Jean Montalbano

Dylan da cucciolo

Interpellato per una scheda biografica in vista dell’esordio discografico, lo sconosciuto provinciale  Zimmerman rispose inventandosi d’essere arrivato a New York, da autentico hobo, in vagone merci, allorché era ormai diffuso l’uso, per gli stessi “vagabondi”, di spostarsi su più comodi Greyhound. Calcando sulla scelta del mezzo dismesso, e compiacendo alle attese scontate di un pubblico purista, si manifestava la volontà di smarcarsi, superandoli all’indietro, dai movimenti dell’Altra America anni sessanta.

Memorizzate le coordinate apprese dalle lezioni di Woody Guthrie, Dave Van Ronk o Ramblin’ Jack Elliott il suo acclimatamento nel Village, già centro del mondo pur se italianizzato (erano pochi gli imprenditori che non pagassero il pizzo) è costituito da esibizioni, pomeridiane prima che serali, in locali poveri o nei club meno pidocchiosi come il Café Wha ? o il Gaslight.

In molte pagine di Chronicles volume 1 (Feltrinelli, 2005) Bob Dylan è spesso prodigo di dettagli e minuzie ma altre volte è reticente su fatti e persone che avremmo voluto conoscere meglio. Siamo gettati, senza preavviso, in un mare di fatti e nomi allegramente dissipati che deridono le gerarchie alto-basso cui si attiene il coscienzioso biografo; una profusione che può stordire prima di riuscire a dare profondità e prospettiva alla costruzione della “persona” Dylan. Qui l’autore (in tre dei cinque “assaggi” in cui si articolano le cronache) ripensando al ragazzo che fu, occupato a definire una propria voce e ad assorbire sovranamente quanto gli serviva per crescere, affascina per quel che dice almeno quanto per ciò che tace o su cui sorvola.

Se in qualche strada gli capita di imbattersi ancora in carri tirati da cavalli e di stringere persino la mano di un Dempsey che, scambiatolo per aspirante boxeur, lo invita a irrobustirsi, altrove incrocia l’elmo vichingo del cieco Moondog intento ad esibirsi sui marciapiedi, o, nel Café Wha ?, Karen Dalton e Fred Neil (maestro cerimoniere in serate a “microfono aperto” e facente funzioni di direttore artistico ) insieme a cui, raramente, si accompagna essendo la sera  perlopiù riservata ai comici (R. Pryor, W. Allen, L. Bruce). A quell’ora Tiny Tim ed il suo ukulele si sono già dileguati dopo un rapido passaggio per le cucine. Altrettanti “nomi” che valgono molto più delle note a pie’ di pagine da cui pure sono spesso esclusi nelle storie di quegli anni.

 

Una certezza lo sorregge nel fronteggiare il vento gelato degli inverni newyorkesi: il sapersi nel mondo della tradizione con la T maiuscola, un “mondo parallelo” basato su principi e valori arcaici, azioni e virtù vecchio stile. Un salutare e solido senso comune, lo stesso che, in piena guerra fredda, consigliava agli abitanti della regione “ferrosa” del Minnesota da cui proveniva, di lasciare che i rifugi anti-atomici rimanessero, invenduti, a marcire nei depositi.

Le sue uniche credenze provengono dalle vecchie canzoni. Crede in Hank Williams che canta “Ho visto la luce”, molto più che nella luce.

Rigurgita subito il latte della “controcultura”, diffidando di ogni “movimento”; per quanto ammiri Hill, Seeger e ciò che rappresentano, lui non vuole aver niente a che vedere con la “gente ingioiellata e in visone che negli anni trenta stava a sinistra”. Un occhio giovane ma già esperto valuta gli alternativi, scettico scruta i freaks; i beati/battuti li osserva passare, al di là del vetro delle finestre di appartamenti di cui è ospite incostante, come fiocchi di neve smarriti e segnati da un breve lampeggiare. Per lui le gesta cantate di un rapinatore o di un baro valgono più della crisi congolese o dei proclami di barbudos cubani: la politica è decantata e distanziata nella griglia del folksong e certi personaggi lo attraggono perché sembrano uscire da una canzone, emanazioni sdrucite ma ancora riconoscibili di un canone fermato nei vecchi dischi di cui va a caccia.

Dylan (nome, scopriamo, scelto per assonanza più che per vicinanze di poetica, anche se gli capitò di entrare in uno dei pub che occasionarono le sbronze finali del gallese) traffica fin da subito con archetipi e con essi valuta il circostante. Tutto il resto, gioventù bruciata inclusa, è ritenuto unidimensionale, senza spessore, piattamente attuale proprio perché fuori da una cornice d’elezione sentita, nonostante tutto, capace di accogliere le infinite contraddizioni del vivere urbano.

E se il “folk sofisticato” di Brecht e Weill, mediato dal musical, curiosamente lo aiuta a cristallizzare la difficile decisione di farsi creatore di un proprio repertorio, così risolvendo la crisi occasionata dalla mera riproposizione del patrimonio, uno dei momenti cruciali del libro, l’accelerata verso il destino manifesto di folksinger, è la scelta di lasciare dove sta, inedito, lo scartafaccio di canzoni affidatogli da Woody.

Sicchè, quando incontra i blues di Robert Johnson, un Dylan già svezzato vi scorge una scuola di libertà, non un altare cui prosternarsi.

(Questo lo differenzia dall’analoga ricerca di un Harry Smith la cui disperazione nel sapersi fuori dal “primitivismo americano” è compensata solo agli accesi furori collezionistici)

Continuando a sapersi eco elettrica di quella “repubblica invisibile” (su cui si sarebbe dilungato poi Greil Marcus) imparerà a scriversi divagando per l’Highway 61, fuori dal paradiso, espulso nell’imperfetto nuovo mondo di reggiseni e cartoline-precetto dati alle fiamme.

Trent’anni dopo, forse vinto da un attacco di amarezza patriarcale, dovrà ammettere che il mondo non necessita più di songs e che se nessuno scriverà più canzoni, la gente non ne soffrirà: ”Nobody cares”.