Genesio Tubino

Monsieur Croche

Claude Debussy: MONSIEUR CROCHE. Tutti gli scritti. Il Saggiatore, 2018

Nel segnalare simili tomi, si dice solitamente che “colmano una lacuna”. In questo caso, e tenuto conto della assenza di raccolte edite e curate dallo stesso Debussy, il sarcofago (cresciuto intorno al primo nucleo pubblicato di 25 articoli) approntato per il centenario della scomparsa del musicista avanza la giusta pretesa di sistemazione definitiva del lascito. Così, tra articoli, resoconti, interviste, ecc il “finalmente” del curatore Restagno se da una parte sa di liberatorio punto fermo, da un'altra echeggia il “finalmente soli” della musica e del musicista auspicabilmente liberati da compiti, sovrastrutture e investimenti che ne costringano il libero evolvere in un giro tramandato di regole pigramente ossequiate.

Nel momento stesso in cui “produce” l'alter ego Monsieur Croche, Debussy accusa la propria solitudine: i dialoghi tra i due, dirà poi, erano discorsi tra il nulla e il niente, prima della resa all'amaro sconforto inutilmente soffocato che gli intimava “Ci sono certamente cose da dire, ma a chi? per chi?”. Scomparso durante il primo conflitto mondiale, Debussy appare strettamente legato al destino della civiltà da quello affossata ma le crepe intraviste nella tradizione dal peso “vile e ipocrita” che si mangia la parte migliore del nostro pensiero, consegnandoci al rischio di sterilità e sottomissione, disegnano per lui una minaccia ed un'opportunità cui si sente destinato a dare risposte individuali, senza quelle eventuali stampelle che nel dopoguerra si chiameranno movimenti d'avanguardia con annesse scuole e manifesti. I rimandi al signor Teste di Valery cadranno nello svolgimento del metodo debussyano; allo smontaggio “critico” si preferisce la sincerità di impressioni capaci di captare i movimenti all'origine delle opere: è saggio vietarsi di andare a vedere cosa si nasconda nella pancia del giocattolo musicale. Ma come Marx non era marxista, Debussy era insofferente verso chi lo definiva impressionista, tanto meno nella sua attività letteraria (cui non furono estranee motivazioni economiche) dove, pur tra riprese e distratti abbandoni e travalicando l'esigua durata dei dialoghi immaginari con il signor Croma, tentò di conservare andamento discorsivo e tono libero, comuni comunque a tutta La Revue Blanche su cui esordì come scrittore nel 1901. Nel deprecare le complicazioni parassitarie di certa musica ostica e ostile quanto una combinazione di cassaforte, a malincuore il volto del signor Croma smette quel sorriso muto che gli increspa il volto come acqua di lago colpita da un sasso: avvertita la minaccia, pur di risparmiarsi una polemica, preferirebbe assentarsi a fumare, come l'istinto gli detta all'approssimarsi di uno scontato “sviluppo” idopo un tema di sonata. Da tale stato d'animo discendono le pagine migliori (o meglio, i paragrafi migliori, perché spesso gli articoli risultano da evidenti assemblaggi-montaggi ben lontani dalla forma dell'essai) di cui apprezziamo intuizioni, utopie e progetti fantastici: tipo, liberare la musica dai luoghi chiusi (Palais Garnier che somiglia ad una stazione ferroviaria che ospiti un bagno turco) per una ambient music sciolta dall'angustia degli orizzonti armonici che sostituisca (prendendo lezioni di libertà dallo slancio degli alberi) le onnipresenti e scontate musichette militari, gli scorci di cinematografia intuiti nei poemi straussiani, il preferire un buon valzer, per la sua semplicità e bellezza, all'accumulo indigesto di una mediocre sinfonia, o la disponibilità di magia e mistero a comando attraverso i dischi che cominciavano a diffondersi (pratica cui lo stesso Debussy brevemente si accostò). Nella nota lettera a Gide del 1913 in risposta alla richiesta di collaborazione sulla N.R.F., interrogandosi sul “bisogno singolare quanto inutile di esprimere il mio parere” l'autore di Pelleas e Melisande sottolineava ancora la sua distanza dalla prosa informatissima degli intrepidi specialisti pur preoccupato di rimettere al loro posto interpretazioni e giudizi arbitrari quanto capricciosi. A tal proposito, il militantismo distaccato degli interventi debussyani parve subire un'involuzione “nazionalista” negli ultimi anni, insieme alla riproposizione di considerazioni sommariamente già espresse altrove: lo snodo settecentesco per cui la musica francese scelse la direzione indicata da Gluck e Rameau misteriosamente s'eclissava, il riconoscimento immediato del genio stravinskiano, l’insofferenza per tanta musica italiana (Puccini incluso), ma in linea di massima, è con tutta la contemporaneità che “la noia fa affari d’oro”. E, più vicino a lui, la musica pare tutta costretta alla difensiva davanti a “piedi inopportuni” fossero pure quelli di Nijinskij e dei Balletti Russi. All’influenza del clima prebellico sarà da annoverare la diffidenza per l’elemento nordico che tenta di “soffocare” grazia e chiarezza del genio latino: ora tocca alla brutale eloquenza del cannone di richiamare a sé stessa una Francia infedele da quando smarrì il filo d'Arianna di Rameau; più che di richiamo all'ordine, si tratta di smetterla di sprecare il fiato dietro alle sinfonie, riconoscendosi modestamente piuttosto nell'operetta. A pochi giorni dallo scoppio del conflitto mondiale, nel fatidico agosto 1914, Debussy scrive che “pagheremo caro il diritto di non amare la musica di R. Strauss e di Schoenberg” paventando una perniciosa influenza di miasmi austro-tedeschi perfino sul vulcanico Stravinskji, per tacere gli accenni alla recente scoperta biografica di sangue fiammingo nel tedesco Beethoven (già nel 1903 scriveva di un'equivoca infatuazione francese per Wagner, ma il motivo dello scambio di un bel tramonto con una promettente aurora ricorre in permanenza).

Il musicista che in tempo di pace, sconfitto nel puntiglio feroce di amare sé stesso (il sano egoismo del creatore) patì spesso, fino all'oblio, le distrazioni della famiglia o delle amanti, come la dolce costrizione di un'eredità di persone “sconosciute”, nei mesi di guerra si sentì svegliato alla chiarezza e alla rivolta verso le obbligazioni passivamente ammesse. Combattente sulla carta da musica, è proprio nei mesi del 1915 che Debussy riapprese per così dire a comporre, imparando da capo senza commissioni o scadenze incombenti e senza “partito preso”, sensibile soltanto al sorgere dell'emozione. Senza annoverarsi tra i prediletti degli dei e pensando ai poveracci che si facevano massacrare nelle trincee, con un programma minimo: ricostruire, partendo dalle forze che venivano meno col passare dei mesi, un poco della bellezza contro cui si accaniva la guerra praticando una sfibrante resistenza alle sirene del passo cadenzato. E pazienza se agli abbonati della stagione i concerti in prossimità del venerdì santo continueranno a sembrare, chissà perché, più “spirituali”.