Carlo Luigi Lagomarsino
Dupaty e Genova
Se Novi Ligure è giustamente celebre per il cioccolato, da qualche anno
in qua può menar vanto, nel suo piccolo, anche per l’editoria. Fra le case
editrici che vi operano, l’ultima nata è Città del silenzio che ha fatto la
scelta - ripubblicando testi minori o dimenticati - di occuparsi del XVIII
secolo. A cura di Davide Arecco, e con un’ampia e documentata prefazione di
Carlo Bitossi, la casa editrice ha pochi mesi fa pubblicato parte delle Lettres
sur l’Italie del magistrato francese Charles Mercier Dupaty, il quale nel 1785 intraprese un lungo viaggio allo scopo di studiare le
procedure giuridiche in uso nei diversi stati tirrenici della penisola.
Pubblicate in volume nel 1788, queste osservazioni del Dupaty conobbero un gran
successo nella società colta di tutta Europa. La sezione proposta oggi dalle
edizioni Città del silenzio in Lettere sull’Italia nel 1785 è
chiarita già nel sottotitolo: da
Genova a Firenze. Sarà nella città toscana che Dupaty troverà in Pietro
Leopoldo il sovrano illuminato di cui la Francia avrebbe bisogno, ma alle due
repubbliche già incontrate, quella di Genova e quella di Lucca, in particolare a Genova, riserverà parole aspre.
I viaggiatori francesi del Settecento espressero generalmente un certo
grado di malanimo nei confronti della società genovese, a cominciare da
Montesquieu e de Brosses. La remota ragione di questa ostilità potrebbe essere
indicata - almeno parzialmente – nello spostamento genovese, vecchio di due
secoli, in campo ispano-asburgico. Nella prefazione è ricordata la relazione
dell’ambasciatore francese a Genova all’epoca di Montesquieu, Jacques de
Comprendon, che contro i liguri aveva lanciato l’invettiva di “perfida nazione”
e si era preoccupato di elencare i precedenti che, all’occhio dei francesi,
facevano di quella dei genovesi (“vermi repubblicani”, così si era espresso de
Brosses) una Repubblica infida che si era meritata i cannoneggiamenti del Re
Sole. Tuttavia ai tempi di Dupaty Genova, militarmente debole, teneva come
potenza di riferimento proprio la Francia, che anzi, quarant’anni prima,
all’epoca dell’insurrezione contro gli austro-sardi, era venuta in suo
soccorso.
Ciò nonostante Dupaty non si discosta dalla tradizione. Si associa
infatti alla consueta deplorazione secondo la quale gli splendidi palazzi
sarebbero utilizzati non già, come il loro sfarzo lascerebbe supporre, per
svolgervi i cerimoniali di un’amabile vita di corte, bensì per le pedestri
transazioni d’affari fra uomini che per giunta – fuori delle grandi occasioni -
vestono ordinariamente di scuro. Il magistrato francese fa pure dell’ironia
sulla propensione dei genovesi alla beneficenza, a suo dire causa di mendicità,
e non apprezza la tolleranza nei confronti dei mussulmani, ai quali è
consentito un luogo di culto. Osserva una diffusa reticenza a governare e
rimane esterrefatto per la libertà di movimento che hanno le donne. “A Genova”,
scrive, “c’è tanto libertinaggio, che non ci sono prostitute; tanti sacerdoti,
che non c’è religione; tanti a governare, che non c’è governo; tante elemosine,
che i poveri vi brulicano”.
Queste deplorazioni sono tanto più sorprendenti quando si pensi che
Dupaty, traduttore e commentatore di Beccaria,
si poneva nel solco dei philosophes, aveva tenuto rapporti
epistolari con Voltaire e li aveva con Condorcet. Benché fosse un regio
funzionario, si era segnalato per l’opposizione al sovrano, al punto di
scontare un periodo di carcerazione. Eppure nelle Lettere sull’Italia
non manifestava soltanto idiosincrasia nei confronti degli istituti
repubblicani o sembrava non avvedersi fino a che punto Genova rimanesse una
piazza finanziaria di prima grandezza – così da potersi spiegare la vita nei
palazzi - ma con la sua prosa arguta da
letterato fine e di buone frequentazioni, volgeva al negativo degli elementi
che verosimilmente ci si sarebbe aspettato dovessero essere colti sotto il
segno contrario.
“Licéntia”, n.4, luglio2007