Charles de Jacques
spettacolini con
distruzione
Jed Rasula: DESTRUCTION
WAS MY BEATRICE. Basic Books, 2015 | Jonathan Harris: THE
UTOPIAN GLOBALIST: artists of worldwide revolution, 1919–2009. Wiley-Blackwell, 2013 | McKenzie
Wark: THE SPECTACLE OF DISINTEGRATION. Verso,
2013
"Perché
non dovrebbe esserci la felicità in terra? Perché non il piacere come contenuto
della vita?. Basterebbe procedere a una votazione di massa su questo
interrogativo per rendersi conto che nessuna concezione reazionaria della vita
resisterebbe!" Lo scriveva Wilhelm Reich in quel grande classico che è Psicologia
di massa del fascismo ma avrebbe fatto la sua bella figura focalizzatrice messo in testa - prima delle citazioni
scelte dall'autore - a The utopian globalist. Il compito che si è dato Jonathan Harris con
questo libro è, fra l'altro, "quello di distinguersi dalla storiografia
ortodossa sull'arte del XX secolo politicizzata in senso rivoluzionario".
La novità starebbe nel fatto che all'avvicendamento dei gruppi, dei movimenti,
delle personalità artistiche e della loro ispirazione politica nelle condizioni
affermatesi attraverso gli intellettuali, le rivoluzioni e le guerre calde o
fredde, si è sostituito l'incrocio e l'indifferenza alla cronologia così da
porre, poniamo, Tatlin e Christo
o Beuys nello stesso ordine di connessioni estetiche
e politiche. Il titolo del libro - di cui Harris si mostra orgoglioso - non
concerne dunque "la globalizzazione" così come la si è intesa sul piano
economico in questi anni, ma come l'insieme delle irrequietezze utopistiche
emerse e riemerse più o meno intonse, col tipo umano che le ha incoraggiate e a
dispetto delle varietà formali, nell'arte degli ultimi cento anni.
A
dire il vero mi sembra arduo riscontrare in ciò alcunché di originale. Anzi, se
il libro ha un merito è proprio quello di riproporre - aggiornandolo - il
filone di ricerca sulle avanguardie e la politica radicale che nella
prospettiva d'assieme è meno sfruttato di quel che si crede e tutt'altro che
esaurito - per quanto la noia stia in agguato. Un rischio che non si corre con Destruction was my Beatrice di Jed Rasula, un professore dell'università della Georgia, che ha
diretto una rivista di poesia e lavorato a Hollywood. Il sottotitolo del libro
suona qualcosa come "Dada e la decomposizione del XX secolo", quindi
si può dire dichiarata fin da subito l'intenzione di stabilire influenze,
connessioni, coincidenze e ramificazioni della sorridente distruttività
dadaista. A differenza di Jonathan Harris, Jed Rasula non ha la velleità di un impianto originale, casomai
ha quello di un'appassionante narrazione che si imbatte in contemporanei come Ezra Pound (del quale è fra
l'altro citata la frase "parlare con lui è come parlare in una gabbia di
leopardi", riferita a Picabia) per avanzare fino
al Destruction in Art Symposium,
organizzato nel 1966 a Londra da Gustave Metzger, ma
anche ai Beatles (una "Dada soirée"). Manca invece ogni riferimento,
oggi così comune, a Guy Debord
e l'Internazionale Situazionista è menzionata appena
in un elenco di tendenze post 1945 ("Art Brut, Cobra, Brutalism,
Gutai, Kineticism, Lettrism, the Situationist
International, Nouveau Réalisme").
Già
scandagliata in 50 years of
recuperation of Situationist International è l'australiano McKenzie Wark che segue il corso
ideale di questo particolare raggruppamento che sul piano storiografico pare
accumulare versioni meste e ripetitive, quando non si tratti di vera e propria
paccottiglia, ma che, a prima vista, alle varietà formali ha preferito quelle
sostanziali ingaggiando un acclamato processo di rottura con l'ingannevole
radicalismo di molti soggetti assimilati, per così dire, all'utopian globalist.
Cosa sia riuscito a fare è da accertare. “Il pensiero situazionista”,
osserva, è spesso immaginato come una varietà particolare di hegelo-marxismo. Altre volte come l'erede della poesia di
Arthur Rimbaud e del conte di Lautréamont. Si
immagina inoltre che il suo progetto corrisponda al superamento di Dada e del
Surrealismo e che si presenti come un rivale dei movimenti contemporanei tipo Fluxus, l'Oulipo o i Beats. Lo si ricorda perfino come un precursore della
ribellione punk o come affabulazione postmoderna”. È come dire che con tutto
questo il pensiero situazionista non c'entra niente.
Il suo scopo sarebbe stato, viceversa, quello di preservare il nucleo autentico
della ribellione da ogni recupero in chiave artistica. A me torna in mente ciò
che pochi mesi prima della morte il gran capo dell'Is
Guy Debord scrisse a
Brigitte Cornand, la giornalista che diresse per la
tv un documentario su lui stesso: “ritengo che sarebbe meglio limitare "la
mia arte" all'estremismo della giovinezza, cioè al colpo di Hurlements. Credo che sarà sufficiente per stabilire
la mia la gloria, come Yves Klein aveva il suo bianco
e nero e Raymond Hains i suoi manifesti lacerati.”
Che
MacKenzie si concentri innanzitutto su Debord, è scontato, ma non ignora Vaneigem
o Vienet e nemmeno Timothy Clark, utilizzato al fine
di svolgere un discorso sull'“avanguardia mal sopportata dall'avanguardia”,
quella bohéme considerata come “prodotto di scarto inassimilabile alla società
spettacolare”. MacKenzie, ed è un pregio del suo
libro, non si limita alla gloria dei classici e si ficca fra gli epigoni,
giacché come ogni avanguardia che si rispetti il situazionismo ha generato i
suoi. Del “postsituazionismo” è tenuto in una
speciale considerazione il gruppo Tiqqun (dalla
parola ebraico-cabbalistica che significa all'incirca
“redenzione”). Questo gruppo, sorto nel 1999 ed eclissatosi due anni dopo, ha
prodotto alcuni testi (i principali sono stati tradotti in Italia presso
Bollati Boringhieri e Deriveapprodi)
più "curiosi" nella concettualità che li ha
originati ("la jeune- fille"
o l'effetto "Bloom", dal personaggio di Joyce) che altro. E l'altro,
va detto, non va oltre una ben conosciuta retorica sovrapponibile a
qualsivoglia soggetto ("la jeune-fille est le véhicule privilégié du darwinisme social-marchand").
“Fogli di
Via”, novembre 2015