Nicholas Gauthier
Gérard de Villiers (1929-2013)
S.A.S. (Sua Altezza Serenissima)? R.I.P. …
Gérard de Villiers ci ha lasciati con
discrezione e in bellezza: poche settimane dopo l’uscita della duecentesima
avventura del principe Malko Linge, La Vengeance du Kremlin (“La vendetta del
Cremlino”). Quest’ultimo S.A.S. non è esattamente come i precedenti, è più un
bilancio geopolitico che le peregrinazioni trepidanti alle quali l’autore ci
aveva abituati in quasi mezzo secolo. Così l’eterno anticomunista – la sua
carriera era cominciata al settimanale d’estrema destra “Rivarol” – rivela la fascinazione
della politica di Vladimir Putin, che dalle rovine ha ricostruito la Russia su
«patria, religione e Stato» e che, appena entrato nel suo ufficio al Cremlino,
subito appese un ritratto dello zar Pietro il Grande.
Paradossale per uno che, durante la Guerra fredda,
ostentava un atlantismo di stretta osservanza? Piuttosto è stato un malinteso. Infatti
egli considerava il suo avatar cartaceo un «samurai europeo» e si
disperava che il Vecchio Continente s’affidasse allo zio Sam. Anti-comunista
certo, anti-americano evidente, Gerad De Villiers – che spesso ho avuto l’onore d’intervistare dal
1990 – era anzitutto un europeo all’antica, più incline a Ernst Jünger che a Jean Monnet.
«L’uomo meglio informato del pianeta», lo definisce
il New York Times. Ma lo era anche, oltre
vent’anni fa, quando lavorava per “Minute”,
altro settimanale di estrema destra, che pochi consideravano prestigioso? E
soprattutto chi, allora, prendeva sul serio Gérard de Villiers?
Quando gli chiedevo se il disprezzo mediatico l’avesse ferito, egli allontanava
la domanda col dorso della mano, mormorando: «Rien à foutre de tous ces cons» (“Non me ne frega
niente di tutti quegli scemi”)… Era seduto nell’immenso ufficio al primo piano
del suo hôtel particulier di avenue Foch, a Parigi.
L’arredamento era – come dire – sconcertante. Una
statua in grandezza naturale d’una donna nuda, accucciata, col caricatore di un
mitra Schmeisser tra le gambe. Io mi stupii, lui
mi disse: «Una bella arma, vero? La migliore della Wehrmacht
sul fronte orientale. Dopo aver ucciso tanti comunisti, tanto vale che ora
soddisfi una signora, anche se di bronzo…»
Tutto uno scrittore sintetizzato in una sola arguzia.
Provocatore, era furiosamente misantropo, soprattutto. Le sue memorie – Sabre au clair et pied au
plancher (“Spada in pugno, piedi per
terra”), edite da Fayard – hanno un titolo
singolarmente eloquente. Sì, Gérard de Villiers non
aveva simpatia per i connazionali, preferiva di gran lunga i gatti, le cui
ceneri, religiosamente conservate in una decina di urne funerarie, ornavano lo
scaffale sovrastante la statua di cui dicevo. Non credente, spiegava: «Spero
però che Dio creda in me… ».
L’ostentata misantropia era la migliore garanzia di
obiettività: chi non ama nessuno, non fa favoritismi… Nel Vicino e nel Medio
Oriente, regione del mondo dove S.A.S. aveva l’abitudine di far scorrere il
sangue degli uomini e le lacrime delle donne, graziava solo i libanesi.
Perché? «Perché vivono su un vulcano in eruzione e resistono in piedi di
giorno, pur festeggiando la notte!».
Chapeau, dunque, davanti a un uomo che è riuscito
nella difficile scommessa di ogni scrittore: mettere vita nell’arte e arte nella
vita, come Louis Jouvet insegnava agli allievi del
conservatorio in Entrée des artistes di Marc Allégret.
Qui siamo ormai all’uscita dell’artista, la cui opera, per sempre, si fonde con
la vita.
(Trad. di Maurizio Cabona per “barbadillo.it”dell’articolo pubblicato da “bvoltaire.fr”)