Umberto Eco (1932-2016)

Philippe-Jean Catinchi,  “Le Monde” e “Internazionale” - http://www.internazionale.it/”, 20 febbraio 2016 

Pioniere della semiotica, la scienza dei segni, e teorico del linguaggio (in particolare della ricezione), tema che percorre in filigrana tutta la sua opera di romanziere, lo scrittore e saggista italiano Umberto Eco è morto il 19 febbraio 2016, nella sua abitazione, all’età di 84 anni, come confermato dalla famiglia al quotidiano italiano la Repubblica.

Semiologo di fama internazionale, autore di numerosi saggi sull’estetica e i mass media, si è avvicinato tardi al romanzo, ma è il notevole successo della sua prima opera, Il nome della rosa, che gli ha garantito una notorietà quasi universale.

Nato in Piemonte, ad Alessandria, il 5 gennaio 1932, in una famiglia della piccolissima borghesia (suo nonno è un trovatello e suo padre, primo di 13 fratelli, è il primo della famiglia a passare dal proletariato al ceto impiegatizio), Umberto Eco cresce in un ambiente segnato dalla guerra e dalla resistenza (”Tra gli undici e i 13 anni, ho imparato a schivare le pallottole”, ha raccontato una volta quest’uomo di solito restio a qualsiasi confidenza intima) e, a conclusione degli studi universitari in filosofia ed estetica a Torino, sostiene nel 1954 – sotto la guida del filosofo antifascista Luigi Pareyson – una tesi sull’estetica di Tommaso d’Aquino. Pubblicata nel 1956 col titolo Il problema estetico in San Tommaso e ampliata nella riedizione del 1970, questo audace studio mette a confronto il modello gnoseologico tomista con quello strutturalista.

Ma Eco non si limita agli studi teorici. Dal 1955 è assistente in televisione e collabora ai programmi culturali della Rai. Mentre stringe amicizia col musicista Luciano Berio, aderisce alla neoavanguardia che, per quanto “di sinistra”, rifiuta la letteratura “impegnata”. Eco collabora così, a partire dal 1956, con Il Verri e la Rivista di estetica. Dirige nel 1960 una collana di saggi filosofici per l’editore milanese Bompiani e prolunga quest’avventura collettiva partecipando nel 1963, con alcuni giovani intellettuali e artisti della sua generazione tra cui Nanni Balestrini e Alberto Arbasino, alla fondazione del Gruppo 63, nel quale la riflessione su una nuova estetica s’iscrive nel solco tracciato da Joyce, Pound, Borges e Gadda, tutti autori fondamentali per Eco.

Prima dell’austero mensile Quindici, lanciato nel giugno 1967 e futuro laboratorio dei movimenti del 1968, lo stesso gruppo lancia nel 1963 Marcatré, una rivista di cultura contemporanea (arte, letteratura, architettura, musica) che vivrà fino al 1970. Nel frattempo il giovane filosofo, attratto dal giornalismo, avvia una duratura collaborazione con la stampa (The Times literary supplement dal 1963, “l’Espresso” dal 1965).

Ma non abbandona l’insegnamento: dal 1966 al 1970 è docente alla facoltà d’architettura di Firenze e a quella di Milano, ed è invitato a quelle di San Paolo (1966), alla New York University (1969) e a Buenos Aires (1970).

Nel 1971, lo stesso anno in cui fonda Versus, rivista internazionale di studi semiotici, Eco insegna semiotica alla facoltà di lettere e filosofia di Bologna, dove ottiene la cattedra nel 1975. Per Eco questa scienza sperimentale inaugurata da Roland Barthes è, più che un metodo, un’articolazione tra riflessione e pratica letteraria, cultura dotta e popolare. Lo dimostra in maniera magistrale fin dalle sue lezioni al Collège de France, dove è titolare della cattedra europea nel 1992 (”La ricerca di una lingua perfetta nella storia della cultura europea”). Forte della sua notorietà e spinto da un’incredibile energia, Eco dirige inoltre l’Istituto di discipline della comunicazione all’università di Bologna e presiede l’International Association for Semiotic Studies.

Per un impegno critico nei confronti dei media

I suoi primi passi nella televisione italiana hanno messo molto presto Eco in contatto con la comunicazione di massa e le nuove forme espressive, come le serie tv o il mondo del varietà. Qui scopre il kitsch e le celebrità del piccolo schermo, tutti aspetti della cultura popolare che affronta in Apocalittici e integrati (1964), La Guerre du faux (La guerra del falso), raccolta di articoli scritti tra 1973 e 1983, pubblicata in Francia nel 1985, e di Il superuomo di massa. Studi sul romanzo popolare (1976).

In Apocalittici e integrati, in particolare, distingue, all’interno della ricezione dei mass media, un atteggiamento “apocalittico”, che deriva da una visione elitaria e nostalgica della cultura, e uno “integrato”, che privilegia il libero accesso ai prodotti culturale senza interrogarsi sulle loro modalità di produzione. A partire da questo punto, Eco invita a un impegno critico nei confronti dei mass media. In seguito le sue ricerche lo portano a soffermarsi sui generi considerati minori, come il romanzo poliziesco o quello d’appendice, dei quali analizza i processi e le strutture, ma anche su fenomeni tipici della civiltà contemporanea, come il calcio, il divismo, la pubblicità, la moda o il terrorismo. Da questo deriva la sua partecipazione nei dibattiti civili, che siano su scala locale o internazionale.

La curiosità e il campo d’indagine d’Umberto Eco conoscono pochi limiti, ma la costante della sua analisi rimane la volontà di “vedere del senso laddove saremmo tentati di vedere solamente dei fatti”. È in quest’ottica che ha cercato di elaborare una semiotica generale, spiegata, tra gli altri testi, in La struttura assente (1968), Il segno (1973) e quindi nel suo Trattato di semiotica generale (1975). Eco contribuisce così allo sviluppo di un’estetica dell’interpretazione.

Si preoccupa della definizione dell’arte, che tenta di formulare fin dal suo libro Opera aperta (1962), nel quale getta le basi della sua teoria mostrando, attraverso una serie di articoli dedicati in particolare alla letteratura e alla musica, che l’opera d’arte è un messaggio ambiguo, aperto a un’infinità d’interpretazioni, nella misura in cui in diversi significati convivono all’interno d’un solo significante. Il testo non è dunque un oggetto finito, ma al contrario un oggetto “aperto” che il lettore non può limitarsi a ricevere passivamente e che implica, a sua volta, un lavoro d’invenzione e interpretazione. L’idea-forza di Umberto Eco, ripresa e sviluppata in Lector in fabula (1979) è che il testo, non spiegando tutto, richiede la cooperazione del lettore.

In questo modo il semiologo elabora il concetto di “lettore modello”, un lettore ideale che risponde a norme previste dall’autore e che non solo dispone delle competenze necessarie a cogliere delle intenzioni, ma sa anche “interpretare i non-detti del testo”. Il testo si presenta come un campo interattivo dove lo scritto, per associazione semantica, stimola il lettore, la cui cooperazione è parte integrante della strategia attuata dall’autore.

In I limiti dell’interpretazione (1990) Umberto Eco si sofferma nuovamente su questa relazione tra l’autore e il suo lettore. S’interroga sulla definizione dell’interpretazione e sulla sua stessa possibilità. Se un testo può sostenere qualsiasi tipo di senso, allora dice tutto e niente. Affinché l’interpretazione sia possibile occorre definire i suoi limiti, poiché questa deve essere finita per poter produrre del senso. Umberto Eco s’interessa qui alle applicazioni dei sistemi critici e ai rischi di appiattimento del testo, tipici di qualsiasi sforzo interpretativo. In La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea (1993) studia dunque i progetti fondatori che hanno animato la ricerca di una lingua ideale. Una lingua universale che non è una lingua a parte, lingua originale e utopica o lingua artificiale, ma una lingua costituita idealmente da tutte le lingue.

Approdo tardivo alla finzione

Professore, giornalista e ricercatore, per tutta la sua carriera Eco ha raccolto in volume molte delle sue conferenze e dei suoi interventi, dai più umoristici (Diario minimo, 1963, e Il secondo diario minimo, 1992) ai più polemici (In cosa crede chi non crede?, 1996, e Cinque scritti morali, 1997). Riprendendo la sfida raccolta per Bompiani alla fine degli anni cinquanta, quando aveva curato la serie Storia figurata delle invenzioni, una sorta di summa illustrata, si dedica tardivamente a delle personali sintesi sullaStoria della bellezza (2004) e la Storia della bruttezza (2007) o la Storia delle terre e dei luoghi leggendari (2013), oltre a un sorprendente Vertigine della lista (2009) il cui tono combina il sapere dell’erudito con la libertà dello scrittore. Ma Eco è anche un romanziere.

Le sue opere di finzione sono, in un certo senso, l’applicazione delle teorie proposte in Opera aperta o Lector in fabula. I suoi due primi romanzi, Il nome della rosa (1980) e Il pendolo di Foucault (1988) riscuotono, contro ogni attesa, un fenomenale successo, e si presentano come romanzi nei quali si mescolano esoterismo, umorismo e indagine poliziesca.

A ogni pagina l’erudizione e la sagacia del lettore vengono sollecitate da un enigma, un’allusione, un pastiche o una citazione. Il primo romanzo, ambientato nel 1327, un’epoca segnata da crisi politiche e religiose, da eresie e inquisizioni, si svolge in un’abbazia dove un monaco francescano, che prefigura Sherlock Holmes, cerca di risolvere una serie d’oscuri crimini. Il libro offre tre possibili letture, a seconda che il lettore s’appassioni all’intrigo, al dibattito sulle idee o alla dimensione allegorica che presenta, attraverso il multiplo gioco di citazioni, “un libro fatto di libri”.

L’Umberto Eco lettore di Borges e di Tommaso d’Aquino è più che mai presente in questo romanzo che ha ottenuto un successo mondiale ed è stato adattato al cinema da Jean-Jacques Annaud. Il pendolo di Foucaultmescola storia e attualità, attraverso un’indagine condotta nell’arco di più secoli, da parte dei templari, all’interno di varie sette esoteriche.

Terzo gioco romanzesco, L’isola del giorno prima (1994) è un’evocazione della piccola nobiltà terriera del diciassettesimo secolo. È il racconto di un’educazione sentimentale ma anche, attraverso una descrizione dell’identità piemontese, un romanzo nostalgico e in parte autobiografico: l’autore si sofferma sulle proprie radici, come farà più tardi nel suo libro più personale, La misteriosa fiamma della regina Loana (1994), una sorta di autoritratto mascherato in cui il racconto si fonde a immagini illustrate dell’infanzia. Il protagonista Yambo, alter ego di Eco, è uno smemorato che ricostruisce la sua identità appoggiandosi sulle letture d’infanzia degli anni trenta, quando i romanzi d’avventura francesi e i fumetti statunitensi rivaleggiavano con la propaganda fascista. Questa “evasione” intima, eccezionale in un uomo per il quale il pudore è la regola, è unica nella sua carriera.

Da Baudolino (2000), straordinaria cronaca dei tempi di Federico Barbarossa narrata da un geniale falsario, a Numero zero (2015), favola tanto nera quanto feroce sui fallimenti dell’informazione contemporanea, passando da Il cimitero di Praga (2010), nel quale il tema del complotto, così presente nella sua opera, è al centro di una terribile finzione, Eco affronta con portata più ampia alcuni interrogativi di natura etica, mettendosi alla prova in un gioco d’erudizione e malizia, tra verità e menzogna, ma anche forma, poiché lo scrittore si diverte a mescolare i registri e a moltiplicare le sfide.

Eco è uno dei nomi dati ai bambini orfani, acronimo latino che fa riferimento alla provvidenza (”ex coelis oblatus”, dono del cielo, in un certo senso). Una strizzata d’occhio che ben si confà al più scherzoso degli eruditi, il più colto dei sognatori. Se a 12 anni, quando sognava di diventare tranviere, parodiava Dante, Umberto Eco continua a spiazzare i commentatori.

Filosofo destinato a entrare nell’esclusiva Library of Living Philosophers, sembra anche destinato a passare alla storia come romanziere. Sorta di Pico della Mirandola convertito all’Oulipo; definito “il grande alchimista” da Jacques Le Goff, che fece da consulente al regista di Il nome della rosa, Umberto Eco è certamente, se non altro, l’ideale dell’intellettuale poliedrico, del maniaco testuale, del lettore innamorato.

(Traduzione di Federico Ferrone)

 

Claudio Gerino, “la Repubblica” http://www.repubblica.it/”, 20 febbraio 2016

… L'ultimo suo libro, pubblicato nel 2015, proprio il giorno del suo compleanno, è stato "Numero Zero" , uscito per i tipi della da Bompiani. Un libro ambientato nel 1992 che parla di una immaginaria redazione di un giornale, con forti riferimenti alla storia politica, giornalistica, giudiziaria e complottistica italiana, da Tangentopoli a Gladio, passando per la P2 e il terrorismo rosso. E uscirà postumo il suo ultimo libro con il titolo Pape Satan Aleppe. La pubblicazione inizialmente prevista a maggio è stata anticipata al 27 febbraio. Lo ha annunciato Elisabetta Sgarbi: "Il libro lo aveva finito, consegnato e corretto. La copertina è disegnata dal suo amico Cerri. È un volume di saggistica, di interventi su temi di attualità e lo pubblicheremo insieme ai suoi precedenti dieci titoli di saggistica". E sarà il suo contributo alla neonata casa editrice "La Nave di Teseo"

 

Umberto Eco, “l’Espresso”,  12 giugno 1997 –  http://espresso.repubblica.it/”, 20 febbraio 2016

Non sono sicuro di dire una cosa originale, ma uno dei massimi problemi dell'essere umano è come affrontare la morte. Pare che il problema sia difficile per i non credenti (come affrontare il Nulla che ci attende dopo?) ma le statistiche dicono che la questione imbarazza anche moltissimi credenti, i quali fermamente ritengono che ci sia una vita dopo la morte e tuttavia pensano che la vita della morte sia in se stessa talmente piacevole da ritenere sgradevole abbandonarla; per cui anelano, sì, a raggiungere il coro degli angeli, ma il più tardi possibile.
Recentemente un discepolo pensoso (tale Critone) mi ha chiesto: "Maestro, come si può bene appressarsi alla morte?" Ho risposto che l’unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni.

Allo stupore di Critone ho chiarito. "Vedi," gli ho detto, "come puoi appressarti alla morte, anche se sei credente, se pensi che mentre tu muori giovani desiderabilissimidi di ambo i sessi danzano in discoteca divertendosi oltre misura, illuminati scienziati violano gli ultimi misteri del cosmo, politici incorruttibili stanno creando una società migliore, giornali e televisioni sono intesi solo a dare notizie rilevanti, imprenditori responsabili si preoccupano che i loro prodotti non degradino l’ambiente e si ingegnano a restaurare una natura fatta di ruscelli potabili, declivi boscosi, cieli tersi e sereni protetti da un provvido ozono, nuvole soffici che stillano di nuovo piogge dolcissime? Il pensiero che, mentre tutte queste cose meravigliose accadono, tu te ne vai, sarebbe insopportabile.
Ma cerca soltanto di pensare che, al momento in cui avverti che stai lasciando questa valle, tu abbia la certezza immarcescibile che il mondo (sei miliardi di esseri umani) sia pieno di coglioni, che coglioni siano quelli che stanno danzando in discoteca, coglioni gli scienziati che credono di aver risolto i misteri del cosmo, coglioni i politici che propongono la panacea per i nostri mali, coglioni coloro che riempiono pagine e pagine di insulsi pettegolezzi marginali, coglioni i produttori suicidi che distruggono il pianeta. Non saresti in quel momento felice, sollevato, soddisfatto di abandonare questa valle di coglioni?"
Critone mi ha allora domandato: "Maestro, ma quando devo incominciare a pensare così?" Gli ho risposto che non lo si deve fare molto presto, perché qualcuno che a venti o anche trent’anni pensa che tutti siano dei coglioni è un coglione e non raggiungerà mai la saggezza. Bisogna incominciare pensando che tutti gli altri siano migliori di noi, poi evolvere poco a poco, avere i primi dubbi verso i quaranta, iniziare la revisione tra i cinquanta e i sessanta, e raggiungere la certezza mentre si marcia verso i cento, ma pronti a chiudere in pari non appena giunga il telegramma di convocazione.
Convincersi che tutti gli altri che ci stanno attorno (sei miliardi) sino coglioni, è effetto di un’arte sottile e accorta, non è disposizione del primo Cebete con l’anellino all’orecchio (o al naso). Richiede studio e fatica. Non bisogna accelerare i tempi. Bisogna arrivarci dolcemente, giusto in tempo per morire serenamente. Ma il giorno prima occorre ancora pensare che qualcuno, che amiamo e ammiriamo, proprio coglione non sia. La saggezza consiste nel riconoscere proprio al momento giusto (non prima) che era coglione anche lui. Solo allora si può morire.
Quindi la grande arte consiste nello studiare poco per volta il pensiero universale, scrutare le vicende del costume, monitorare giorno per giorno i mass-media, le affermazioni degli artisti sicuri di sé, gli apoftegmi dei politici a ruota libera, i filosofemi dei critici apocalittici, gli aforismi degli eroi carismatici, studiando le teorie, le proposte, gli appelli, le immagini, le apparizioni. Solo allora, alla fine, avrai la travolgente rivelazione che tutti sono coglioni. A quel punto sarai pronto all’incontro con la morte.
Sino alla fine dovrai resistere a questa insostenibile rivelazione, ti ostinerai a pensare che qualcuno dica cose sensate, che quel libro sia migliore di altri, che quel capopopolo voglia davvero il bene comune.
E’ naturale, è umano, è proprio della nostra specie rifiutare la persuasione che gli altri siano tutti indistintamente coglioni, altrimenti perchè varrebbe la pena di vivere? Ma quando, alla fine, saprai, avrai compreso perchè vale la pena (anzi, è splendido) morire.
Critone mi ha allora detto: "Maestro, non vorrei prendere decisioni precipitose, ma nutro il sospetto che Lei sia un coglione". "Vedi", gli ho detto, "sei già sulla buona strada."