Massimo Bacigalupo

con Pound a Dublino

A Dublino, al Trinity College, si è tenuto dal 9 al 13 luglio il “25° Convegno Internazionale su Ezra Pound”. Sottotitolo poco impegnativo: “Pound e il modernismo”. In realtà Pound a Dublino non fu mai se non in tarda età, ma ebbe rapporti stretti con due colossi dublinesi, il suo maestro e mentore Yeats (di vent’anni più anziano) e il suo sodale degli anni delle avanguardie Joyce. Quasi inesistenti invece i rapporti con Beckett, che del resto apparteneva già a una generazione successiva e arrivò a Parigi mentre Pound sgombrava per Rapallo. Comunque è strano che negli anni londinesi del sodalizio con Yeats Ezra non abbia mai voluto attraversare il canale d’Irlanda per vedere la settima città della cristianità come la chiamava Joyce. Si sa che i suoi interessi lo attiravano al mondo romanzo e al romantico e solare mediterraneo. Forse anche Byron, a ben pensarci, non fu mai in Irlanda. Shelley sì, a cercare proseliti rivoluzionari, cosa per cui fu a lungo irriso dai compatrioti.

    Comunque questa volta Pound è stato accolto a Dublino con tutti gli onori. Ad avviare il convegno ha infatti provveduto Seamus Heaney in persona, con parole sensibili in cui ricorrevano alcuni versi dei Canti pisani:

 

Uomini possenti sono resi alla terra

questi i compagni

Fordie che scrisse di giganti

         e William che sognava di nobiltà

e Jim il commediante che cantava

    Blarrney castle me darlin’

     you’re nothing now but a StOWne”

 

Cioè William Yeats aveva la fissa dell’aristocrazia (come può scoprire chiunque ne leggerà L’opera poetica nell’eccellente traduzione dei Meridiani Mondadori), e “Jim” Joyce amava cantare ballate per intrattenere gli amici con forte accento irlandese (cioè la “r” arrotata e la “o” sonorizzata).

     Pound cita esattamente la ballata, intitolata O! Blarney Castle My Darling, che narra la presa di quel castello da parte dei Parlamentari di Cromwell nel 1646. Queste allusioni non sono spiegate nei vari commenti ai Cantos che ho a portata di mano. Ci sono sempre cose da scoprire in quella foresta infinita. Comunque Joyce cantava Blarney Castle e ovviamente la cosa andrebbe ripetuta nei pub irlandesi dislocati anche da noi (come quello a Roma presso S. Maria Maggiore in cui una targa ricorda che lì è stata elaborata la notevole recente traduzione di Ulisse edita da Newton Compton).

    Heaney ha segnalato giustamente nel suo saluto introduttivo come il discorrere poundiano muova senza soluzione dal tono solenne della citazione di un poemetto anglosassone (“Lordly men are to earth o’ergiven”) alla ballata popolare irlandese per fare il verso a Jim “il commediante”. Un Jim abbastanza inedito, visto che pochi sanno che Ulisse è uno dei libri più spassosi del Novecento.  Questi sbalzi di registro sono comuni in poesia soprattutto a Pound ed Eliot. Un ricordo commosso di amici morti recentemente (Ford, Yeats, Joyce) è anche un’evocazione delle loro voci, e per ognuno c’è una parola che lo definisce.

    I Cantos sono il monologo interiore di Pound, anche se la loro intonazione vuole essere epica, cioè domina la spettacolarità, il pubblico. In ciò Pound segue Yeats, anch’egli creatore di un mito personale che naturalmente ha avuto maggiore diffusione delle annotazioni criptiche di Pound. I cui Cantos però non di rado colgono il bersaglio, hanno la caratteristica della memorabilità, e non mancano di momenti ilari.

 

“Come i guantoni di Jack  Dempsey” cantò Mr. Wilson

 

    così che avresti potuto schiacciare una mosca su ciascuna

    delle sue tette

disse il vecchio pilota di Dublino

                  ovvero la definizione precisa

 

bel seno (in rimas escarsas, vedi sopra)

                                                                                                                        (Canto 77)

 

Questa “definizione precisa” non sarebbe dispiaciuta a Molly Bloom e nemmeno al suo creatore, che però era stato “reso alla terra” da alcuni anni quando Pound registrò il volo di fantasia concupiscente di Mr. Wilson (probabilmente un soldato nero suo compagno di prigionia) e la battuta del “vecchio pilota di Dublino”. Chi sarà stato? Comunque un dublinese dalla lingua forbita come quelli che si aggirano per l’Ulisse.  

     Un momento notevole del convegno dublinese è stata una tavola rotonda sulle nuove traduzioni dei Cantos. E’ intervenuta la generosa e combattuta figlia di Pound, Mary, ricordando i dialoghi col padre che portarono infine nel 1985 all’ingente edizione integrale dei Cantos nei Meridiani, tuttora disponibile (pp. XLIV+1704, € 51,00): la migliore e più completa edizione del poema mai pubblicata. Ha parlato Heinz Ickstadt, americanista berlinese, autore della postfazione alla traduzione integrale Die Cantos di Eva Hesse edita nel 2012 da Arche di Zurigo (e vincitrice del premio della Buchmesse di Lipsia): un volume di grande formato in cofanetto (pp. 1480, € 128,00). La versione dei Meridiani è meno costosa e ha il vantaggio di presentare un testo inglese più corretto. Infatti i Cantos sono anche un ginepraio testuale, e l’edizione americana corrente, ripresa da quella svizzera, contiene molti errori e revisioni spurie dovute a redattori troppo zelanti.

     Nella tavola rotonda sulle traduzioni io ho parlato della recente avventura della traduzione dei XXX Cantos per Guanda, che ha la particolarità inedita di comprendere un  indice dei nomi e una serie di autocommenti e testimonianze. E che mi ha insegnato diverse cose sull’arrischiato poema. Per esempio la compresenza in esso di sincronia e diacronia, cioè la necessità di una lettura insieme orizzontale e verticale. E la passione di Pound per la ripetizione e per certe parole. “E le onde che sorgono ma hanno forma, / conservano la forma” (canto 23). Aggiungo che il canto 1, dalle movenze arcaiche e anglosassoni, disperante da tradurre, è sempre stato fra i favoriti di Heaney, nonostante egli abbia ammesso di non essere un esploratore assiduo del labirinto poundiano.

     La tavola rotonda dei traduttori si è conclusa con una lettura a più voci di uno stesso brano nell’originale e in tre traduzioni. Era il tipico brano all’antica che apre il canto 30:

 

Compleynt, compleynt, I hearde upon a day,

Artemis singing, Artemis, Artemis...

 

Ecco all’opera il principio della ripetizione. E quanto agli scarti di tono, una pagina più in là si legge “Honour? Balls for yr. honour!”, che io ho tradotto, forse esagerando: “Onore? Mettitelo in quel posto, l’onore!”. Intanto vediamo di nuovo la ripetizione ipnotica caratteristica della lingua enfatica di Pound.

     Nell’ultima giornata del convegno John Gery di New Orleans, uno dei responsabili, ha offerto una lettura di alcune tarde pagine commosse del canto 93 (“Non ancora! Non ancora! Non svegliarti!”) e David Moody, autore di una biografia in tre volumi di cui il secondo atteso nel 2014 presso la Oxford, ha parlato di “Rendere giustizia a Pound”. Ha sostenuto che fu un errore per il poeta e i suoi legali abbracciare la tesi dell’incapacità mentale (che bloccò il processo e portò al suo ricovero dal 1945 al 1958). E’ una vecchia questione, che continua a dividere dopo tanti decenni.

     A proposito mi è venuto in mente che molti anni fa conversando con il  genero di Pound, Boris de Rachewiltz, il discorso venne sull’aldilà, e lui sbottò: “Spero che almeno nell’oltretomba non parleremo di Pound”. Ma certo ci saranno molti altri convegni e, auspicabilmente, lettori. “il manifesto-alias”, 4 agosto 2013