Jean Montalbano
spulciando il pedigree degli urlatori. A margine del
Dino di Nick Tosches
Nel testo appena stampato da Baldini Castoldi
Dalai (ma l’originale risale ad una dozzina d’anni fa) Tosches considera la
riuscita biografica di Dino Crocetti e, andando oltre l’ammirazione snobistica
per certo analfabetismo (di gangster o di rocker o qui, più fondatamente, di
crooner) nella trasvalutazione da intrattenitore l’eleva a figura cardine, più
ancora di Sinatra, del secolo italo-americano; la vita facile, il lasciarsi
vivere ed il suo non (volere) sapere emergono dalla discarica della spazzatura
di massa come la cosa chiamata Dean
Martin, forse avatar, a prima vista improbabile ma da non scartare, di
quella saggezza (“la vecchiaia è canaglia”…) che Tosches ancora oggi ribadisce
essere lo scopo più elevato nella vita; il successo, sembra suggerire quel
profilo, al di là dello sfoggio di occupazioni appariscenti, sta in un certo
tipo di resa, ammantata di menefreghismo…
Come da curriculum di ogni buon scrittore
americano, anche Tosches elenca fieramente i suoi precedenti di barista o
cacciatore di serpenti, per tacere di pericolose trascorse conoscenze (se ne
avvertì l’eco quando alcuni anni fa si mise a cercare oppio di prima scelta nel
sud-est asiatico) ma oggi, abbondantemente oltre i cinquanta, il furore
s’illustra sulla pagina e l’urlo in qualche reading
poetico assieme a sorella Patty Smith. Nel giugno 2001 la “Nouvelle Revue
Française” ospitava un suo testo come a certificare e consacrare (fatta la tara
allo smunto periodico odierno su cui un tempo dettavano legge Gide, Drieu o
Paulhan) un percorso letterario cominciato trent’anni prima su “Creem” ed altri
fogli rock. Nei decenni il Nostro è stato stampato su “Rolling Stones”,
“Playboy”, “Vanity Fair” e catapultato nel firmamento rock-critic a partire da
quel Country (1977) in cui già si
illustrava uno stile caustico ed irriverente (un Lester Bang più controllato)
al servizio di uno sguardo prospettico capace di situare qualsiasi “trovata” o
“successo” lungo una storia ed un racconto ignorati dai suoi stessi estremi
eredi. Gravare di passato (di già accaduto) le schiene strafottenti degli
sfaticati idoli odierni, questo l’intento dell’italo-albanese (nato nel New
Jersey nel 1949); rintracciare nei Padri Pellegrini, se non nei canti omerici,
la provenienza della febbre (l’entusiasmo) che scuote e devasta le canzoni di
Hank Williams, non solo, ma dirlo con parole che fanno la spola tra linguaggio
da bettola e concisione arguta, distillando motti eroici da bestemmie ed
insulti: questo non passò inosservato nel magro orticello della “critica” rock
allora come oggi ben occupato in beghe tra fans ed ammiratori di fiato (e cervello) corto. La critica genealogica di Tosches verso chi
collocava (e stimava) i “suoi” idoli al culmine di un’epoca cadeva come
sentenza inappellabile su chiunque si illudesse di aver inventato, fatto o
detto alcunché che non fosse stato detto o fatto dieci volte meglio dieci
secoli prima.
Alimentandosi del mito dell’eterna
giovinezza, al rock’n’roll, piace
mostrarsi incurante di radici e tradizioni riconosciute in un canone condiviso:
è proprio in questo terreno (spesso letame) che Tosches sghignazzando si
muoveva a proprio agio, rivangando disinvoltamente un passato che colleghi come
Marcus o Guralnick, lontani dalla sua via
negationis, cartografavano con più reverenza.
In Unsung
Heroes of r’n’r (1984) la nascita del “rock” negli anni selvaggi prima di
Elvis sfociava nell’omaggio ai penati “spesso più stupefacenti delle novità più
coscientemente provocatrici d’oggi”(ad uno di questi, l’inafferrabile Emmett
Miller, Tosches avrebbe consacrato nel 2001 Where
Dead Voices Gather). Farsi due risate alle spalle di quel circo idiota che
è divenuto il rock’n’roll: tale lo scopo dichiarato di quel volume. Bill Haley
“è arrivato, si è trasformato in un mucchio di merda ed è sparito in un batter
d’occhio, fin dall’estate del 1954…il ciclo era già compiuto, la bestia del
rock’n’roll era stata addomesticata per farsi ammettere nell’arena dello spettacolo
di massa, ancor prima che Elvis (altro maledetto coglione) arrivasse”.
Decadimento perfezionato dai Beatles in cui il rock diventa cultura quando non muzak per terza età,
sottofondo che accompagna una lugubre discesa verso la senilità.
Nel rock (ma pure nella traiettoria di Dean Martin) il sogno americano si rifletteva e deformava come in uno specchio di luna park in grado di calamitare le allodole della cultura popolare. Né tutto nero, né esclusivamente bianco, il r’n’r’ si è sviluppato perché si vendeva; il desiderio di far soldi ne muoveva gli eroi: loro obiettivo, una Cadillac. Le storie del rock sono carnevalate: sfilate di buffoni intenti a darla a bere ai pulcinella che si credono Tucidide.
Pure, al di là di giudizi che a gusti europei possono apparire sovente immotivati o troppo taglienti e di una furia destabilizzatrice diretta a mostrare gli stracci sotto tutti i lustrini, traspariva la non troppo coperta ambizione di restituire, con le cronache minime dei suoi trascurati o dimenticati profeti, un ipotetico Vecchio Testamento del rock, ridotto negli anni settanta a muto palinsesto. Duplice dislocazione dunque: da un lato negli altarini delle divinità rock e dall’altro nella storia della cultura popolare, al cui interno le musiche “giovani” perdono molto della pretesa carica innovativa.
I migliori esiti Tosches li ottiene quando
sulla sua pagina la spola tra le due rive (canone e tradizione da un lato,
balbettio ed urli dall’altro) è fluida ed inavvertita, liberando dalla
bestemmia e dall’insulto una cesura eroica o imponendo alle luci del
palcoscenico di riconoscersi nel chiaroscuro della bettola. Opportunamente
interrogati e confutati, qui rinnegati e ribelli, cantando, rispondono.
E dunque, facendo “parlare” l’incolto (Jerry
Lee Lewis, in Hellfire del 1982, nei
cui echi biblici molti vedono la sua migliore riuscita o più vicino a noi il
pugile Sonny Liston) scoprendogli precedenti inattesi e a volte donando
immeritati quarti di nobiltà (Omero, gli elisabettiani,
Comune agli scritti d’argomento musicale ed
alle prose-finzioni (di quest’anno è pure la traduzione di La mano di Dante) rimarrà comunque negli anni l’indagine rivolta a
mondi tramati dall’accumulo di raggiri e truffe, dettagliatamente descritti
solo per poterli più veementemente condannare, lanciando l’implacabile mastino
della derisione verso i polpacci del sogno americano.