quartetto gospel, “Un sacco di persone erano spaventate da Elvis perché
era così diverso dagli altri. Arrivava con i suoi capelli lunghi e le basette e
quei pazzeschi abiti, e nessuno sapeva come prenderlo”. In un certo senso,
Elvis stava materializzato quel white
nigger che Norman Mailer avrebbe descritto nel famoso saggio del 1959.
In questo breve
scritto Mailer aveva codificato “l’etica del rinnegato”, che combinava elementi
bohemien alla delinquenza giovanile, alla lower-middle-class “average white”,
all’hipster, il tutto permeato da una irresistibile attrazione per la cultura
nera:
Sapendo che tutta la
sua vita sarebbe stata una guerra, nient’altro che guerra, scriveva Mailer, il
Negro difficilmente poteva concedersi le sofisticate inibizioni della civiltà,
cosicché per sopravvivere egli manteneva integra l’arte della primitività, egli
viveva in un presente ingigantito, egli si conservava per i vizi del sabato
notte, abbandonando i piaceri della mente per i più obbligatori piaceri del
corpo, e nella sua musica dava voce al
carattere e alla qualità della sua esistenza, alla sua rabbia e alle infinite
forme di gioia, lussuria, languore, rabbia, spasmo, presa, urlo e disperazione
del suo orgasmo.
Un “urban male
renegade”, alla Jemes Dean verrebbe da dire, un reietto autoemarginato che
nella visione di Mailer incarnava una sorta di risposta esistenzialistica ad un
periodo caratterizzato da un estremo conformismo sociale. Vivere
pericolosamente al margine, significava pertanto liberarsi dalla gabbia di una
cultura regimentata, i cui limiti razziali erano scandalosamente invalicabili.
Ma nell’analisi di
questa riformulazione della whiteness confluivano altri elementi. Secondo il
critico Eric Lott, Elvis sarebbe stato un esemplare continuatore di quella
tradizione di blackface minstrelsy, -una forma di intrattenimento sviluppatasi
del Nord degli Stati Uniti intorno alla metà dell’Ottocento- nella quale artisti bianchi si mascheravano
da neri per assumerne, di fatto, le caratteristiche di virilità, una pratica di
appropriazione razziale, che consentiva ad artisti bianchi di “diventare neri,
di acquisire the cool, virility, humility, abandon, or gaité de couer che erano
le essenziali componenti dell’ideologia bianchi rispetto alla mascolinità
nera”.
“If I could find a white man who had the Negro sound and the Negro feel,
I could make a million dollars”. Questa
frase, forse la più citata nella storia del rock’n’roll appartiene, riportata
in vario modo, a Sam Phillips, proprietario della Sun Records. Quando il
diciottenne Elvis entrò per la prima volta al 706 di Union Street negli studi
di registrazione della Sun era l’agosto del 1953. Elvis incise un hit pop del
1949, My Happiness, -quello che nelle
sue intenzioni doveva essere un regalo per il compleanno della madre- Marion Keisker, la segretaria di Phillips,
annotò sulla sua scheda personale: “Interessante. Buon cantante di ballate.
Tenere a mente”. Sin dagli esordi, Sam
Phillips, giovane intraprendente nativo di Florence, Alabama, con anni di
esperienza nel campo radiofonico, aveva pensato di dar vita ad una casa
discografica che potesse dare un’opportunità di incidere ad “alcuni dei
migliori artisti di colore” del Mid South. Così, nei primi mesi del 1953, negli
studi della Sun Records erano stati realizzati dischi di grande successo come Bear Cat di Rufus Thomas, Feelin’ Good di Junior Parker, e Just Walkin’ In the Rain dei
Prisonaires. Quello che accadde nel luglio del 1954, più precisamente tra il 5
e il 6 luglio, negli studi della Sun, quando si incontrarono Elvis Presley,
Scotty Moore, e Bill Black è storia. Con l’incisione di That’s All Right, un blues di Arthur “Big Boy” Crudup, si era
prodotta quell’alchimia tra musica bianca e nera che Sam Phillips stava
disperatamente cercando.
Quale fosse il debito
di Elvis nei confronti della musica nera lo si deduce guardando al materiale,
dieci pezzi in tutto, che Elvis incise per la Sun dal quel luglio 1954 fino
all’agosto del 1955. Di questi ben cinque – That’s All Right, Milkcow
Blues Boogie, Good Rockin’ Tonight,
Mystery Train, Baby Let’s Play House,
possono essere rubricati sotto la categoria di blues o rhythm and blues.
Sarà lo stesso Presley, qualche
anno dopo, a riconoscere la sua matrice musicale: “ La gente di colore lo ha
cantato e suonato [il rock’n’roll] nella stessa maniera in cui io ora lo
faccio, man, per più anni di quanto io ne possa sapere,” disse in un’intervista
al Charlotte Observer nel 1956. “ Lo
hanno suonato così nelle loro baracche e nei loro juke joints e nessuno se ne è accorto fino a quando l’ho
sistemato io. L’ho preso da loro. Giù a Tupelo, Mississippi, ero solito
ascoltare Arthur Crudup picchiare sulla sua chitarra nella maniera in cui ora io
lo faccio e pensavo che se avessi avuto un posto dove potevo sentire tutto
quello che il vecchio Arthur sentiva, sarei stato un musicista come nessun
altro”.
Il successo delle
prime incisioni di Elvis fu scandaloso. Fu soprattutto l’impossibilità di
connotare il suo stile, che trasgrediva ad ogni classificazione razziale, a
sconcertare. Sam Phillips,
nell’introdurre il suo artista a Horace Logan, organizzatore del Lousiana
Hayride, una manifestazione dedicata essenzialmente ad un pubblico bianco
amante della country music, per ottenere un’apparizione di Elvis, una dovette
ribadire più volte che si trattava di un “white boy”, tanto spiazzante
risultava in quel contesto la sua sonorità. Non tutti i critici sono concordi
nel riconoscere però questa, per così dire, discendenza. Nelson George, un scholar
nero, nel suo classico studio The Death
of Rhythm and Blues, pur ammettendo che il giovane Presley “più di ogni
altra stella del rock’n’roll arrivò vicino a catturare la esibita sessualità di
molti artisti neri di R&B”, e ancora che la sua musica “aveva spaventato
genitori e guardiani della segregazione razziale”, non ha il timore di
affermare che Elvis, come la sua carriera adulta avrebbe dimostrato, fosse “un
artista con limitate ambizioni musicali e nessuna reale dedizione a quello
stile nero che lo avevano reso così pericoloso”.
Quello che rendeva
veramente pericoloso Elvis in quegli anni non era in ogni caso solo la sua
musica; era il modo in cui sul palco interpretava la musica, erano quelle
“lascive contorsioni che eccitavano la folla”, come ebbe a dire in un rapporto
il capo della polizia di Louisville, a sconcertare l’America benpensante e
maccartista degli anni Cinquanta. Un uso del corpo –Elvis the Pelvis- tipico degli afroamericani, e per questo
inaccettabile. Era un rifiuto di un intero fenomeno, il rock’n’roll, che
accanto ad artisti bianchi quali Presley, all’interno del quale si vedevano
primeggiare artisti neri quali, Chuck
Berry, Little Richard, Fats Domino, Bo Diddley.
Nel Sud segregazionista, in particolare, gli attacchi a quelli che
venivano definiti “congo rhythms” o “jungle music” si fecero più virulenti. Il
rock’n’roll, accanto alla storica decisione pronunciata il 17 maggio 1954 dal
chief justice Earl Warren, comunemente ricordata come Brown vs. Board of
Education of Topeka, Kansas, che dichiarava incostituzionale la separazione
scolastica su base razziale – il famigerato principio “separate but equal”- ,
sembrarono essere due fattori che, nel promuovere l’integrazione razziale, avrebbero messo in moto un processo di
dissoluzione morale della società americana.
Quand’è che Elvis
diventò bianco?
Se si prende in
considerazione la produzione di Presley dal momento dell’abbandono della Sun
per la RCA (agosto 1955) fino alla sua partenza per il servizio militare in
Germania (marzo1958), il legame con la musica nera resta più che solido. In
questo periodo, grazie anche e/o soprattutto a canzoni di artisti neri o da
rese popolari da, quali I Got A Woman (Ray
Charles); Money Honey (Drifters); My Babe Left Me e So Glad Yo’re Mine (Big Boy Crudup); Tutti Frutti (Little Richard); Lawdy,
Miss Clawdy (Lloyd Price); Shake,
Rattle and Roll (Big Joe Turner); Hound
Dog (Big Mama Thorton); Don’t Be
Cruel e All Shook Up (Otis
Blackwell); I Need You So (Ivory Joe
Hunter); One Night (Smiley Lewis), alle
quali per altro andrebbero aggiunte quasi tutte le composizioni del duo Jerry
Leiber e Mike Stoller, -due autori considerati in ragione della loro vena
bluesy “white negroes” dal critico sopraricordato Nelson George - canzoni quali
Jailhouse Rock, Treat Me nice, Baby I
Don’t Care, King Creole, Elvis costruisce la sua regale leggenda.
Nel suo ritorno in
sala d’incisione, (Elvis Is Back, 1960) la scelta delle canzoni è ancora
fortemente black-oriented: c’è la classica versione di Fever, ancora di Otis Blackwell, il blues standard Reconsider Baby di Lowell Fulsom, o le
bluesy songs quali Dirty, Dirty Feeling
di Leiber e Stoller, A Mess of Blues
di un altro leggendario duo di autori Doc Pomus e Mort Shuman.
Ma è proprio da
questo momento che, tuttavia, Elvis “take off” la sua blackness seguendo una
consolidata tradizione dell’entertainment tipica dei blackface performers:
raggiungere il successo assumendo sembianze afroamericane per poi, una volta
raggiunto il successo, abbandonarle e rientrare nei confini razziali di
appartenenza. Così come molti altri che prima di lui avevano reso popolare la
cultura afroamericana, Presley “aveva iniziato ai margini della whiteness”
sottolinea David Roediger “ma col passar del tempo durante la sua carriera finì
per controllare i confini razziali da una posizione razziale di maggiore
controllo”. Ovviamente, principale artefice/colpevole di questo processo di
igiene razziale dell’immagine di Elvis sarebbe secondo molti il suo manager,
fac totum, il Colonello Tom Parker. E’ indubbio che il nuovo corso della
carriera artistica di Elvis sotto l’egida di Parker sia stata segnata in questo
senso: la ventina di film che Presley interpretò negli anni Sessanta sembrano
essere una prova evidente del suo ingresso nel “white business”. Simbolicamente
per altro, Parker aveva sancito il “crossing back” della linea del colore da
parte di Elvis al ritorno del servizio militare con un’apparizione del suo
protetto al Frank Sinatra Timex Show, mandato in onda il 12 maggio del 1960
dalla ABC. Qui Elvis, duettando con “The Voice”, paga il suo tributo al simbolo
stesso della celebrità etnica bianca: quel Frank Sinistra i cui dischi venivano
dati come premio per il concorso “Why I Hate Elvis”, e che aveva definito il
rock’n’roll un genere “cantato, suonato e scritto per lo più da scimmiotti
cretini”. Rinchiuso a Graceland, una mansion situata appropriatamente, si
potrebbe dire, a Whitehaven nella suburbia di Memphis, Elvis andò via via
perdendo tutti i contatti con quelle radici nere che avevano contraddistinto la
sua musica, quel suono magicamente prodotto negli studi della Sun.
Sul finire degli anni
sessanta, dopo un decennio passato ad interpretare una seria infinita di
sciocchi film e incidere esangui canzoni, Elvis ebbe un sussulto. L’occasione
gli fu fornita da quello che viene ricordato come The’68 Comeback Special, un programma trasmesso nel dicembre del
1968 dalla NBC. Si tratta di uno spettacolo di circa un’ora, dove numeri
musicali in stile Broadway con balletti, coreografie, orchestrazione, si alternano
a una performance “unplugged” che vede impegnato Elvis con i suoi vecchi
parterns dei tempi della Sun, Scotty Moore e D.J. Fontana. In questa parte
dello show Elvis rispolvera i vecchi classici con una verve e una carica a
volta inaudita. Indossando una vestito di pelle nera, quasi a richiamare la
“blackness” della sua musica, scherza con gli amici sugli esordi ormai
lontani, –“quando abbiamo cominciato,
nel 1912?” dice rivolgendosi a Scotty Moore- ribadisce una volta per tutte
l’origine del rock’n’roll - “ci sono stati grandi cambiamenti nella musica,
grandi miglioramenti(…) mi piacciono alcuni dei nuovi gruppi, i Beatles, i
Byrds e altri ancora (…) ma la loro musica, il rock’n’roll è essenzialmente
gospel e rhythm and blues e da essi è scaturita”. Per alcuni minuti Elvis si
rituffa in un passato che ormai non gli appartiene più: aggredisce la chitarra
con una furia inaudita, i movimenti del suo corpo –la sua celebre smorfia del
labbro, l’ondeggiare sensuale delle anche- sono per una volta ancora quelli
scandalosi del King of rock’n’roll, un re che da tempo ha lasciato il suo trono
vuoto.
Tra le canzoni
proposte c’è né una in questo senso particolarmente significativa, Baby, What You Want To Me Do, un blues
del grande Jimmy Reed, che Elvis esegue per ben otto volte nei sei giorni di
registrazione dello spettacolo. Questa canzone diventa una sorta di ossessione:
Elvis ne sembra attratto irrimediabilmente, ripeterla più e più volta sembra
essere un tentativo di esorcizzare quei demoni –blue devils- del passato che
ancora si agitavano dentro di lui e mai lo avrebbero abbandonato.
Lo show si conclude
con un brano, If I Can Dream, scritto
per l’occasione da un autore nero Earl Brown. Composta alla vigilia di grandi
tragedie americane, gli assassini di Robert Kennedy e Martin Luther King, Jr,
la canzone è un accorato appello alla riconciliazione e alla pace, un richiamo
alla fratellanza e alla comprensione universale. Elvis la canta con grande
trasporto, in uno dei rari casi in cui egli non presta alcuna attenzione ai
limiti formali. Ma ormai si è compiuto un processo irreversibile: indossando un
abito candido, dopo aver tagliato il cordone ombelicale che legava ad un tempo,
Elvis, come ci ricorda Eric Lott, sembra così definitivamente sancire “la
necessaria soppressione della blackness
in the making of American whiteness”.
Da questo momento
Presley sarà quell’icona della cultura bianca americana che noi ben conosciamo:
l’Elvis con i suoi abiti bianchi, fregiati dall’aquila americana, dei celebri
concerti a Las Vegas o alle Hawaii,
Elvis fotografato con il presidente Nixon, o con il segregazionista
governatore dell’Alabama George Wallace, Elvis amministrato in maniera più che
spregiudicata dal Colonnello Parker, autorecluso a Graceland, protetto dalla
Memphis Mafia. Nelle registrazioni di
questi anni, riaffiora d’ogni tanto nella scelta di alcuni canzoni, quella
radice nera che così fortemente aveva marcato la sua produzione iniziale: così
non possono essere dimenticati alcune straordinarie incisioni blues quali Tiger
Man di Joe Hill Louis, My Babe di
Little Walter, Merry Christmas, Baby,
di Johnny Moore, Just A Little Bit,
di Rosco Gordon, Stranger In My Hometown
di Percy Mayfield, o ancora brani di Ivory Joe Hunter, uno degli autori neri
preferiti da Elvis.
Recentemente lo
storico Pete Daniel, riferendosi alla situazione del Sud degli Stati Uniti
negli anni Cinquanta ha parlato di “lost revolutions”, proprio ad indicare come
in quegli anni sia andata perduta una grande occasione per la società
americana, soprattutto in riferimento all’integrazione razziale, e che la
musica per un momento avesse potuto essere il veicolo per questo potenziale
rivoluzionario cambiamento. Elvis fu uno degli attori di questa rivoluzione
mancata: come altri non seppe trarre le estreme conseguenze da tale processo.
Forse, citando le
celebri parole di Karl Marx, si può concludere dicendo che “gli uomini fanno la
propria storia nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé,
determinate dai fatti e dalla tradizione”.