Luigi
Corvaglia
Dissonanze. Quel democratico di Proudhon...
Il concetto di “dissonanza cognitiva” è noto da tempo agli psicologi. Quando concetti, nozioni e credenze vissute come incoerenti o opposte sono contemporaneamente presenti nell’apparato cognitivo di un individuo, si viene a creare un disagio psicologico che necessita di esser risolto. Un esempio noto è quello del fumatore. Egli sa che fumare fa male, sa al contempo che chi fa qualcosa che lo danneggia è stupido, pertanto il tabagista dovrebbe accettare l’idea di essere stupido; questa idea, però, contrasta con la benevola autoconsiderazione che è di ogni individuo non depresso. La soluzione può essere, allora, quella di squalificare la scientificità degli studi sui danni da fumo, oppure il considerare il piacere sicuro prodotto dal suo vizio più importante di un danno incerto, come anche l’ affermare a se stessi che, “con l’inquinamento che c’è”, il fumo di sigaretta è piccola e trascurabile cosa. Tutto pur di salvaguardare la propria immagine di individuo razionale. Bene, alla dissonanza cognitiva e alle contorsioni intellettuali messe in campo per risolverla non è immune neppure il pensatore di cose politiche, l’analizzatore di grandi sistemi e neanche i tanti, troppi autori di “brevi saggi sull’universo”. Anzi. Si prendano gli anarchici, noti compendiatori di universi, tra l'altro, e il loro rapporto con il libero scambio. E’ noto che se sei per il libero scambio sei un capitalista, c’è scritto su tutti i brevi saggi. Libero scambio e anarchismo sono “dissonanti”, non possono coesistere nella stessa scatola cranica, specie se già occupata da molti altri ingombri intellettuali, quali, per esempio, quelli che fanno confondere il libero scambio col capitalismo, un sistema predatorio che nulla ha a che vedere con uno scambio realmente “libero”. Stranamente, però, anarchismo, che è per definizione libertà, e impedimento dello scambio, che è costrizione, sembrano non essere particolarmente dissonanti. Ora, intendo sottoporre al lettore un caso piuttosto lampante di risoluzione di una dissonanza cognitiva di tipo simile. L’argomento è Proudhon.
Per una strana coincidenza, sull'ultimo numero di "A-Rivista Anarchica" (n. 348, novembre 2009), Mirko Roberti sembra quasi rispondere al mio invito, pubblicato su vari fogli e noto anche a quella redazione, a leggere Proudhon. Egli, infatti, si produce in una singolare argomentazione proprio proponendo una "Lettura di Pierre Joseph Proudhon". Nell'introdurre alcuni brani del francese, estrapolati qua e là, l’autore parte dalla constatazione che “Il pensiero proudhoniano è stato oggetto di molteplici interpretazioni, le più diverse, le più disparate.” Ciò è senz’altro vero e, del resto, era proprio tale constatazione a motivare la mia proposta di approfondimento dell’opera proudhoniana. Tale approfondimento, in altri termini, avrebbe dovuto far cogliere al lettore la profonda coerenza interna del suo pensiero, onde far miseramente crollare una serie di luoghi comuni di pronto utilizzo, appunto, per le più diverse e contrastanti posizioni. Già, ma l’invito del più noto magazine libertario italiano sembra procedere in vista di ben altro fine. Si, perché Roberti scrive che “Alla radice di questa varietà interpretativa vi è il pensiero stesso di Proudhon, continuamente contraddittorio, dispersivo, costruito più per spunti ed intuizioni, che per schemi”. La posizione di Roberti è rispettabile come quella di qualunque studioso e, in un dibattito intellettuale, la differente interpretazione è per definizione una necessità, pena l’assenza del dibattito stesso. Senonché, ad un certo punto diventa piuttosto chiaro che l’autore tende a risolvere il disagio psicologico che proprio la lettura dell’autore di “Che cos’è la proprietà?” procura al suo anarchismo. Proudhon, con la sua ostinazione a non sclerotizzare le posizioni in dogmi e a considerare mobile ogni cosa viva, a vedere, cioè, come necessarie ed ineliminabili perfino le “contrapposizioni e le antinomie”, incluse quelle “tra proprietà privata e proprietà collettiva, tra socializzazione e individualismo”, perché “fanno tutte parte del tessuto della vita sociale”, provoca qualche vertigine. Manca un saldo parapetto. Ecco allora che avviene l’impensabile: l’uomo che per primo osò definirsi “anarchico” viene espulso dal novero degli anarchici! Scrive, infatti, Roberti: “I contenuti specifici della sua dottrina, privilegiando di volta in volta aspetti diversi della molteplicità socio-economica, possono definire Proudhon come teorico ora all’una ora all’altra tendenza, rendendo praticamente impossibile una “lettura anarchica” del suo pensiero. Quest’ultimo, inoltre, ha subito un’evoluzione continua caratterizzata da alcune fasi più inclini al democraticismo rivoluzionario o al riformismo che all’anarchismo.”
Uno scoop, direi, che non solo finisce con l’ accreditare le letture fantasiose da cui si era partiti, ma che, nel cercare di risolvere una serie di dissonanze cognitive con l’espulsione di tanto autore dall’esclusivo club, finisce col rivelare un pericoloso sfondo intellettuale. Infatti, il motivo della scarsa coerenza anarchica dell' uomo di Besançon, Roberti la vede nell’ “’uso assolutamente originale del metodo dialettico: a differenza di Marx ed Hegel che definiscono la realtà nella forma triadica di una tesi e di una antitesi che si risolve sempre in una sintesi superiore, Proudhon afferma che le opposizioni e le antinomie sono la struttura stessa del “sociale”, e che il problema non sta nel risolverle in una sintesi che finirebbe per irrigidire la realtà, ma nel trovare e nel costruire un equilibrio funzionale capace di far convivere più tendenze di per sé contraddittorie.”In altri termini, sembra che la colpa del fondatore dell’anarchismo moderno sia quella di considerare l’identità anarchica come qualcosa di anarchico. Ecco, questo non è dissonante….