Caterina Ricciardi

su Andre Dubus

I

Amico di Kurt Vonnegut e Richard Yates, pluripremiato in sordina (per esempio, con il Pen/Malamud Award), stimato da John Updike, Stephen King, Elmore Leonard e John Irwing, Andre Dubus, di origini cajun-irlandesi (un buon innesto: i cajun sono canadesi-acadiani cattolici forzatamente emigrati nella Louisiana francese del 1713), ha avuto più risonanza sugli schermi che nelle librerie. In Italia, infatti, è approdato da poco, ma sembra che Mattioli 1885 abbia fatto ormai quasi il pieno mettendo in circolo, dopo i primi tre volumi, l’ultima raccolta, Ballando a notte fonda (prefazione di Paolo Cognetti, traduzione e postfazione di Nicola Manuppelli, pp. 233), arrogandosi così il copyright su uno scrittore poco fortunato (anche nella vita) che contribuisce di suo alla miracolosa, infinita tessitura della storia del racconto negli Stati Uniti. Sì, miracolosa, nel senso che dai tempi di E.A. Poe, e anche prima (Washington Irving), questo genere letterario non ha mai smesso di raccontarsi con echi a lunga gettata, reiventandosi di generazione in generazione.

Inutile chiedersi da chi nasce Dubus: può essere da Hemingway, il leader del Novecento, o da Henry James, Stephen Crane, F. Scott Fitzgerald, John Cheever, o da Richard Yates, alla cui memoria il libro è dedicato. Non ha importanza, perché la voce che lo domina è quella spuntata spontaneamente dall’humus americano. Che si parli di guerra di Cuba (1898) o di guerre mondiali e Vietnam, di Michigan o di Louisiana, di America o Europa, oppure di chalet da pionieri e case infestate da spettri, di adolescenti e adulti, non importa: il gene è quello, alla “Bartleby” (l’arcano “preferirei di no”), lo stesso che continuiamo a fiutare nei raconteur dell’ultim’ora, minimalisti o massimalisti (Dubus sembra a mezza strada): inutile provarci (questo è un consiglio per i nostri giovani universitari), quella stirpe è inimitabile.

Le quattordici storie lasciate da Dubus prima della morte a sessantacinque anni nel 1999, le uniche pubblicate da un grande editore negli USA, sanno di vita, di vite qualsiasi che vedono accadere qualcosa di lieve, meno lieve, di tremendo, vite in cui si beve e si fuma, il che dice molto. La scrittura è svelta, accumulante, come le emozioni; in queste pagine non si sacrificano i dettagli, si decurtano piuttosto le consequenzialità e i non detto. Per esempio, un fucile usato da un ragazzino per la caccia ai conigli va tenuto d’occhio dai genitori (o dal lettore?): è da quel mirino che esploderà il crack up del confuso – pur nella sua meticolosità – finale de L’intruso. Nulla di certo ci arriva alla fine se non che Kenneth, il ragazzino, si immagina sulla sommità di un colle, pronto a liberarsi dell’oggetto colpevole – ma tanto amato – nel vortice di un torrente. Da quell’altezza vede metamorfosi: il fucile si trasforma in “un oceano”, e se stesso in “una specie di angelo possente” che getta “tutte le armi, la crudeltà, il sesso e le lacrime nel mare”. Questa è, dopo un’apparente tragedia (o non è così?), la conclusione utopisticamente liberatoria del primo racconto, capace di segnare l’acme della raccolta anche se armi, crudeltà, sesso e lacrime continueranno a padroneggiare il seguito, con ulteriori esplosioni più o meno detonanti.

In Una canzone d’amore il detonatore è collocato nell’incipit melvilliano e sa di puro olfatto: “Chiamiamola Catherine. Quando il suo cuore andò a pezzi, aveva trentasette anni, due figlie adolescenti e un marito innamorato di un’altra donna. Sentiva l’odore dell’amore di quella donna sui vestiti di quel marito”. Difficile ricominciare a vivere (e a raccontare) nel mezzo del cammino della vita di una donna qualsiasi, collocata in una  località qualsiasi. Che si tratti di Louisiana, come nel primo racconto, o di New England, dove Dubus ha fondato casa e famiglie, non ha importanza: ogni angolo in Ballando a notte fonda è America.  A una festa nei pressi di Boston un reduce di guerra così viene visto dalla donna che si sta innamorando di lui: “Guardò Ted venirle incontro. Teneva i bicchieri di entrambi nel palmo della mano sinistra. Un proiettile da un mortaio era esploso, facendolo saltare in aria e ricadere al suolo, ancora in vita”. Ted, che si sorregge a una stampella, è ancora vivo ma, come ci fanno intendere gli esiti dell’incontro bostoniano, veicolati da un dialogo sminuzzato tutto hemingwayano, la sua parabola di vita è severamente deviata (Innamorarsi). Un quattordici di luglio (da “Bastiglia”), trascorso presso un laghetto del New Hampshire, viene amareggiato dal ricordo di quanto accaduto altrove (St. Croix, Caraibi) in quello stesso giorno di un anno prima, “quando erano andati a pescare i marlin”. Rusty, la protagonista, rivede il tramonto del sole sulla spiaggia osservando come, dal punto in cui il sole “era affondato, si erano sollevate delle palline verdi. Sembravano sparate in cielo come fuochi di artificio”: è un’anafora dell’evento in agguato. È solo lentamente – come per assesto di piccole tessere che si aggiungono a un puzzle poco loquace – che il dramma si ricompone. Il lettore lo vede, o lo immagina, come a St. Croix vedrebbe apparire e disparire la pinna rapida – o il fantasma di una pinna – di uno squalo assassino. Poi Rusty “vide il morso e il sangue schizzato in aria”. Il destino di più vite è frantumato dallo scandire della giornata americana di un anno dopo: un lago contro i Sargassi, un tacchino contro uno squalo, mare colorato di sangue e memorie del Vietnam. Ma anche qui, in Benedizioni, è un fucile appena intravisto a finire sul banco degli imputati.

E avanti, avanti così, per tagli, annunci, sineddochi ed elementi fatali che si rincorrono nei quattordici racconti fino all’ultimo, quello eponimo. Eppure il  Vietnam è quasi endemico, con o senza i suoi veterani handicappati; e le mine, o i fucili, continuano a esplodere. Si va avanti così fino al racconto Ballando a notte fonda (“Era stato colpito da una mina, in Vietnam”), in cui “il dolore spirituale” che “attorciglia l’anima” della protagonista dilaga, benché consolato da un barlume d’amore. Altrettanto ricorrente è il senso di colpa che  emerge tacito dalla pratica di  quello che pare lo sport preferito di Dubus narratore: la pesca, un rendez-vous solitamente rituale (si pensi a Hemingway a Carver a Salinger) ma giocato ad armi impari fra uomo e animale, uomo e natura. L’equazione fra le varie imparità rappresentate nelle stratificazioni significanti della raccolta è legittima ma tutto sommato il problema sembra essere, come nota lo stesso Manuppelli, quello delle responsabilità individuali e delle conseguenze delle azioni (individuali o collettive) in un mondo e in una natura che, nel mentre si disgregano, si arrestano sulla pagina impietrante di Dubus.

“il manifesto Alias Domenica”, 17 novembre 2013

 

II

Con I tempi non sono mai cattivi (traduzione di Nicola Manuppelli, pp. 232) l’editore Mattioli 1885 aggiunge un altro titolo (il quinto) al corpus italiano di Andre Dubus (1936-1999), oggi rivalutato autore di racconti della generazione maturata negli Stati Uniti dei primi decenni della seconda metà del secolo scorso, e padre (per chiarire le omonimie) dell’emergente Andre Dubus III. Il titolo di questa quarta raccolta, pubblicata nel 1983, ha un seguito in una delle due epigrafi al volume: “mai così cattivi da non trovarci un uomo buono”. Sono parole fiduciose di Tommaso Moro che, nella seconda epigrafe, Dubus accosta a quelle di una scrittrice cattolica americana, Flannery O’Connor, con la quale egli – cattolico di origini irlandesi – pare condividere molto: nella visione, nel pensiero e in una sua personale mistica teologia. “L’uomo posto nella situazione violenta” scrive O’Connor “rivela i tratti insopprimibili della sua personalità: tutto ciò che dovrà portare con sé nell’eternità”. Il tono della raccolta è condensato in questi due aforismi: fede in una bontà di fondo dell’uomo e riconoscimento di un determinismo antropologico che ne favorisce invece l’inclinazione alla caduta.

I tempi di cui si tratta nei nove racconti si estendono dagli anni ’50 all’immediato post-Vietnam. Con qualche eccezione: in Misteri dolorosi, ambientato in Louisiana, dove Dubus è nato, fa da sfondo il paesaggio del New England, con il provincialismo dei suoi insediamenti urbani e la freschezza di spazi naturali ancora poco contaminati, in cui si cercano – più o meno con successo – risorse rigeneranti, un rifugio, o un riscatto, dalle trasgressioni, le colpe, il dolore subìto o inferto ad altri. Il codice etico dei personaggi è quello strettamente cattolico, con i suoi rituali (la messa, la confessione, l’eucarestia) e i tabù (solo teorici) riguardanti l’inviolabilità del matrimonio, l’adulterio, la sessualità. Eppure, nonostante tanta ortodossia, il mondo ritratto da Dubus è fondamentalmente frantumato, e gli individui che lo abitano (padri, figli, giovani coppie, ragazzi) sono trascinati in vortici dissennati che li conducono a compiere atti crudeli, persino criminali, perché motivati dalla violenza delle circostanze, o perché si vuole salvare creature più deboli, o per semplice sventatezza. Dubus racconta l’accidentalità dell’esperienza del male.

Le cose cattive accadono. Accadono a Polly e a Ray, la giovane coppia protagonista di La ragazza carina. Lei lo tradisce e lui, ancora innamorato, una notte la stupra puntandole un coltello sulla pancia: “Non era la lama” racconta Ray “che si muoveva nello spazio fino a che non si fermava perché incontrava qualcosa, la gola o la pancia di lei. No. Sentivo la pelle di Polly che toccava l’acciaio ed era come se la lama fosse un dito della mia mano”. Il gesto è bestiale, ma, nel fondo della sua psiche, Ray è ossessionato dalla morte del fratello in guerra. Il racconto è sapientemente giocato sull’alternanza delle due voci monologanti, ciascuna con la propria visione dei fatti. Sarà Polly a uccidere Ray, senza tuttavia che nessuno dei due raggiunga una consapevolezza delle ragioni dell’altro. In Il ragazzo nuovo un giovane, che vive la crisi coniugale dei genitori in un “dolore solamente suo”, istigato da un amico schizofrenico, si lascia andare ad azioni teppistiche. Anna, protagonista del racconto omonimo, si fa complice di una rapina solo perché scopre di essersi innamorata di un delinquente. Le cose cattive accadono quasi per caso.    

Ma non sempre. Nel suo monologare Polly riflette sul filosofo Dietrich Bonhoeffer “che aveva reso buono un atto malvagio eseguendolo per un amico”. Sembra un paradosso teologico, ma Dubus sa farne materia tragica e catartica in Storia di un padre. Jack Ripley, cattolico osservante, ammette in una confessione rivolta a Dio che, solo per amore, ha aiutato la figlia – colpevole della morte di un uomo mentre guidava in stato di ubriachezza – a non denunciare il misfatto. E Dio gli risponde: “Dunque, dice Lui, la ami di più di quanto ami me. La amo più di quanto amo la verità. Allora la tua fede è debole, dice Lui. Lo stesso la tua verso di me, dico”.

La scrittura di Dubus è limpida, lirica, chirurgicamente precisa, e questo racconto, in particolare, può dirsi un piccolo gioiello. Quanto al resto, egli pare invitarci a riflettere, sospendendo il giudizio. 

“il manifesto Alias domenica”, 17 gennaio 2016