Carlo Romano

Dio alla prova

Dio è un bell’argomento, su questo non c’è dubbio. Di questi tempi è anche di moda, è il dubbio a non esserlo più. Capi di stato, alte cariche istituzionali, televisioni, opinionisti di varia provenienza e cultura, tutti ribadiscono che senza la fede dei cristiani manco sapremmo cos’è l’individuo, ci sfuggirebbe il senso profondo della libertà e con esso quello della morale. Laddove oggi si inneggia alla virtù c’erano solo idoli disumani, ogni pensiero del singolo era affogato negli orrori tribali, il meglio della gioventù si dissipava nella paura e i vecchi al posto della saggezza tramandavano il raccapriccio. A quanto pare i secoli impiegati nel cercare di spiegare l’inspiegabile hanno affinato il pensiero e scatenato il progresso. Doverlo pagare col tormento che dalla più tenera età ci hanno inflitto le domandine impresse sul libretto del catechismo è, in fin dei conti, poca cosa, se poi abbiamo guadagnato delle coperte da rimboccare e i deodoranti per il water.

Nel capire cosa sia “l’essere perfettissimo creatore del cielo e della terra” altri si sono spesi ben più di noi. Attestarne l’esistenza non fu cosa facile, anche perché essendo dovunque e in ogni luogo Dio poteva essere tutto e niente. Prima si doveva aver fede, avvertiva Anselmo d’Aosta, e solo dopo si poteva accedere alla verità con l’intelligenza. Dopo secoli di sola fede, fu lui, Anselmo, a tentare per primo di darne una spiegazione logica. Se nella nostra mente Dio è ciò che nulla ha di più grande, egli non può giocarci il brutto tiro della sua infondatezza: se è perfetto perché dovrebbe subire l’imperfezione di non esistere? Argomento che mai accetteremmo se formulato da chi professa di credere nell’esistenza degli UFO o in qualsiasi altra cosa l’uomo possa immaginare. Nell’XI secolo, chissà, bastava la fantasia per rifondere come reali cose che erano vere soltanto nell’immaginazione. In ogni caso due secoli dopo Tommaso d’Aquino prese in mano il problema e chiarì che per il solo fatto di concepirlo mentalmente “non segue che Dio esista, se non come dato intellettivo”. Forte della diffusione delle opere aristoteliche, Tommaso propose nuove dimostrazioni che non fossero soltanto aprioristiche come quelle di Anselmo ma che, viceversa, tenessero conto dell’osservazione e dell’esperienza (il moto, le cause, gli effetti, il possibile, il necessario). La questione è continuata nei secoli e non si può dire che oggi sia risolta.

Una ricostruzione ampia e pacata di questi sforzi per provare l’esistenza di Dio ce la offrono le quasi cinquecento pagine, mirabilmente chiare ed accessibili, di una “storia critica degli argomenti ontologici” che Roberto Giovanni Timossi ha da poco pubblicato con Marietti: Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel. In passato Timossi aveva dedicato al soggetto altri due volumi, Dio è possibile (Muzzio, 1995) e Dio e la scienza moderna (Mondadori, 1999) nei quali, come nel nuovo, assieme a una stesura che senza privarsi del carattere nulla concede all’esibizionismo, aveva posto garbatamente a confronto i raffinati ragionamenti della teologia con la rinuncia degli agnostici a porsi problemi che superino la ragione, col disincanto di chi aveva cercato Dio senza trovarlo e con le brucianti conclusioni degli atei.

La semplice constatazione della presenza del male ha tenuto lontane tante menti da un Creatore che lo permette. Fra le “prove” dell’esistenza di Dio ci sono quelle che la postulano (Kant insegna) come necessaria fonte di una morale che non sarebbe garantita dal mondo naturale, altrimenti abbandonato alla legge crudele di una libertà senza legge (quale quella propugnata dal marchese de Sade). È nella sostanza questa la posizione adottata ultimamente da tanti personaggi pubblici che hanno destato un certo stupore, considerando la loro passata indifferenza nei confronti della fede religiosa. Ammettiamo pure che la libertà senza legge sia crudele, ma questa fede necessaria in che altro modo si può chiamare, forse malafede?

“Il secolo XIX”, 2005